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domenica 8 luglio 2012

I GIALLI DELLA NERA OGNI LUNEDI SU GAZZETTA DI CASEETA







UCCISE IL GENERO DI CUI ERA L’AMANTE 

ACCADDE  AD ALBANOVA  NEL GIUGNO DEL 1931

      Albanova  - Prima di chiamarsi Casal di Principe ( il casale del  principe Massa Vitelli )  si chiamava Albanova.  La nostra Provincia, è risaputo, è stata da sempre più nota per le sue vicende negative, che per quelle positive. Finanche Francesco Mastriani, detto il Zola del sud, nel suo “I misteri di Napoli”, racconta un episodio, che non sembra affatto inventato, e che bolla con il marchio dell’infamia la triste zona dei Mazzoni, oggi teatro delle gesta del clan dei Casalesi. In particolare, Casal di Principe e S. Cipriano d’Aversa, due paesi  che,  già all’epoca, e parliamo del 1846, avevano una nefasta notorietà.
     Nel capitolo intitolato “La Mal’aria”, Mastriani racconta di un contadino di Casal di Principe,  tale  Gesualdo Diana, ( non sappiamo se sia lontano parente a quella faccia da mariuolo  del senatore Lorenzo Diana ) che doveva recapitare, all’una di notte, una lettera a Napoli, per conto della sua padrona, Donna Amalia, moglie di Don Alfonso Maria, dei marchesi di Massa Vitelli.
     La notte del 21 gennaio di quell’anno era gelida ed il fittavolo – che a piedi doveva raggiun­gere Napoli - allo stremo delle forze, chiese un passaggio ad un carrettiere di S. Cipriano e si vide, di contro, deriso, scambiato per un ubriacone ed addirittura scacciato con la frusta. E Mastriani così commenta l’episodio: “I carrettieri in generale credono più al diavolo che a Dio. Quelli di S. Cipriano non credono né a Dio né al diavolo. S. Cipriano è un casale poco distante da Aversa, fa tutto un migliaia di anime; ma sono anime, di cui la più parte non si possono dire immagini di Dio. Se tutti gli abitanti della terra fossero come le anime di S. Cipriano, il Signore Iddio si pentirebbe per la terza volta di aver creato l’uomo. Per buona sorte – ha detto Victor Hugo – ‘Dio sa dove trovare le anime’. E certamente, non andrà a pescarle a S. Cipriano d’Aversa”.
     E forse per questi antichi retaggi, la nostra è una terra, che oggi, viene giu­dicata, come una fucina di masnadieri, di ladri, di assassini e di camorristi. Ingiustamente. E veniamo al primo episodio,  di questa serie di “I gialli della Nera”, che evocheremo nel  corso di questi mesi di calura facendo ricorso ai giornali dell’epoca e alla nostra consumata esperienza di cronisti giudiziari e non solo.  
     La protagonista  - di questo primo episodio - è una contadina di 47 anni,  Antonietta Caterino. Sposata con un contadino,  dedito principalmente,  al duro lavoro della terra.  Belloccia e formosa,  una bellezza prorompente,  alla Sofia Loren,  che tutto il paese ammirava… ma.  Costei, il 13 giugno del 1931 – come raccontano le  poche cronache dell’epoca - uscita a precipizio dalla sua casetta, sita in corso Umberto, si  diresse  alla vicina Caserma dei carabinieri, ove al maresciallo  confessò  di avere ferito gravemente  il genero. Pochi minuti dopo il funzionario,  fatta rinchiudere la donna in cella di sicurezza, si recava sul luogo del delitto e ivi rinveniva mortalmente colpito il genero della Caterino, il contadino  24enne  Doroteo Panaro.

     Il misero, che invano la moglie, Filomena, cercava di soccorrere, aveva una ferita d'arma da “fuoco” alla regione della carotide ma maresciallo, tuttavia, ritenne  opportuno di richiedere d'urgenza l'intervento di un sanitario.  Poi  trasportato all'ospedale in gravissime  condizioni purtroppo perse la vita.
     In quanto alla causale della tragedia, anche se ad Albanova – spesso teatro di sanguinose  vendette -  ( specialmente per ragioni di onore )  erano un poco abituati, il delitto sconvolse l’opinione pubblica,  per il singolare movente: amore trasversale ossia… rapporto incestuoso ( poco aduso in loco ).
     Le serrate e pronte indagini della Fedelissima, esperite durante la notte,  avevano  potuto accertare che il giovane Doroteo Panaro,  da pochi giorni solamente aveva sposato la giovane Filomena Caterino ( con la quale era fidanzato da tempo )  e che fino dal primo giorno di frequenza era stato accolto in casa della suocera, che per. il giovanotto  aveva sempre avuto una straordinaria predilezione.
     Che effettivamente la Caterino gli volesse un gran bene, più che materno, e dimostrato dal fatto che da qualche tempo in famiglia avvenivano frequenti scenate di gelosia da parte della povera Filomena, la quale si vedeva trascurata non solamente dalla propria madre, ma anche dal marito e al quale aveva ingiunto: “O lasci stare mia madre o ti uccido”.   
     Recentemente, infatti, il Panaro, accortosi che la china sulla quale si era messo lo avrebbe condotto alla tragedia, aveva deciso di troncare ogni rapporto con la suocera, alla quale aveva anche consigliato di trasferirsi altrove. Ma la sua proposta fu accolta molto male dalla Caterino. Fra suocera e genero la sera, a tarda ora, si intavolò una violentissima discussione  alla quale prese parte anche la rispettiva figlia e moglie la quale, con il pianto nella voce, scongiurò la madre a dimenticare quanto era avvenuto e a lasciarla in pace.
     La “mantide”,  che non voleva lasciare il suo  giovane “amante” finse di piegarsi al volere della figlia. Ad un tratto, però, tolta da un cassetto una pistola, si avvicinò cautamente al genero e fulmineamente gli esplose contro un colpo. Vistolo poi cadere corse a costituirsi. Fine della storia. Dopo il carcere si aprirono le porte del Manicomio.


22 SETTEMBRE 1935: ENTRA IN AZIONE IL PLOTONE DI ESECUZIONE
L’ULTIMA CONDANNA A MORTE PER OMICIDIO E VIOLENZA CARNALE SU UNA BAMBINA DI SEI ANNI  COMMINATA DALLA CORTE DI ASSISE

     S. Maria C.V.  -  E’ l’alba del  22 settembre del 1935 nei pressi del Cimitero, alla via cosiddetta “Degli Spiriti”, il plotone di esecuzione entra in azione per fucilare un uomo di 54 anni,  nativo di Nola ( allora quella zona del nolano faceva parte del circondario del Tribunale di S. Maria C.V.) che si era macchiato del grave omicidio di una bambina.
     Ecco il laconico telegramma del cancelliere della corte di Assise al Procuratore: “   Stamane all'alba, in uno spiazzo presso il cimitero, è stata eseguita, a mezzo di un plotone della Divisione speciale della Polizia, la sentenza della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del 4 giugno 1935­, che condannava alla pena di morte Giuseppe Foresta fu Carmine, per omicidio aggravato,  per avere, mediante strangolamento, cagionato la morte della bambina  Gilda Bonaiuto, di anni 6, nell'atto di commettere sulla medesima violenza carnale”.  Era l’ultima volta che il plotone entrava in azione,  perché il successivo 1944  fu definitivamente  cancellata, in Italia, la pena di morte.
COLONNELLO  DELLA FINANZA UCCISO DA UN BRIGADIERE DI SESSA AURUNCA –
L’omicida Antonio Toscano fu riconosciuto totalmente insano di mente – Accadde a Roma il 14 marzo del 1939
     Sessa Aurunca -  L’assassino del  Colonnello della finanza,  ucciso a rivoltellate da un ex brigadiere , è stato tratto in   arresto a Roma, martedì sera.  Il fatto di sangue era avvenuto alle ore 12,30 del 14 marzo del 1939,  in via dell'Olmata, davanti alla caserma della locale Legione territoriale della Regia  Guardia di Finanza.
     Si è appurato che – dal racconto degli astanti - un individuo esplodeva vari colpi di rivoltella contro il colonnello Nicodemo Ciardullo, comandante di detta Legione, uccidendolo sull'istante.  L'omicida, tale Antonio Toscano, nato a Sessa Aurunca e qui domiciliato in via del Pellegrino n. 96,  ex brigadiere della R. Guardia di Finanza allontanato dal Corpo nel 1933 per gravi infrazioni disciplinari, è stato subito arrestato dalle Guardie di Finanza accorse.
     E' risultato che, precedentemente al suo licenziamento dal Corpo, il Toscano ebbe a commettere altre gravi infrazioni disciplinari rendendosi passibile di deferimento al giudizio della Commissione di disciplina e che, sottoposto ad accertamenti sanitari, fu riconosciuto affetto da sindrone “nevrasteniforme” e giudicato non completamente responsabile.

CONFERMATO PER BEN TRE VOLTE LA CONDANNA ALL’ERGASTOLO
Nel 1946 Uccise a pugnalate la sua compagna che faceva prostituire a Napoli
S. Maria C.V. -  Confermato un ergastolo già annullato tre volte.  Per tredici anni un omicida ha sperato invano di non essere condannato a vita. Invece non c’è stato nulla  da fare per Ilario Montebello. I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno confermato la sentenza della Corte di Assise di Appello di Napoli,  con la quale era stato condannato all'ergastolo.
     Questa tremenda parola, ergastolo, Ilario Montebello l'ha ascoltata per tre volte dai giudici. Da sedici anni  è stato condannato in Assise ed in Assise di appello al carcere a vita ma i giudici della Corte di Cassazione hanno sempre annullato le rispettive sentenze. La quarta volta però è stata fatale all'imputato: i supremi giudici hanno respinto il suo ricorso confermando l'ergastolo.
     Ilario Montebello ha ormai quarantotto anni e ricorda appena il suo delitto, compiuto fra l'altro in preda ai fumi dell'alcool. Nel 1946 l'imputato aveva a Napoli una relazione con una donna palermitana, Rosaria Scaglione, vedova con tre figli. La donna era piacente e  l’uomo l'aveva costretta a prostituirsi  per le strade di Napoli. 
     All’epoca   Napoli era ancora in preda al caos del dopoguerra. Ogni sera l'uomo si recava dalla donna togliendole tutto l'incasso della giornata, non lasciandole nemmeno il danaro per vivere lei e i figli. Il 10 gennaio 1946 alle 22,30 avvenne la tragedia. Rosaria Scaglione, quella sera,  voleva riservare per i suoi tre  figli parte della somma guadagnata col suo turpe mestiere ma Ilario Montebello, abbrutito dall'alcool, la tempestò di pugnalate per strada.  
     Le indagini per scoprire l'assassino iniziarono nell'ambiente degli sfruttatori. Rosaria Scaglione mori il  giorni dopo all'ospedale degli Incurabili. Era stata soccorsa, moribonda, da una sua compagna, Carmela Delle Donne e da una pattuglia della  “Military Poli ce”. Chi ha letto “La Pelle” di Curzio Malaparte,  può  avere una idea di che cosa fosse  Napoli  all’epoca del fatto e che cosa bisognava fare per sbarcare il lunario: o prostituzione o contrabbando.
     Dopo otto mesi di latitanza Ilario Montebello fu arrestato. Fin dal primo processo in Corte di Assise il difensore dell'imputato, avv. Luigi Patroni-Griffi, riuscì ad ottenere il riconoscimento del viziò parziale di mente in istruttoria ma i giudici della Corte di Assise di Napoli nel  settembre del  1948 condannarono l'imputato all'ergastolo.
     La Corte di Cassazione (ancora non era entrata in vigore la legge sulle Corti di Assise per cui dal processo di primo grado si ricorreva subito in Cassazione) annullò la sentenza perché non si era fatta una vera e propria perizia sulle condizioni mentali dell'imputato e rinviò gli atti del processo alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.
     Questa, nonostante la perizia psichiatrica avesse accertato la seminfermità di mente dell'imputato, confermò la condanna all'ergastolo, Il difensore ricorse di nuovo in Cassazione. Il supremo consesso, dato che erano entrate in funzione nel frattempo le Corti di Assise di Appello, rinviava ai giudici di secondo grado di Napoli gli atti del processo per un nuovo esame del caso.
     Il 26 novembre del 1957, la Corte di Assise d'Appello di Napoli, confermava per l'imputato la condanna all'ergastolo. La Cassazione annullava ancora rinviando il processo ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. Nuova conferma dell'ergastolo e nuovo ricorso. Ed oggi i giudici  della prima sezione del supremo consesso hanno ritenuto valida la condanna all'ergastolo. L'unica speranza per Ilario Montebello è ormai la domanda di grazia.  Ma, a memoria d’uomo non si è mai vista concessa una grazia ad un lenone assassino.



UN PROFESSORE DI TEDESCO DI AVERSA UCCISE LA MOGLIE,  LA FIGLIA E FERI’ GRAVEMENTE IL COGNATO
Era geloso della moglie incinta di sette mesi. Dopo il fatto si suicidò – Accadde ad  agosto del 1948 -
     Aversa -  Ieri è avvenuta una fulminea tragedia, determinata, a quanto pare, più che dalla gelosia, dall'improvvisa follia di un marito. Enrico Magliulo, di 35 anni, già insegnante di tedesco, reduce dalla prigionia, tornato nel 1946 ad Aversa aveva sposato una sua parente, Marta Maione, di 28 anni, appartenente ad una  facoltosa famiglia di Villaricca.
     Dal matrimonio, che non si presentò fin dall'inizio come una unione felice, dato il carattere strano e soggetto a fissazione, del Magliulo che vedeva in ogni uomo, anche nello stesso fratello della moglie, un attentatore del suo onore, era nata una bambina, Eugenia. Ieri mattina, dopo una nuova più violenta scenata, la moglie aveva mandato la cameriera a Villaricca per avvertire i genitori che, di fronte all'insopportabile vita familiare, ella aveva deciso di ritirarsi  presso di loro.
     In luogo del padre veniva, ad Aversa, il fratello della signora dottor Pietro Maione.  A  questo punto il Magliulo, armatosi di una rivoltella, sparava alcuni colpi contro il cognato,  inseguendolo anche per le scale. Rientrato in casa, rivolgeva l'arma contro la moglie e la feriva mortalmente.
      Strappata quindi dalle braccia della cameriera inebetita la figlioletta Eugenia.di 2  anni, la  deponeva presso il cadavere della mamma e le sparava a bruciapelo un colpo egualmente  mortale. Tornato successivamente nello studio il Magliulo vergava  sopra un pezzo di carta  un breve testamento in cui lasciava erede di tutte le sue sostanze  il proprio  fratello, poi,  rientrato  nella stanza dove giacevano i cadaveri della  moglie e della figlioletta, si esplodeva un colpo, atta tempia destra. Trasportato all'ospedale dei Pellegrini di Napoli, il protagonista della immane tragedia vi giungeva cadavere. Il dottor Pietro Maione versava intanto  in gravissime  condizioni.
     La cronaca del triplice delitto – riportata dai giornali il giorno successivo è drammatica -  Da ieri mattina  - scriveva l’inviato de La Stampa di Torino  - il comune di Aversa vive sotto l'impressione della raccapricciante tragedia della gelosia e della follia che  ha distrutto una nascente famigliola e ridotto fra la vita e la morte un distinto, professionista. Il terrificante eccidio è stato commesso, come ieri abbiamo dato notizia, da un insegnante di tedesco del liceo di Caserta, il prof, Enrico Magliulo, noto possidente casertano, il  quale ha ucciso, in un momento di follia,  causata da una infondata gelosia, la giovane consorte Maria Maione, e la figlioletta Eugenia,.ferendo gravemente il cognato, dottor Pietro Maione.
     Il Magliulo, come detto,  si è poi tolta la vita  con un colpo di rivoltella alla tempia. Tutto ciò è avvenuto nello spazio di pochi minuti. Tarnato dalla guerra i nervi del prof. Magliulo  erano stati innegabilmente compromessi dagli anni trascorsi in guerra, e precisamente sul fronte greco e a Rodi. Figlio di un notaio di Santa Maria Capua Velere. possedeva un considerevole patrimonio. Dieci giorni prima del matrimonio, il reduce confessò ai suoi parenti di essere indeciso e non in condizioni di salute tali da poter affrontare serenamente la nuova vita.
     Egli stesso diceva: “lo mi sento male, e certamente morirò prima di questo grande atto”.  Gli sposi per ben due anni vissero in casa dei Maione a Villaricca, e li il Magliulo si occupava dell'azienda agricola. Sul finire del 1946 si trasferirono ad Aversa. Quasi ogni giorno il  professore si recava in giro per la campagna a bordo di un camioncino che aveva acquistato per sorvegliare meglio il lavoro dei contadini.
     La vita dei due coniugi non fu mai serena. La nascita della piccola Eugenia coincise con un grave riacutizzarsi  del male del Magliulo, il quale, anziché usare nei riguardi della moglie un linguaggio tenero ed affezionato, ebbe per lei soltanto frasi oltraggiose tali da offendere qualsiasi donna.  Egli prese a sospettare di ogni uomo che avvicinasse la Maria, mal sopportando perfino la presenza dei fratelli di lei, e in particolare di Pietro Maione. stimato chirurgo del nostro Policlinico.
      Sabato tornò a casa allegro  e, una volta tanto pieno di attenzioni per tutti. Portò anche dei gelati per la moglie, per la piccola Eugenia, per lo zio e per la cameriera che era venuta con loro subito dopo il matrimonio. Questa giovane donna, Elena De Vivo, doveva essere la testimone principale della tragedia abbattutasi sulla famiglia. Fu lei appunto a raccontare i retroscena del dramma.
       “La signora era a letto  - raccontò la cameriera - sofferente a causa della prossima nuova maternità, essendo incinta di sette mesi. Ella rifiutò cortesemente il  gelato, dicendo che aveva intenzione di osservare per quel giorno il più assoluto digiuno. Questo banale episodio fu la scintilla dell'immane tragedia. Il rifiuto della donna fece andare su tutte le furie il  professore, il quale disse aspramente alla moglie che essa avrebbe accettato senz'altro il  gelato se fosse stato qualcuno dei suoi  fratelli ad offrirglielo”.
      L'insinuazione indispettì la donna, che,  in uno scatto d'ira,  scagliava contro il marito un vaso. L'uomo, senza esitare un istante, si impossessò di una pistola custodita in un mobile della stanza e la puntò sulla moglie. Intervennero la zia e la cameriera a disarmare il  professore, e la De Vivo depose l'arma nel cassetto della scrivania. La moglie, presa tra le braccia la piccola Eugenia, riparò nella stanzetta della cameriera, dove trascorse tutta la notte. L'uomo si chiuse in camera sua portando con sè un fucile da caccia con otto cartucce.
     Il mattino seguente la signora affidò alla cameriera un messaggio per il padre che era a Villaricca,  vergò poche righe su un foglietto di carta: “Caro papà, non posso più vivere. Vieni”,  e lo consegnò alla cameriera, che parti immediatamente alla volta di Villaricca.  Ma il padre della signora Maria era a letto, leggermente indisposto.  C'era però il fratello Pietro che si diresse a tutta velocità ad Aversa in soccorso della sorella. Maria lo accolse piangendo, scongiurandolo di portarla via immediatamente. Pietro ritenne che la cosa migliore sarebbe stata di informare i carabinieri, e lo disse alla sorella.
     Il Magliulo. che era nel cortile, intento a ripulire la macchina, avvertito da un ragazzino dell'arrivo del cognato, sali frettolosamente le scale, incontrandosi con la moglie e col nuovo venuto nella sala d'ingresso. La lite si riacuì. Il marito impugnò  la pistola. Il dottor Maione fuggi sul pianerottolo e per le scale, ma fu raggiunto da due dei cinque colpi esplosigli contro.
     Intanto la vecchia zia si precipitava al balcone, svenendo. L'assassino ritornò nella sua stanza. Maria aveva letto negli occhi del  marito che la sua ora era segnata: il suo solo pensiero fu quello di salvare la bimba, che consegnò alla cameriera. L'attimo spaventoso,  la canna della pistola era già puntata contro di lei: due colpi, e la donna cadeva al suolo in fin di vita.
     II Magliulo compì allora il suo gesto più feroce. Strappata la tenera figliola, agghiacciata dal terrore, dalle  braccia della cameriera, la portò accanto alla i moglie  morente, sollevandola per un braccio, e le sparò alla tempia. La bimba mori all'istante accanto alla madre. La cameriera, atterrita, fuggi. Il folle assassino tornò nella camera da letto, tolse da un cassetto un libretto di risparmio del Banco di Roma, vergando queste  parole: “Dio mi perdoni, lascio tutte le mie sostanze a mio fratello Antonio”.
     Ritornato nella sala, si inginocchiò presso  il cadavere della  moglie, e. stringendo a sè i corpi  esanimi della moglie e della bambina, si esplose un mortale colpo di pistola alla tempia destra.
     Nel frattempo il dottor  Maione, soccorso, veniva trasportato all'ospedale civile di Aversa, dove subiva una trasfusione di sangue, e quindi a Napoli. Le sue condizioni appaiono soddisfacenti.
Questa tragedia della follia ha impressionato tutta la popolazione aversana e quella di Napoli. Sulla condotta della signora Magliulo l'opinione pubblica si è pronunciata benevolmente. La signora aveva trascorso la sua giovinezza non dando occasione al minimo pettegolezzo.
     Ma può definirsi pazzo un uomo che dinanzi ai cadaveri fumanti della moglie e della figlia verga un testamento a favore del fratello?
(1 Continua )


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