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domenica 15 settembre 2013

IL MOSTRO DELLA PORTA ACCANTO

Accadde     il   6 ottobre  del  I974 ad Aversa

LA STORIA SCONOSCIUTA DI CARLO PANFILLA

”IL MOSTRO DI LUSCIANO”

“Mi avevano  guardato storto”.. . e  uccise 7 persone. . Fu arrestato nel cimitero del suo paese, dove aveva trovato rifugio in una nicchia. Quando fu catturato, vi dormiva nudo.  Ritenuto incapace di intendere e di volere , fu rinchiuso nel manicomio giudiziario di Aversa. Condannato prima all’ergastolo e poi 30 anni.     Un serial killer degli anni ottanta -



     Lusciano – ( di Ferdinando Terlizzi )  Sette persone uccise, e tutte per motivi che i verbali delle forze di polizia sono soliti definire “futili” quando il movente è di una banalità che rasenta l’inconsistenza. Sette persone freddate a colpi di pistola, cinque delle quali durante un breve periodo di latitanza seguito a una licenza premio. E’ sconcertante la ricostruzione dei delitti commessi dal “Mostro di Lusciano”, al secolo Carlo Panfilla, nato nel 1945, senza occupazione. Giudicato infermo di mente dopo il primo, duplice omicidio, commesso all’età di 29 anni, fu condannato a 10 anni di manicomio giudiziario. Lasciato uscire,  uccise altre 5 persone in due giorni, in due diverse circostanze.
     Nuovamente arrestato, fu condannato al carcere a vita, ma senza procedere a perizia psichiatrica: un’altra lacuna procedurale che, impugnata dalla difesa,  portò all’annullamento della sentenza.  Tutto ha inizio il  6 ottobre I974 quando Carlo Panfilla, uccise due giovani ad Aversa: Giovanni Improta, di 27 anni, detto “Garibaldi”, e Francesco De Lucia, di 23 , detto “Ciccio ‘a posta”. I motivi di questo duplice omicidio non sono mai stati completamente chiariti .
     Il Panfilla, che doveva essere certamente affetto da schizofrenia” con carattere “borderline”, era anche sofferente,  a quanto sembra,  di frustrazioni sessuali, oltre che di “tic” nervosi a un occhio e al mento, li avrebbe uccisi colto da un raptus omicida dopo una violenta lite. All’origine, il difficile rapporto avuto con una donna, contesagli dagli altri due.  Pare che Panfilla intendesse avviare una giovinetta alla prostituzione, e altrettanto tentassero di fare i suoi rivali.  Siamo giunti, così, al  22 agosto 1981.  “Il mostro”, dopo averli uccisi, fuggì e dopo una breve latitanza fu arrestato nel cimitero del suo paese natio, Lusciano, dove aveva trovato rifugio in una nicchia.
     Quando fu catturato, vi dormiva nudo. Ritenuto incapace di intendere e di volere, fu rinchiuso nel manicomio giudiziario di Aversa, dove compì violenze nei confronti di altri reclusi e di un funzionario del manicomio. Trasferito a Montelupo Fiorentino, nell’estate del 1998 il Panfilla ottenne una licenza di  5 giorni per recarsi a trovare i familiari a Lusciano. Ma al termine della licenza, il giorno dopo Ferragosto, una domenica, non fece ritorno nell’ ospedale psichiatrico. Pochi giorni dopo, venerdì 21 agosto, compì un altro omicidio plurimo. Lo ricordano con barba e capelli lunghi, l’aspetto trasandato e un comportamento definito “strano” da quanti si imbattevano in lui, girava in motorino tra la Campania e il Molise.
      Quella sera, un venerdì, fu deriso da un gruppo di giovani che erano su un’auto a Cesa, nell’Aversano. Una frase di scherno suggerita dall’aspetto dell’uomo, e favorita dall’esuberanza dell’età e dal fatto di sentirsi al sicuro nel “gruppo” di amici, tutti dello stesso paese. Mai avrebbero immaginato che cosa quella frase avrebbe potuto scatenare.  La reazione di Panfilla fu immediata e tremenda: estratta una pistola, una “Smith&Wesson”,  a tamburo calibro 22,  che aveva rimediato chissà come, l’uomo si diresse verso l’auto, dove i quattro giovani stavano ascoltando musica dallo stereo, e li fece bersaglio dei suoi colpi.
     Due raggiunsero alla testa Cesario Mangiacapra, di 18 anni, un altro, alla gola, Fausto Errico, di 22, uccidendoli. Un altro proiettile ferì gravemente al capo Francesco Belardo, 21 anni, poi morto in ospedale. L’unico superstite della strage fu Fernando Scarano, ventunenne, che riuscì a fuggire mentre gli amici cadevano sotto i colpi esplosi da Panfilla.  Il giorno dopo, sabato 22 agosto, altre due vittime innocenti finirono sul cammino del serial-killer”. Altre due persone mai viste prima e incontrate casualmente, freddate a colpi di pistola, senza battere ciglio. Panfilla aveva posto il suo bivacco notturno a Roccarainola, un piccolo centro in provincia di Campobasso. Due persone a bordo di un’auto, transitando nei pressi, gli fecero notare che aveva acceso il fuoco troppo vicino al bosco, e che c’era il pericolo di un incendio. 
     L’uomo, per il quale il rimprovero equivaleva a una provocazione, per tutta risposta estrasse nuovamente la pistola e colpì a morte Angelo Marcantonio, 32 anni e Mario Antenucci, di 28, ambedue operai di Roccarainola. I loro corpi furono trovati nell’auto con il motore ancora acceso e il finestrino laterale abbassato.
     Ricercato in lungo e in largo, l’assassino fu catturato dai carabinieri il giorno dopo a Lanciano (Chieti) mentre viaggiava sul motorino; in una tasca della sua giacca aveva ancora la pistola con la quale aveva seminato di morti il suo percorso. In un’altra tasca gli fu trovata un’agendina sulla quale aveva persino annotato i suoi “colpi”: ucciso due persone il 21 agosto a  Caserta ... e il  22 agosto Roccavivara etc. … vi aveva scritto altre cose indecifrabili che però portarono alla sua devianza sessuale e paranoica.
     Subito dopo l’arresto, l’uomo appariva in uno stato confusionale e pronunciava solo frasi sconnesse. Poi, in un momento di lucidità confessò i delitti, attribuendoseli con freddezza e noncuranza. “Mi avevano guardato storto”: questa, pare l’affermazione emblematica di Panfilla per spiegare il perché dei suoi delitti, compiuti senza un motivo apparente, secondo un copione dell’omicida seriale di cui le cronache ci riportano numerosi esempi.  Secondo alcuni studiosi Carlo Panfilla è un serial killer da manuale, che uccide senza alcuna causa diretta, rispondendo a un impulso a cui spesso non sa dare un significato.
     Nei suoi omicidi mancano completamente motivazioni relazionabili alla sfera sessuale che, come è noto, costituiscono una delle principali fonti di innesco delle crisi omicidiarie, Il 25 gennaio 1985 Carlo Panfilla fu condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  perché ritenuto responsabile di cinque omicidi compiuti “per motivi abietti e futili”.
     La  Corte gli inflisse 30 anni di reclusione per i tre omicidi di Cesa e 28 anni per i due omicidi di Roccavivara.  L’Ufficio istruzione dello stesso tribunale aprì un procedimento penale per omicidio colposo a carico di ignoti, al fine di accertare se vi fossero responsabilità a carico di coloro che  avevano concesso a Panfilla il permesso per uscire dal manicomio di Montelupo Fiorentino. 

     È evidente che la sua personalità era fortemente squilibrata e le modalità con cui ha commesso tutti i suoi delitti delineano una figura molto pericolosa. Ma dal punto di vista psichiatrico non ne sappiamo quasi nulla dopo gli omicidi commessi nell’estate del 1981, i giudici negarono la perizia psichiatrica richiesta dagli avvocati difensori, scoprendo così il fianco a un ricorso in Cassazione per vizio procedurale. Possibilità che i legali di Carlo Panfilla non si fecero sfuggire, ottenendo dalla Suprema corte l’annullamento della sentenza del gennaio 1985. Il processo dovette pertanto essere ripetuto.



LA PERIZIA PSICHIATRICA  SPESSO SALVA DALL’ERGASTOLO MA PORTA  AL MANICOMIO –

 

IL PARERE DI INSIGNI GIURISTI  -   CARLO PANFILLA “IL MOSTRO DI LUSCIANO” ERA PAZZO A GIORNI ALTERNI -  OGGI SI DIREBBE “BORDERLINE” –

NELLA CREDENZA POPOLARE  I SUOI CONCITTADINI LO CONSIDERAVANO PREDA DEL “DIAVOLO” -

 



     Lusciano ( di Ferdinando Terlizzi )  “La coscienza ha fatto irruzione nei tribunali, nella sua duplice veste di postura del soggetto giudicante e di personalità psichica dell’imputato. L’imputabilità non viene più definita solo attraverso l’analisi del regime di materialità dell’atto illegale, ma anche attraverso la conoscenza del regime di responsabilità dell’agente. Tra il crimine e la pena non c’è più soltanto la colpa: astratta ed impersonale superficie di collegamento, che sembrava bastare, da sola, a garantire la validità e l’efficace congiunzione dei due momenti. C’è ora una figura più corposa e ben altrimenti complessa: quella del colpevole”.
     “Se la verità della colpa poteva sembrare accessibile e trasparente  quasi ricalcata sull’entità del crimine e dei danni che esso provoca la verità del colpevole, in quanto verità di un soggetto, presenta maggiori insidie conoscitive; per appropriarsene, e insieme per legittimare le proprie tecniche di intervento, la procedura penale mobilita la scienza medica”. 
     Questa lucida precisazione di Mario Galzigna (autore de “La malattia morale”: Alle origini della psichiatria moderna )  ci pare costituisca una buona occasione di riflessione quando, anche da semplici spettatori, ci si trova davanti a casi come quello di Carlo Panfilla. Infatti, ognuno di noi, l’uomo della strada, si sente disorientato e forse prova anche un pò di pietà, nei confronti di chi produce tanto dolore spinto da forze perverse che chiamiamo malattia.  Le nostre incertezze di “non specialisti” ( ma anche di emeriti ignoranti) non sono le sole, in quanto, davanti ad alcuni casi criminali, anche gli specialisti sono consapevoli di trovarsi al cospetto di personalità difficilmente penetrabili: e quando vengono penetrate, spesso restano incertezze di fondo che quasi mai sono risolte. Per chi non è addetto ai lavori la definizione “incapace di intendere e volere” è una sorta di salva ergastoli: uno strumento destinato a porre il colpevole di crimini efferati, oppure assurdi e immotivati, come quelli di Panfilla, in una dimensione “altra”, esterna alla procedura penale, chiusi in una specie di bozzolo entro il quale il criminale è “meno criminale”, ma un malato mentale. 
     Sulle nostre spesso rozze valutazioni pesa l’incompetenza per una materia complicata e, a differenza della sua apparenza, da conformare caso per caso. Per avere le idee più chiare crediamo possa essere utile indicare, in estrema sintesi, che cosa si intende per perizia psichiatrica.  La perizia psichiatrica di fatto è una valutazione tecnica che ha lo scopo di stabilire le condizioni della mente di un soggetto a cui sono attribuite azioni o reati di vario tipo; può essere effettuata in ogni stato e grado di un iter giudiziario. Va chiarito che i destinatari della perizia possono essere gli imputati, ma anche le vittime e i testimoni.  La perizia psichiatrica deve rispondere ad alcune caratteristiche precise: in primo luogo deve essere disposta dal magistrato; poi si deve riferire esclusivamente al fatto che costituisce il reato e quindi non sono ammesse valutazioni di altro tipo che potrebbero condizionare la perizia.
     La perizia effettuata sull’autore di un determinato reato deve valutare durante il giudizio le sue condizioni di mente al momento in cui si è svolto il fatto attribuito, e soprattutto deve stabilire se l’imputato sia socialmente pericoloso.  Gli articoli del Codice Penale che entrano in gioco sono: 85 (Capacità di intendere e di volere), 88 (Vizio totale di mente), 89 (Vizio parziale di mente); quelli del Codice di Procedura Penale: 88 (Infermità di mente), 455 (Perizia nei dibattimento), 314  (Facoltà del giudice di procedere a perizia). Alla fine della perizia i periti devono essere nelle condizioni di stabilire se l’autore è imputabile in quanto in grado di intendere e volere, se è affetto da un vizio totale o parziale di mente e se è presente o assente la pericolosità sociale dell’autore del reato con vizio di mente.  Come si può vedere dalle poche indicazioni fornite, la perizia psichiatrica implica una complessa procedura che, malgrado tutto, può lasciare comunque aperte le porte all’incertezza.
     Davanti a casi di monomania omicida come quello di Carlo  Panfilla, ognuno di noi avverte, oggi, un profondo senso di impotenza, una devastante incapacità di comprendere con nitidezza quali siano le barriere della ragione. In passato forse tutto era “più semplice”. Infatti, come osserva Mario  Zilborg, in “Storia della Psichiatria”,   “il concetto di monomania omicida, in passato, fu spesso legato a credenze in cui svolgeva un ruolo fondamentale la presenza del diavolo e delle streghe. Il concetto di demonomania trae le sue radici nella credenza che andò radicandosi nel XIV secolo, quando cioè lo psicotico, come il mago, lo stregone e l’eretico cominciarono ad essere considerati i servi di Lucifero”.
     L’idea che le malattie fisiche fossero naturali e che quelle psichiche fossero essenzialmente soprannaturali si cristallizzò sempre di più. I termini “malattia del diavolo” e “malattia della strega” divennero sempre più comuni.  L’atmosfera psichiatrica del XVI e XVII secolo non mutò di molto: la psicologia demoniaca o diabolica dominava la mente dell’uomo di strada, del medico e del filosofo, del sacerdote e dell’avvocato.   
    Oggi, in casi come quello di Carlo Panfilla nessuno chiama più in causa il diavolo, anche se nella follia che pare devastare la ragione, qualcosa di misterioso, una piccola parte di impenetrabilità, continua ad avvolgere i crimini senza cause apparenti, lasciando in ognuno un senso di smarrimento che ci rende esuli in questa nostra esistenza in cui il male spesso prevale sul bene.


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