Accadde il
6 ottobre del I974 ad Aversa
LA STORIA SCONOSCIUTA DI CARLO PANFILLA
”IL MOSTRO DI LUSCIANO”
“Mi avevano
guardato storto”.. . e uccise 7
persone. . Fu arrestato nel cimitero del suo paese, dove aveva trovato rifugio
in una nicchia. Quando fu catturato, vi dormiva nudo. Ritenuto incapace di intendere e di volere ,
fu rinchiuso nel manicomio giudiziario di Aversa. Condannato prima
all’ergastolo e poi 30 anni. Un
serial killer degli anni ottanta -
Lusciano – ( di Ferdinando Terlizzi ) Sette
persone uccise, e tutte per motivi che i verbali delle forze di polizia sono
soliti definire “futili” quando il movente è di una banalità che rasenta
l’inconsistenza. Sette persone freddate a colpi di pistola, cinque delle quali
durante un breve periodo di latitanza seguito a una licenza premio. E’
sconcertante la ricostruzione dei delitti commessi dal “Mostro di Lusciano”, al
secolo Carlo Panfilla, nato nel
1945, senza occupazione. Giudicato infermo di mente dopo il primo, duplice
omicidio, commesso all’età di 29 anni, fu condannato a 10 anni di manicomio
giudiziario. Lasciato uscire, uccise
altre 5 persone in due giorni, in due diverse circostanze.
Nuovamente arrestato, fu condannato al
carcere a vita, ma senza procedere a perizia psichiatrica: un’altra lacuna
procedurale che, impugnata dalla difesa,
portò all’annullamento della sentenza. Tutto ha inizio il 6 ottobre I974 quando Carlo Panfilla, uccise
due giovani ad Aversa: Giovanni Improta,
di 27 anni, detto “Garibaldi”, e Francesco
De Lucia, di 23 , detto “Ciccio ‘a posta”. I motivi di questo duplice omicidio non
sono mai stati completamente chiariti .
Il Panfilla, che doveva essere certamente
affetto da “schizofrenia” con carattere “borderline”, era anche
sofferente, a quanto sembra, di frustrazioni sessuali, oltre che di “tic” nervosi a un occhio e al mento,
li avrebbe uccisi colto da un raptus omicida dopo una violenta lite.
All’origine, il difficile rapporto avuto con una donna, contesagli dagli altri
due. Pare che Panfilla intendesse
avviare una giovinetta alla prostituzione, e altrettanto tentassero di fare i
suoi rivali. Siamo giunti, così, al 22 agosto 1981. “Il mostro”, dopo averli uccisi, fuggì e dopo
una breve latitanza fu arrestato nel cimitero del suo paese natio, Lusciano,
dove aveva trovato rifugio in una nicchia.
Quando fu catturato, vi dormiva nudo.
Ritenuto incapace di intendere e di volere, fu rinchiuso nel manicomio
giudiziario di Aversa, dove compì violenze nei confronti di altri reclusi e di
un funzionario del manicomio. Trasferito a Montelupo Fiorentino, nell’estate
del 1998 il Panfilla ottenne una licenza di
5 giorni per recarsi a trovare i familiari a Lusciano. Ma al termine
della licenza, il giorno dopo Ferragosto, una domenica, non fece ritorno nell’
ospedale psichiatrico. Pochi giorni dopo, venerdì 21 agosto, compì un altro
omicidio plurimo. Lo ricordano con barba e capelli lunghi, l’aspetto trasandato
e un comportamento definito “strano” da quanti si imbattevano in
lui, girava in motorino tra la Campania e il Molise.
Quella sera, un venerdì, fu deriso da un
gruppo di giovani che erano su un’auto a Cesa, nell’Aversano. Una frase di
scherno suggerita dall’aspetto dell’uomo, e favorita dall’esuberanza dell’età e
dal fatto di sentirsi al sicuro nel “gruppo” di amici, tutti dello
stesso paese. Mai avrebbero immaginato che cosa quella frase avrebbe potuto
scatenare. La reazione di Panfilla fu
immediata e tremenda: estratta una pistola, una “Smith&Wesson”, a tamburo calibro 22, che aveva rimediato chissà come, l’uomo si
diresse verso l’auto, dove i quattro giovani stavano ascoltando musica dallo
stereo, e li fece bersaglio dei suoi colpi.
Due raggiunsero alla testa Cesario Mangiacapra, di 18 anni, un altro,
alla gola, Fausto Errico, di 22,
uccidendoli. Un altro proiettile ferì gravemente al capo Francesco Belardo, 21 anni, poi morto in ospedale. L’unico
superstite della strage fu Fernando
Scarano, ventunenne, che riuscì a fuggire mentre gli amici cadevano sotto i
colpi esplosi da Panfilla. Il giorno
dopo, sabato 22 agosto, altre due vittime innocenti finirono sul cammino del “serial-killer”.
Altre due persone mai viste prima e incontrate casualmente, freddate a colpi di
pistola, senza battere ciglio. Panfilla aveva posto il suo bivacco notturno a
Roccarainola, un piccolo centro in provincia di Campobasso. Due persone a bordo
di un’auto, transitando nei pressi, gli fecero notare che aveva acceso il fuoco
troppo vicino al bosco, e che c’era il pericolo di un incendio.
L’uomo, per il quale il rimprovero
equivaleva a una provocazione, per tutta risposta estrasse nuovamente la
pistola e colpì a morte Angelo
Marcantonio, 32 anni e Mario
Antenucci, di 28, ambedue operai di Roccarainola. I loro corpi furono trovati
nell’auto con il motore ancora acceso e il finestrino laterale abbassato.
Ricercato in lungo e in largo, l’assassino
fu catturato dai carabinieri il giorno dopo a Lanciano (Chieti) mentre
viaggiava sul motorino; in una tasca della sua giacca aveva ancora la pistola
con la quale aveva seminato di morti il suo percorso. In un’altra tasca gli fu
trovata un’agendina sulla quale aveva persino annotato i suoi “colpi”:
ucciso due persone il 21 agosto a
Caserta ... e il 22 agosto
Roccavivara etc. … vi aveva scritto altre cose indecifrabili che però portarono
alla sua devianza sessuale e paranoica.
Subito dopo l’arresto, l’uomo appariva in
uno stato confusionale e pronunciava solo frasi sconnesse. Poi, in un momento
di lucidità confessò i delitti, attribuendoseli con freddezza e noncuranza. “Mi
avevano guardato storto”: questa, pare l’affermazione emblematica di
Panfilla per spiegare il perché dei suoi delitti, compiuti senza un motivo
apparente, secondo un copione dell’omicida seriale di cui le cronache ci
riportano numerosi esempi. Secondo
alcuni studiosi Carlo Panfilla è un
serial killer da manuale, che uccide senza alcuna causa diretta, rispondendo a
un impulso a cui spesso non sa dare un significato.
Nei suoi omicidi mancano completamente
motivazioni relazionabili alla sfera sessuale che, come è noto, costituiscono
una delle principali fonti di innesco delle crisi omicidiarie, Il 25 gennaio
1985 Carlo Panfilla fu condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, perché ritenuto
responsabile di cinque omicidi compiuti “per motivi abietti e futili”.
La
Corte gli inflisse 30 anni di reclusione per i tre omicidi di Cesa e 28
anni per i due omicidi di Roccavivara.
L’Ufficio istruzione dello stesso tribunale aprì un procedimento penale
per omicidio colposo a carico di ignoti, al fine di accertare se vi fossero
responsabilità a carico di coloro che
avevano concesso a Panfilla il permesso per uscire dal manicomio di
Montelupo Fiorentino.
È evidente che la sua personalità era
fortemente squilibrata e le modalità con cui ha commesso tutti i suoi delitti
delineano una figura molto pericolosa. Ma dal punto di vista psichiatrico non
ne sappiamo quasi nulla dopo gli omicidi commessi nell’estate del 1981, i
giudici negarono la perizia psichiatrica richiesta dagli avvocati difensori,
scoprendo così il fianco a un ricorso in Cassazione per vizio procedurale.
Possibilità che i legali di Carlo Panfilla non si fecero sfuggire, ottenendo
dalla Suprema corte l’annullamento della sentenza del gennaio 1985. Il processo
dovette pertanto essere ripetuto.
LA PERIZIA PSICHIATRICA SPESSO SALVA DALL’ERGASTOLO MA PORTA AL MANICOMIO –
IL PARERE DI INSIGNI
GIURISTI - CARLO
PANFILLA “IL MOSTRO DI LUSCIANO”
ERA PAZZO A GIORNI ALTERNI - OGGI SI
DIREBBE “BORDERLINE” –
NELLA
CREDENZA POPOLARE I SUOI CONCITTADINI LO
CONSIDERAVANO PREDA DEL “DIAVOLO” -
Lusciano ( di Ferdinando Terlizzi ) “La
coscienza ha fatto irruzione nei tribunali, nella sua duplice veste di postura
del soggetto giudicante e di personalità psichica dell’imputato. L’imputabilità
non viene più definita solo attraverso l’analisi del regime di materialità
dell’atto illegale, ma anche attraverso la conoscenza del regime di
responsabilità dell’agente. Tra il crimine e la pena non c’è più soltanto la
colpa: astratta ed impersonale superficie di collegamento, che sembrava
bastare, da sola, a garantire la validità e l’efficace congiunzione dei due
momenti. C’è ora una figura più corposa e ben altrimenti complessa: quella del
colpevole”.
“Se la verità della colpa poteva sembrare
accessibile e trasparente quasi
ricalcata sull’entità del crimine e dei danni che esso provoca la verità del
colpevole, in quanto verità di un soggetto, presenta maggiori insidie
conoscitive; per appropriarsene, e insieme per legittimare le proprie tecniche
di intervento, la procedura penale mobilita la scienza medica”.
Questa lucida precisazione di Mario Galzigna (autore de “La malattia morale”: Alle origini della
psichiatria moderna ) ci pare
costituisca una buona occasione di riflessione quando, anche da semplici
spettatori, ci si trova davanti a casi come quello di Carlo Panfilla. Infatti, ognuno di noi, l’uomo della strada, si
sente disorientato e forse prova anche un pò di pietà, nei confronti di chi
produce tanto dolore spinto da forze perverse che chiamiamo malattia. Le nostre incertezze di “non specialisti” ( ma anche di emeriti ignoranti) non sono le
sole, in quanto, davanti ad alcuni casi criminali, anche gli specialisti sono
consapevoli di trovarsi al cospetto di personalità difficilmente penetrabili: e
quando vengono penetrate, spesso restano incertezze di fondo che quasi mai sono
risolte. Per chi non è addetto ai lavori la definizione “incapace di intendere e volere” è una sorta di salva ergastoli:
uno strumento destinato a porre il colpevole di crimini efferati, oppure
assurdi e immotivati, come quelli di Panfilla, in una dimensione “altra”, esterna alla procedura penale,
chiusi in una specie di bozzolo entro il quale il criminale è “meno criminale”, ma un malato
mentale.
Sulle nostre spesso rozze valutazioni pesa
l’incompetenza per una materia complicata e, a differenza della sua apparenza,
da conformare caso per caso. Per avere le idee più chiare crediamo possa essere
utile indicare, in estrema sintesi, che cosa si intende per perizia
psichiatrica. La perizia psichiatrica di
fatto è una valutazione tecnica che ha lo scopo di stabilire le condizioni
della mente di un soggetto a cui sono attribuite azioni o reati di vario tipo;
può essere effettuata in ogni stato e grado di un iter giudiziario. Va chiarito
che i destinatari della perizia possono essere gli imputati, ma anche le vittime
e i testimoni. La perizia psichiatrica
deve rispondere ad alcune caratteristiche precise: in primo luogo deve essere
disposta dal magistrato; poi si deve riferire esclusivamente al fatto che
costituisce il reato e quindi non sono ammesse valutazioni di altro tipo che
potrebbero condizionare la perizia.
La perizia effettuata sull’autore di un
determinato reato deve valutare durante il giudizio le sue condizioni di mente
al momento in cui si è svolto il fatto attribuito, e soprattutto deve stabilire
se l’imputato sia socialmente pericoloso.
Gli articoli del Codice Penale che entrano in gioco sono: 85 (Capacità
di intendere e di volere), 88 (Vizio totale di mente), 89 (Vizio parziale di
mente); quelli del Codice di Procedura Penale: 88 (Infermità di mente), 455
(Perizia nei dibattimento), 314 (Facoltà
del giudice di procedere a perizia). Alla fine della perizia i periti devono
essere nelle condizioni di stabilire se l’autore è imputabile in quanto in
grado di intendere e volere, se è affetto da un vizio totale o parziale di
mente e se è presente o assente la pericolosità sociale dell’autore del reato
con vizio di mente. Come si può vedere
dalle poche indicazioni fornite, la perizia psichiatrica implica una complessa
procedura che, malgrado tutto, può lasciare comunque aperte le porte
all’incertezza.
Davanti a casi di monomania omicida come
quello di Carlo Panfilla, ognuno di noi avverte, oggi, un
profondo senso di impotenza, una devastante incapacità di comprendere con
nitidezza quali siano le barriere della ragione. In passato forse tutto era “più semplice”. Infatti, come osserva Mario
Zilborg, in “Storia della
Psichiatria”, “il concetto di
monomania omicida, in passato, fu spesso legato a credenze in cui svolgeva un
ruolo fondamentale la presenza del diavolo e delle streghe. Il concetto
di demonomania trae le sue radici nella credenza che andò radicandosi nel XIV
secolo, quando cioè lo psicotico, come il mago, lo stregone e l’eretico
cominciarono ad essere considerati i servi di Lucifero”.
L’idea che le malattie fisiche fossero
naturali e che quelle psichiche fossero essenzialmente soprannaturali si
cristallizzò sempre di più. I termini “malattia
del diavolo” e “malattia della
strega” divennero sempre più comuni.
L’atmosfera psichiatrica del XVI e XVII secolo non mutò di molto: la
psicologia demoniaca o diabolica dominava la mente dell’uomo di strada, del
medico e del filosofo, del sacerdote e dell’avvocato.
Oggi, in casi come quello di Carlo Panfilla nessuno chiama più in
causa il diavolo, anche se nella follia che pare devastare la ragione, qualcosa
di misterioso, una piccola parte di impenetrabilità, continua ad avvolgere i
crimini senza cause apparenti, lasciando in ognuno un senso di smarrimento che
ci rende esuli in questa nostra esistenza in cui il male spesso prevale sul
bene.
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