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giovedì 25 agosto 2016




SAN PRISCO IL 20 AGOSTO DEL 1953


NEL CORSO DI UNA RISSA  TRA DONNE VENNE UCCISA  EMMA D’ARIOTTA
LA 53ENNE PERÒ MORÌ, SECONDO LA DIFESA DELLA IMPUTATA ROSA DE FELICE,  PERCHÉ SOFFRIVA DI CUORE. L’ACCUSA  CONTESTÒ  L’ OMICIDIO PRETERINTENZIONALE. IL MOVENTE DA RICERCARSI NEL DISSIDIO SORTO PER LA POSIZIONE DEI TELAI PER LAVORARE LE COPERTE. 

L’ACCUSA DI OMICIDIO PRETERINTENZIONALE COSTÒ ALLA DONNA UNA CONDANNA AD ANNI 4 E MESI 5 DI RECLUSIONE. 

A sinistra il Sen. Avv. Pompeo Rendina col nostro direttore negli anni  80 
San Prisco - Il prof. Francesco Tarsitano, con l’ausilio dei dottori Mario Pugliese e Aldo Mele, nominati dal Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere,  che stava seguendo la delicata inchiesta sulla morte della signora Emma D’Ariotta, di anni 53, deceduta in seguito alle percosse ricevute da una inquilina del suo palazzo, la 38enne Rosa De Felice  risposero ai quesiti del magistrato in modo “pilatesco”. “Tra il fatto per cui è processo ( lite-lesioni) – scrissero nelle loro conclusioni  - e la morte della D’Ariotta di un nesso occasionale, e non di un nesso causale o concausale, né di un nesso puramente coincidenziale, non consente né di affermare né di escludere che la morte si sarebbe ugualmente verificata nelle circostanze di tempo  nelle quali si verificò, qualora la lite non avesse avuto luogo e la D’Ariotta non avesse riportato le lesioni. Limitatamente alle lesioni, è viceversa possibile affermare che la morte della D’Ariotta si sarebbe ugualmente verificata anche in assenza delle contusioni e contusioni  escoriate descritte nel verbale in esame esterno del cadavere”. 




San Prisco oggi è un comune modernissimo con uno sviluppo urbanistico da imitare è storicamente valido con la presenza di  testimonianze  di importanza quali le “Carceri vecchie” e il “Tempio di Giove Tifatino”. Il comune, legato urbanisticamente, senza soluzione di continuità, ai comuni di Santa Maria Capua Vetere e Curti, è parte integrante della conurbazione casertana. L’abitato, a nord del quale passa l’A1 (Autostrada del Sole), consta di vari quartieri strutturati a scacchiera, diversamente orientati. Inoltre, il suo territorio era in parte incluso nel circuito delle mura della città di Capua e pertanto seguì per molti secoli le sue stesse vicissitudini. L’espressione più monumentale è rappresentata dal mausoleo detto Carceri Vecchie, situato presso l’antica Via Appia; la sua costruzione risale alla prima età imperiale nel I secolo d.C. Il mausoleo  è un monumento funerario.

Il 23 agosto del 1953 alla via Cavacone, al civico 14 avvenne il delitto. Il maresciallo Giuseppe La Greca,  comandante la stazione dei  carabinieri inoltrò un rapporto con il quale segnalava che il medico condotto del luogo era stato chiamato d’urgenza alla via Cavacone e purtroppo non aveva potuto fare altro – nella circostanza – che constare il decesso della Emma D’Ariotta che giaceva esanime al suolo nell’androne del  cortile della sua abitazione. I militari della Fedelissima appurarono che la donna, prima del decesso aveva sostenuto un alterco con tale Rosa De Felice, abitanti nello stesso palazzo. I carabinieri dopo aver fatto piantonare il cadavere in attesa della constatazione di rito da parte del magistrato di turno avevano svolto una sommaria indagine a conclusione della quale avevano appurato che la vittima, assieme alle figlie,  aveva avuto una violentissima discussione con la coinquilina Rosa. Il motivo della discussione – secondo le testimonianze degli astanti – era da ricercarsi nel fatto che alcuni giorni prima del delitto si era addivenuto ad un tacito accordo, tra tutti gli abitanti del caseggiato, secondo il quale sotto l’androne del palazzo non si dovevano collocare gli attrezzi ed i telai per la lavorazione artigianale della coperte che, in quel periodo veramente di stenti, rappresentava una risorsa di sopravvivenza per molti nuclei familiari della zona. Un chilo di pasta infatti  costava 195 lire; un litro di vino 110 mentre un biglietto per il cinema 175 e un giornale 25 lire. Un televisore bianco e nero costava 350 mila lire mentre uno stipendio mensile di buon livello era fissato in 170 mila lire. Ma ritorniamo alla nostra storia. I carabinieri dunque avevano appurato che la discussione che era degenerata,  provocando addirittura un morto, era sorta in quanto la Rosa De Felice – contravvenendo al patto stipulato aveva collocato, quella mattina, il telaio per fabbricare le coperte ed aveva iniziato il suo lavoro. Anche la famiglia della vittima svolgeva lo stesso lavoro e la donna si era subito portata all’ingresso del palazzo ad aveva redarguito la Rosa.  Il motivo per il quale era stato convenuto di comune accordo il divieto di lavorare le coperte all’ingresso del palazzo era dovuto al fatto che essendo il passaggio molto stretto a volte non  vi era neppure lo spazio per il transito di una persona a piedi. Rosa De Felice nel corso del primo interrogatorio, oltre a discolparsi del fatto che pur avendo strattonata la donna non conosceva le sue afflizioni cardiache, aveva motivato la sua scelta di mettersi a lavorare all’ingresso del palazzo perché la giornata – e siamo al 23 agosto – era molto calda e all’interno si soffocava. 




Alle rimostranze della signora Emma D’Ariotta – secondo le indagini dei carabinieri e le testimonianze degli altri inquilini dello stabile che furono presenti al delitto – la rosa De Felice per con arroganza e poi con minacce rispondeva che lei nemmeno con l’intervento della Forza Pubblica si sarebbe spostata dall’androne. Subito dopo dalle parole la Rosa passò ai fatti aggredendo la D’Ariotta, graffiandola al viso e strattonandola tirandogli i capelli. A questo punto si trovò a transitare tale Luigi Iannotta, un bracciante agricolo che abitava nella stessa strada ma al civico 6 e visto che tutti guardavano – senza intervenire – mentre la povera donna stava per soccombere ed era già stramazzata al suolo, e nello stesso tempo la Rosa De Felice si stava accapigliando con una figlia della Emma D’Ariotta a nome Anna il nuovo arrivato riuscì a dividere le due donne. La Emma intanto non dava più segni di vita. A questo punto la rosa De Felice visto che la donna da lei aggredita era morta si diede alla fuga e non potette essere rintracciata ma si costituì ai carabinieri dopo alcuni giorni. Il magistrato di turno interveniva sul posto ed ordinava la rimozione del cadavere disponendo per il giorno successivo l’esame autoptico presso la sala mortuaria del locale cimitero. Il rapporto dei carabinieri terminava con un vero e proprio atto di accusa per la  per l’assassina. La vittima presentava “evidenti segni di un morso umano al polso della mano destra ed uno al collo”.  La Emma D’Ariotta venne però descritta come una donna “ pettegola, arrogante, attaccabrighe, autoritaria e prepotente”. In seguito al rapporto e all’inizio della istruttoria formale venne emesso da parte del Giudice Istruttore Dr.  Mario Mancuso un mandato di cattura contro la Rosa De Felice per il delitto di omicidio ( Art. 584 Codice Penale) “per avere con atti diretti a commettere percosse e lesioni contro Emma D’Ariotta cagionandone la morte”. Dopo alcuni giorni di latitanza la donna si costituì. Interrogata dal Giudice Istruttore alla presenza del suo difensore negò la sua intenzione di uccidere la Emma ma insistette con il dire che era stata la vittima ad aggredire lei. In particolare chiarì: “Nego di aver dato un morso alla D’Ariotta, nego  altresì che Orsola D’Alessandro sia ibntervenuta nella lite. Non so psiegarmi come la D’ariotta presentasse tracce di morso; intervenne tanta gente a dividere che non so dire”. Su precisa domanda del  Giudice Istruttore la Rosa De Felice precisò ancora: “ Anche la figlia della D’Ariotta, due o tre giorni prima, aveva lavorato le coperte sotto il portone. Tuttavia preciso che io non ero in buoni rapporti con la D’Ariotta, la quale, quel giorno, vedendo che io stendevo il telaio sotto il portone lo gettò per aria, e mentre io mi chinavo per riprenderlo si gettò contro di me aggredendomi ed io non feci altro che difendermi”. 



Dal canto suo la sorella Anna dichiarò che:  “All’accordo perché non si lavorasse sotto il portone si addivenne due o tre giorni prima del fatto appunto perché avendo mia sorella Angela lavorato sotto il portone gli altri inquilini si erano ribellati. Io ero in casa ed uscii nel cortile nel sentire delle grida. Notai così che mia madre si era afferrata con l’imputata. Né io né mia sorella Angela intervenimmo e quando accorremmo purtroppo contestammo che nostra madre era morta. Mi fu riferito che mia madre si fosse doluta che l’imputata avesse rimesso il telaio sotto il portone; forse mia madre nel rimproverare la imputata dovette urtare contro il telaio e farlo cadere per terra. Per la verità io il telaio  lo trovai propria a terra ma forse dovette essere qualcuno che era accorso a farlo cadere. Preciso, infine, che quando uscii  mia madre e l’imputata non si erano ancora afferrate. Noi ignoravamo che mia madre avesse il cuore in quelle condizioni perché aveva lavorato fino a quel giorno”.  Fu poi la volta della sorella Angela la quale - per sommi capi  - confermò la deposizione della sorella chiarendo che “la madre si accapigliò con l’inputata mentre lei e la sorella stavano discutendo con la figlia della Rosa De Felice – la quale aveva pronunciato cattive parole nei confronti dell’altra sorella Anna. Confermò che l’accordo per non lavorare le coperte imbottite sotto il portone era stato raggiunto giorni addietro perché lei si era messa a lavorare sotto l’androne. Chiarì che nel palazzo erano tre le famiglie che lavoravano le coperte e naturalmente tutti  i telai sotto il portone non c’entravano.

Fonte: Archivio di Stato di Caserta
   

                                                                                                                                         



 L’accusa di omicidio preterintenzionale costò alla donna una condanna ad anni 4 e mesi 5 di reclusione. Furono concesse le attenuanti generiche e  quelle della provocazione.

Dopo circa due anni di detenzione la Rosa De Felice, 38 anni da San Prisco, accusata di omicidio preterintenzionale,  comparve innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Giovanni Morfino, presidente: Renato Mastrocinque, giudice a latere; giudici popolari: Michele Campofredi, Antonio Di Caprio, Domenico Gentile, Francesco Cerreto, Paolo Acquaroli e Alberto Di Baia; rappresentante la pubblica accusa, pubblico ministero il Sostituto Procuratore della Repubblica Dr. Nicola Damiani). Nel dibattimento non emersero elementi discordanti dalla sentenza di rinvio a giudizio a chiusura della istruttoria formale. Ma il processo fu impegnativo la difesa infatti della imputata, con l’ausilio di tecnici ed esperti, con perizie medico-legali  propendeva per dimostrare che “non vi era nesso di causalità tra la morte e l’evento” in quanto la vittima afflitta da grave tachicardia sarebbe morta di lì a pochi giorni anche se non si fosse verificata la rissa. La parte civile, con l’ausilio della pubblica accusa, era prevedibile che adombrava una tesi diversa e cioè che le percosse inflitte alla Emma D’Ariotta avevano avuto un nesso “violento e diretto” sull’evento causando la morte della donna.  Più in particolare, si osserva che l’omicidio preterintenzionale rappresenta una fra le fattispecie penali incriminatrici di maggiore gravità ed allarme sociale  che sono contemplate all’interno del vigente ordinamento giuridico penale. Il vigente codice penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 43 c.p.,  offre una definizione normativa molto precisa e specifica in tema di preterintenzione che è proprio la seguente: “Il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. In sostanza, tra il dolo e la colpa l’articolo 43 c.p. sembra prevedere una terza forma di colpevolezza, non secondo né contro, ma oltre l’intenzione: la  preterintenzione. Perché  la fattispecie possa dirsi preterintenzionale è necessaria la volizione di un evento e la realizzazione  involontaria di un evento più grave, causalmente messo in relazione ad una condotta sostenuta dalla volontà dell’evento meno grave. 
Avv. Vittorio Verzillo


L’omicidio preterintenzionale è costituito dal fatto di chi, ponendo in essere atti diretti unicamente a percuotere una persona o a provocarle una lesione personale, ne cagioni la morte, la quale, quindi, rappresenta un “quid pluris”  rispetto all’evento effettivamente perseguito dal soggetto agente. Due tesi in antitesi ma la Corte, accogliendo le tesi dell’una e dell’altra condannò la donna per omicidio preterintenzionale in danno di Emma D’Ariotta, con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione alla pena di anni quattro e mesi cinque e giorni dieci di reclusione e alla interdizione dei pubblici uffici per la durata di cinque anni. Condannò, inoltre la stessa al pagamento delle spese processuali e a quelle di custodia preventiva nonché ai danni per la parte civile Anna De Felice da liquidarsi in separata sede. Dichiarò espiati anni uno e mesi sette e giorni venti della pena inflitta e condonò la restante pena per l’indulto che in quei giorni era stato proclamato.   Nel processo furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini, Vittorio Verzillo e Pompeo Rendina.

Fonte. Archivio di Stato di Caserta











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