SAN PRISCO IL 20 AGOSTO DEL 1953
NEL CORSO DI
UNA RISSA TRA DONNE VENNE UCCISA EMMA D’ARIOTTA
LA 53ENNE PERÒ MORÌ, SECONDO LA DIFESA DELLA IMPUTATA ROSA
DE FELICE, PERCHÉ SOFFRIVA DI CUORE.
L’ACCUSA CONTESTÒ L’ OMICIDIO PRETERINTENZIONALE. IL MOVENTE DA
RICERCARSI NEL DISSIDIO SORTO PER LA POSIZIONE DEI TELAI PER LAVORARE LE
COPERTE.
L’ACCUSA DI OMICIDIO PRETERINTENZIONALE COSTÒ
ALLA DONNA UNA CONDANNA AD ANNI 4 E MESI 5 DI RECLUSIONE.
A sinistra il Sen. Avv. Pompeo Rendina col nostro direttore negli anni 80 |
San Prisco - Il prof. Francesco Tarsitano, con l’ausilio dei dottori Mario Pugliese e Aldo Mele,
nominati dal Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che stava seguendo la delicata inchiesta sulla
morte della signora Emma D’Ariotta,
di anni 53, deceduta in seguito alle percosse ricevute da una inquilina del suo
palazzo, la 38enne Rosa De Felice risposero ai quesiti del magistrato in modo
“pilatesco”. “Tra il fatto per cui è
processo ( lite-lesioni) – scrissero nelle loro conclusioni - e la
morte della D’Ariotta di un nesso occasionale, e non di un nesso causale o
concausale, né di un nesso puramente coincidenziale, non consente né di
affermare né di escludere che la morte si sarebbe ugualmente verificata nelle
circostanze di tempo nelle quali si
verificò, qualora la lite non avesse avuto luogo e la D’Ariotta non avesse
riportato le lesioni. Limitatamente alle lesioni, è viceversa possibile
affermare che la morte della D’Ariotta si sarebbe ugualmente verificata anche
in assenza delle contusioni e contusioni
escoriate descritte nel verbale in esame esterno del cadavere”.
San Prisco oggi è un comune modernissimo con uno sviluppo urbanistico da
imitare è storicamente valido con la presenza di testimonianze
di importanza quali le “Carceri vecchie” e il “Tempio di Giove
Tifatino”. Il comune, legato
urbanisticamente, senza soluzione di continuità, ai comuni di Santa Maria Capua
Vetere e Curti, è parte integrante della conurbazione casertana. L’abitato, a
nord del quale passa l’A1 (Autostrada del Sole), consta di vari quartieri
strutturati a scacchiera, diversamente orientati. Inoltre, il suo territorio era in parte incluso nel circuito
delle mura della città di Capua e pertanto seguì per molti secoli le sue stesse
vicissitudini. L’espressione più monumentale è rappresentata dal mausoleo detto
Carceri Vecchie, situato presso l’antica Via Appia; la sua costruzione risale
alla prima età imperiale nel I secolo d.C. Il mausoleo è un monumento
funerario.
Il 23 agosto del 1953 alla via Cavacone, al
civico 14 avvenne il delitto. Il maresciallo Giuseppe La Greca,
comandante la stazione dei
carabinieri inoltrò un rapporto con il quale segnalava che il medico
condotto del luogo era stato chiamato d’urgenza alla via Cavacone e purtroppo
non aveva potuto fare altro – nella circostanza – che constare il decesso della
Emma D’Ariotta che giaceva esanime al suolo nell’androne del cortile della sua abitazione. I militari
della Fedelissima appurarono che la donna, prima del decesso aveva sostenuto un
alterco con tale Rosa De Felice, abitanti nello stesso palazzo. I carabinieri
dopo aver fatto piantonare il cadavere in attesa della constatazione di rito da
parte del magistrato di turno avevano svolto una sommaria indagine a conclusione
della quale avevano appurato che la vittima, assieme alle figlie, aveva avuto una violentissima discussione con
la coinquilina Rosa. Il motivo della discussione – secondo le testimonianze
degli astanti – era da ricercarsi nel fatto che alcuni giorni prima del delitto
si era addivenuto ad un tacito accordo, tra tutti gli abitanti del caseggiato,
secondo il quale sotto l’androne del palazzo non si dovevano collocare gli
attrezzi ed i telai per la lavorazione artigianale della coperte che, in quel
periodo veramente di stenti, rappresentava una risorsa di sopravvivenza per
molti nuclei familiari della zona. Un chilo di pasta infatti costava 195 lire; un litro di vino 110 mentre
un biglietto per il cinema 175 e un giornale 25 lire. Un televisore bianco e
nero costava 350 mila lire mentre uno stipendio mensile di buon livello era
fissato in 170 mila lire. Ma ritorniamo alla nostra storia. I carabinieri
dunque avevano appurato che la discussione che era degenerata, provocando addirittura un morto, era sorta in
quanto la Rosa De Felice – contravvenendo al patto stipulato aveva collocato,
quella mattina, il telaio per fabbricare le coperte ed aveva iniziato il suo
lavoro. Anche la famiglia della vittima svolgeva lo stesso lavoro e la donna si
era subito portata all’ingresso del palazzo ad aveva redarguito la Rosa. Il motivo per il quale era stato convenuto di
comune accordo il divieto di lavorare le coperte all’ingresso del palazzo era
dovuto al fatto che essendo il passaggio molto stretto a volte non vi era neppure lo spazio per il transito di
una persona a piedi. Rosa De Felice nel corso del primo interrogatorio, oltre a
discolparsi del fatto che pur avendo strattonata la donna non conosceva le sue
afflizioni cardiache, aveva motivato la sua scelta di mettersi a lavorare
all’ingresso del palazzo perché la giornata – e siamo al 23 agosto – era molto
calda e all’interno si soffocava.
Alle rimostranze della signora Emma D’Ariotta – secondo le indagini dei carabinieri e le testimonianze degli altri inquilini dello stabile che furono presenti al delitto – la rosa De Felice per con arroganza e poi con minacce rispondeva che lei nemmeno con l’intervento della Forza Pubblica si sarebbe spostata dall’androne. Subito dopo dalle parole la Rosa passò ai fatti aggredendo la D’Ariotta, graffiandola al viso e strattonandola tirandogli i capelli. A questo punto si trovò a transitare tale Luigi Iannotta, un bracciante agricolo che abitava nella stessa strada ma al civico 6 e visto che tutti guardavano – senza intervenire – mentre la povera donna stava per soccombere ed era già stramazzata al suolo, e nello stesso tempo la Rosa De Felice si stava accapigliando con una figlia della Emma D’Ariotta a nome Anna il nuovo arrivato riuscì a dividere le due donne. La Emma intanto non dava più segni di vita. A questo punto la rosa De Felice visto che la donna da lei aggredita era morta si diede alla fuga e non potette essere rintracciata ma si costituì ai carabinieri dopo alcuni giorni. Il magistrato di turno interveniva sul posto ed ordinava la rimozione del cadavere disponendo per il giorno successivo l’esame autoptico presso la sala mortuaria del locale cimitero. Il rapporto dei carabinieri terminava con un vero e proprio atto di accusa per la per l’assassina. La vittima presentava “evidenti segni di un morso umano al polso della mano destra ed uno al collo”. La Emma D’Ariotta venne però descritta come una donna “ pettegola, arrogante, attaccabrighe, autoritaria e prepotente”. In seguito al rapporto e all’inizio della istruttoria formale venne emesso da parte del Giudice Istruttore Dr. Mario Mancuso un mandato di cattura contro la Rosa De Felice per il delitto di omicidio ( Art. 584 Codice Penale) “per avere con atti diretti a commettere percosse e lesioni contro Emma D’Ariotta cagionandone la morte”. Dopo alcuni giorni di latitanza la donna si costituì. Interrogata dal Giudice Istruttore alla presenza del suo difensore negò la sua intenzione di uccidere la Emma ma insistette con il dire che era stata la vittima ad aggredire lei. In particolare chiarì: “Nego di aver dato un morso alla D’Ariotta, nego altresì che Orsola D’Alessandro sia ibntervenuta nella lite. Non so psiegarmi come la D’ariotta presentasse tracce di morso; intervenne tanta gente a dividere che non so dire”. Su precisa domanda del Giudice Istruttore la Rosa De Felice precisò ancora: “ Anche la figlia della D’Ariotta, due o tre giorni prima, aveva lavorato le coperte sotto il portone. Tuttavia preciso che io non ero in buoni rapporti con la D’Ariotta, la quale, quel giorno, vedendo che io stendevo il telaio sotto il portone lo gettò per aria, e mentre io mi chinavo per riprenderlo si gettò contro di me aggredendomi ed io non feci altro che difendermi”.
Dal canto suo la sorella Anna dichiarò che: “All’accordo perché non si lavorasse sotto il portone si addivenne due o tre giorni prima del fatto appunto perché avendo mia sorella Angela lavorato sotto il portone gli altri inquilini si erano ribellati. Io ero in casa ed uscii nel cortile nel sentire delle grida. Notai così che mia madre si era afferrata con l’imputata. Né io né mia sorella Angela intervenimmo e quando accorremmo purtroppo contestammo che nostra madre era morta. Mi fu riferito che mia madre si fosse doluta che l’imputata avesse rimesso il telaio sotto il portone; forse mia madre nel rimproverare la imputata dovette urtare contro il telaio e farlo cadere per terra. Per la verità io il telaio lo trovai propria a terra ma forse dovette essere qualcuno che era accorso a farlo cadere. Preciso, infine, che quando uscii mia madre e l’imputata non si erano ancora afferrate. Noi ignoravamo che mia madre avesse il cuore in quelle condizioni perché aveva lavorato fino a quel giorno”. Fu poi la volta della sorella Angela la quale - per sommi capi - confermò la deposizione della sorella chiarendo che “la madre si accapigliò con l’inputata mentre lei e la sorella stavano discutendo con la figlia della Rosa De Felice – la quale aveva pronunciato cattive parole nei confronti dell’altra sorella Anna. Confermò che l’accordo per non lavorare le coperte imbottite sotto il portone era stato raggiunto giorni addietro perché lei si era messa a lavorare sotto l’androne. Chiarì che nel palazzo erano tre le famiglie che lavoravano le coperte e naturalmente tutti i telai sotto il portone non c’entravano.
Alle rimostranze della signora Emma D’Ariotta – secondo le indagini dei carabinieri e le testimonianze degli altri inquilini dello stabile che furono presenti al delitto – la rosa De Felice per con arroganza e poi con minacce rispondeva che lei nemmeno con l’intervento della Forza Pubblica si sarebbe spostata dall’androne. Subito dopo dalle parole la Rosa passò ai fatti aggredendo la D’Ariotta, graffiandola al viso e strattonandola tirandogli i capelli. A questo punto si trovò a transitare tale Luigi Iannotta, un bracciante agricolo che abitava nella stessa strada ma al civico 6 e visto che tutti guardavano – senza intervenire – mentre la povera donna stava per soccombere ed era già stramazzata al suolo, e nello stesso tempo la Rosa De Felice si stava accapigliando con una figlia della Emma D’Ariotta a nome Anna il nuovo arrivato riuscì a dividere le due donne. La Emma intanto non dava più segni di vita. A questo punto la rosa De Felice visto che la donna da lei aggredita era morta si diede alla fuga e non potette essere rintracciata ma si costituì ai carabinieri dopo alcuni giorni. Il magistrato di turno interveniva sul posto ed ordinava la rimozione del cadavere disponendo per il giorno successivo l’esame autoptico presso la sala mortuaria del locale cimitero. Il rapporto dei carabinieri terminava con un vero e proprio atto di accusa per la per l’assassina. La vittima presentava “evidenti segni di un morso umano al polso della mano destra ed uno al collo”. La Emma D’Ariotta venne però descritta come una donna “ pettegola, arrogante, attaccabrighe, autoritaria e prepotente”. In seguito al rapporto e all’inizio della istruttoria formale venne emesso da parte del Giudice Istruttore Dr. Mario Mancuso un mandato di cattura contro la Rosa De Felice per il delitto di omicidio ( Art. 584 Codice Penale) “per avere con atti diretti a commettere percosse e lesioni contro Emma D’Ariotta cagionandone la morte”. Dopo alcuni giorni di latitanza la donna si costituì. Interrogata dal Giudice Istruttore alla presenza del suo difensore negò la sua intenzione di uccidere la Emma ma insistette con il dire che era stata la vittima ad aggredire lei. In particolare chiarì: “Nego di aver dato un morso alla D’Ariotta, nego altresì che Orsola D’Alessandro sia ibntervenuta nella lite. Non so psiegarmi come la D’ariotta presentasse tracce di morso; intervenne tanta gente a dividere che non so dire”. Su precisa domanda del Giudice Istruttore la Rosa De Felice precisò ancora: “ Anche la figlia della D’Ariotta, due o tre giorni prima, aveva lavorato le coperte sotto il portone. Tuttavia preciso che io non ero in buoni rapporti con la D’Ariotta, la quale, quel giorno, vedendo che io stendevo il telaio sotto il portone lo gettò per aria, e mentre io mi chinavo per riprenderlo si gettò contro di me aggredendomi ed io non feci altro che difendermi”.
Dal canto suo la sorella Anna dichiarò che: “All’accordo perché non si lavorasse sotto il portone si addivenne due o tre giorni prima del fatto appunto perché avendo mia sorella Angela lavorato sotto il portone gli altri inquilini si erano ribellati. Io ero in casa ed uscii nel cortile nel sentire delle grida. Notai così che mia madre si era afferrata con l’imputata. Né io né mia sorella Angela intervenimmo e quando accorremmo purtroppo contestammo che nostra madre era morta. Mi fu riferito che mia madre si fosse doluta che l’imputata avesse rimesso il telaio sotto il portone; forse mia madre nel rimproverare la imputata dovette urtare contro il telaio e farlo cadere per terra. Per la verità io il telaio lo trovai propria a terra ma forse dovette essere qualcuno che era accorso a farlo cadere. Preciso, infine, che quando uscii mia madre e l’imputata non si erano ancora afferrate. Noi ignoravamo che mia madre avesse il cuore in quelle condizioni perché aveva lavorato fino a quel giorno”. Fu poi la volta della sorella Angela la quale - per sommi capi - confermò la deposizione della sorella chiarendo che “la madre si accapigliò con l’inputata mentre lei e la sorella stavano discutendo con la figlia della Rosa De Felice – la quale aveva pronunciato cattive parole nei confronti dell’altra sorella Anna. Confermò che l’accordo per non lavorare le coperte imbottite sotto il portone era stato raggiunto giorni addietro perché lei si era messa a lavorare sotto l’androne. Chiarì che nel palazzo erano tre le famiglie che lavoravano le coperte e naturalmente tutti i telai sotto il portone non c’entravano.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
L’accusa di
omicidio preterintenzionale costò alla donna una condanna ad anni 4 e mesi 5 di
reclusione. Furono concesse le attenuanti generiche e quelle della provocazione.
Dopo circa due anni di detenzione la Rosa De Felice, 38 anni da San Prisco, accusata
di omicidio preterintenzionale, comparve innanzi la Corte di Assise di
Santa Maria Capua Vetere (Giovanni
Morfino, presidente: Renato
Mastrocinque, giudice a latere; giudici popolari: Michele Campofredi, Antonio Di Caprio, Domenico Gentile, Francesco
Cerreto, Paolo Acquaroli e Alberto Di Baia; rappresentante la pubblica
accusa, pubblico ministero il Sostituto Procuratore della Repubblica Dr. Nicola Damiani). Nel dibattimento non
emersero elementi discordanti dalla sentenza di rinvio a giudizio a chiusura
della istruttoria formale. Ma il processo fu impegnativo la difesa infatti
della imputata, con l’ausilio di tecnici ed esperti, con perizie
medico-legali propendeva per dimostrare
che “non vi era nesso di causalità tra la morte e l’evento” in quanto la
vittima afflitta da grave tachicardia sarebbe morta di lì a pochi giorni anche
se non si fosse verificata la rissa. La parte civile, con l’ausilio della
pubblica accusa, era prevedibile che adombrava una tesi diversa e cioè che le
percosse inflitte alla Emma D’Ariotta avevano avuto un nesso “violento e
diretto” sull’evento causando la morte della donna. Più in particolare, si osserva che l’omicidio
preterintenzionale rappresenta una fra le fattispecie penali incriminatrici di
maggiore gravità ed allarme sociale che
sono contemplate all’interno del vigente ordinamento giuridico penale. Il
vigente codice penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 43 c.p., offre una definizione normativa molto precisa
e specifica in tema di preterintenzione che è proprio la seguente: “Il delitto è preterintenzionale, o oltre
l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. In sostanza, tra il
dolo e la colpa l’articolo 43 c.p. sembra prevedere una terza forma di
colpevolezza, non secondo né contro, ma oltre l’intenzione: la preterintenzione. Perché la fattispecie possa dirsi preterintenzionale
è necessaria la volizione di un evento e la realizzazione involontaria di un evento più grave,
causalmente messo in relazione ad una condotta sostenuta dalla volontà
dell’evento meno grave.
L’omicidio preterintenzionale è costituito dal fatto di chi, ponendo in essere atti diretti unicamente a percuotere una persona o a provocarle una lesione personale, ne cagioni la morte, la quale, quindi, rappresenta un “quid pluris” rispetto all’evento effettivamente perseguito dal soggetto agente. Due tesi in antitesi ma la Corte, accogliendo le tesi dell’una e dell’altra condannò la donna per omicidio preterintenzionale in danno di Emma D’Ariotta, con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione alla pena di anni quattro e mesi cinque e giorni dieci di reclusione e alla interdizione dei pubblici uffici per la durata di cinque anni. Condannò, inoltre la stessa al pagamento delle spese processuali e a quelle di custodia preventiva nonché ai danni per la parte civile Anna De Felice da liquidarsi in separata sede. Dichiarò espiati anni uno e mesi sette e giorni venti della pena inflitta e condonò la restante pena per l’indulto che in quei giorni era stato proclamato. Nel processo furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini, Vittorio Verzillo e Pompeo Rendina.
Avv. Vittorio Verzillo |
L’omicidio preterintenzionale è costituito dal fatto di chi, ponendo in essere atti diretti unicamente a percuotere una persona o a provocarle una lesione personale, ne cagioni la morte, la quale, quindi, rappresenta un “quid pluris” rispetto all’evento effettivamente perseguito dal soggetto agente. Due tesi in antitesi ma la Corte, accogliendo le tesi dell’una e dell’altra condannò la donna per omicidio preterintenzionale in danno di Emma D’Ariotta, con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione alla pena di anni quattro e mesi cinque e giorni dieci di reclusione e alla interdizione dei pubblici uffici per la durata di cinque anni. Condannò, inoltre la stessa al pagamento delle spese processuali e a quelle di custodia preventiva nonché ai danni per la parte civile Anna De Felice da liquidarsi in separata sede. Dichiarò espiati anni uno e mesi sette e giorni venti della pena inflitta e condonò la restante pena per l’indulto che in quei giorni era stato proclamato. Nel processo furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini, Vittorio Verzillo e Pompeo Rendina.
Fonte. Archivio di Stato di Caserta
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