Il delitto accadde il 19 dicembre nei pressi della
“Tenuta Bartolotti”, in agro di
Castelvolturno nel tenimento del marchese Chianese
MARIO LEVATE’ UCCISE
IL COGNATO MICHELE MAZZELLA CON DUE COLPI DI PISTOLA
…quando
la realtà supera la fantasia un groviglio di singolari fatti che
determinarono il delitto
Il dissapore sorto perché l’uomo
aveva sposato la donna che era “usata” e si era pattuita una dote di panni da
10 ed una somma di denaro. Non furono mantenuti i patti e il suocero rilasciò
della cambiali. Il fratello della moglie pretendeva la restituzione dei titoli.
La pistola acquistata in nero a Grazzanise con 10 Kg. di baccalà.
Castelvolturno - Il
pomeriggio del 19 dicembre del 1953 i carabinieri vennero informati da tal Mario Meddi, di anni 21 da Castel
Volturno, che un uomo era stato ucciso
dal cognato in contrada “Bortolotti” nelle terre del Marchese Chianese in tenimento
di Cancello Arnone e si portavano
immediatamente in tale località dove rinvenivano effettivamente giacente in un
grosso collettore delle acque piovane, il cadavere di Michele Mazzella che presentava una ferita d’arma da fuoco,
penetrante in cavità sulla parasternale di destra fra il terzo e quarto spazio
intercostale. La sorella dell’ucciso Francesca
Mazzella, abitante con il marito Mario Levatè in una casa colonica
distante una cinquantina di metri dal punto dove giaceva il cadavere,
identificato fra gli astanti, riferiva che quel pomeriggio verso le 16 e 15 il
fratello venuto nella sua abitazione, aveva per ragioni di interesse litigato
col marito cui aveva rivolto anche delle minacce. Nel corso del litigio, anzi,
poiché gli animi si erano eccitati, il fratello era uscito sull’aia per
impossessarsi di un tridente mentre il marit salito al piano superiore della
casa ed impossessatosi di una pistola era andato incontro alla vittima. Il
fratello quindi, abbandonato nella corsa il tridente, si era dato alla fuga
dirigendosi verso l’argine del collettore; quivi giunto si era fermato
volgendosi al di lei marito che aveva continuato ad ingiuriarlo, forse per
parlargli; senonché il marito gli aveva
esploso contro tre colpi di pistola facendolo rotolare nel collettore, privo di
vita come ella – che era corsa immediatamente come aveva potuto constatare -
il marito si dava alla fuga. Il fratello della vittima, Luigi Mazzella riferiva dal canto suo che avvertito di un litigio
tra il fratello ed il Mario Levatè si
era subito portato presso l’abitazione della sorella ed era stato informato da
costei “che il fratello Michele era stato ucciso per le ragioni dette innanzi
con tre colpi di pistola”. I carabinieri accertavano in ordine alla causale del
fatto, che al Levatè – all’atto del suo matrimonio con la Francesca era stato
promesso dal padre di costei la corresponsione entro il termine di due anni dal
matrimonio della somma di lire 70.000 con
un corredo “in panni da 10”. (Per tradizione i panni del corredo della sposa si
davano a quattro, a sei, a otto e a dieci N.d.R) Dalla epoca del matrimonio
celebrato nel 1951 nulla invece era stato ancora dato tranne pochi capi di
biancheria a seguito di vane sollecitazioni al suocero Ciro Mazzella, aveva finito col rivolgersi all’Avv. Antonio Giordano del Foro di Santa
Maria Capua Vetere. Fu così che pochi giorni prima del fatto, nello studio del
detto regale Ciro Mazzella aveva rilasciato al Lavatè – a tacitazione del suo
credito - delle cambiali per l’importo complessivo di L. 170.000. L’operato di
Ciro Mazzella non era però piaciuto al
figlio di costui Michele (la
vittima) che sostenevano l’essersi nel conteggio non tenuti presenti dei capi
di biancheria consegnati alla sorella; appunto per muovere tali contestazioni
anche in ordine all’importo delle cambiali egli il giorno del delitto si era
portato in casa del Levatè dove invece aveva trovato la morte. Dopo 4 giorni
dal delitto - il mattino del 23 dicembre - infatti si costituiva ai carabinieri Mario Levatè. Interrogato - dopo
aver accennato al regolamento degli interessi riguardanti la moglie - avvenuto
col pieno gradimento del genitore di costei, dichiarava che rientrato in casa
il pomeriggio del 19 dicembre aveva trovato il cognato Michele e la propria
moglie che discutevano assumendo quegli che i capi di biancheria consegnatile fossero
il maggior numero di quello sostenuto
dalla seconda. Perché egli aveva confermato l’assunto della moglie, il cognato
aveva preteso dapprima che agli egli l’indomani
si fosse recato con lui dall’avvocato cui si era rivolto e poi la restituzione
delle cambiali rilasciategli dal padre e al rifiuto il Michele Mazzella gli aveva tirato uno schiaffo cui egli non
aveva reagito. L’alterco sembrava perciò
anche terminato - se non che il cognato - essendo tutti e tre discesi al pianterreno -
si era all’improvviso portato fuori di casa e si era impadronito di un tridente
col quale l’aveva minacciato “di cavargli
gli intestini” nel caso che egli non
avesse consegnato le cambiali. Egli allora, estratta di tasca la pistola aveva
esploso un colpo in aria; quindi approfittando che la porta era stata lasciata
libera si era dato alla fuga ed era stato inseguito dal cognato che sempre col
tridente impugnato l’aveva costretto a ripararsi dietro il pozzo ed a girarsi
più volte intorno; che vistosi ad un tratto perduto aveva sparato un secondo
colpo che aveva raggiunto il cognato che difatti, abbandonato il tridente e
portandosi le mani al petto si era diretto barcollante verso il collettore
precipitandovi poi dentro. Il Levatè contestava il diverso assunto della moglie
negando di aver inseguito il cognato anche quando costui avrebbe abbandonato il
tridente; dichiarava di avere già addosso al momento del fatto la pistola
indebitamente posseduta, essendo egli solito rincasare tardi a causa del suo
commercio. Con il rapporto successivo i carabinieri ritenendo non veritiera la
versione resa dal Levatè – che aveva adombrato una sorta di legittima difesa - denunciavano in stato di arresto costui quale
responsabile di omicidio volontario.
Nel formale interrogatorio - innanzi al Giudice Istruttore - confermava
quanto dichiarato ai verbalizzante. La moglie, invece, adducendo lo stato emotivo in cui ella si
trovava subito dopo il fatto ritrattava le dichiarazioni rese non solo ai
carabinieri ma anche successivamente al Pretore - acceduto sul luogo del delitto per le
constatazioni di rito e la rimozione del cadavere - e dava una versione
identica a quella fornita dallo imputato. Nel corso delle indagini – sia a seguito di perizia autoptica affidata ai
periti Antonio Papa e Mario Pugliese, con studio in Santa
Maria Capua Vetere -
Che di quella balistica redatta
dal perito Maggiore Pietro Monsurrò
si accertò,
inoltre che la morte del Mazzella era stata causata da lesioni di organi
interni vitali (cuore-polmone) conseguente a colpo d’arma da fuoco esploso non
a contatto, in quanto lo sparatore e la sua vittima erano sullo stesso. Inoltre
la perizia balistica precisava - in base ai caratteri del proiettile repertato
durante l’autopsia - che l’arma omicida era una pistola a rotazione calibro
otto; che il colpo era stata esploso da
breve distanza; e che al momento della esplosione “vittima ed offensore” erano di fronte ed allo stesso livello. Con sentenza
del 1 agosto 1954 il Giudice Istruttore sulle conforme conclusione del pubblico
ministero riteneva insussistente l’invocata legittima difesa (tanto era stato
prospettato in sede istruttoria dal suo difensore avv. Giuseppe Garofalo) ordinava pertanto il rinvio di Mario Levatè al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere per rispondere dell’omicidio.
Nel corso della complessa
istruttoria sia sulla sulle modalità del fatto sia in relazione ai risultati della perizia
balistica gli inquirenti accertarono che vi erano state delle contraddizioni
nelle versioni sia dell’imputato che della moglie. “Può ritenersi infatti - scrissero nella sentenza di rinvio a giudizio - per certo tuttavia che il
Manzella finì col minacciare di “cavare gli intestini” al cognato impugnando un
tridente che rispose con uguale minaccia. I due uomini discussero quindi al
pianterreno, dopo il litigio, mentre la donna tendeva a preparare il desinare, e
nel frattempo si accendeva ancora più violento. Ad un tratto il Michele
Manzella dopo aver chiesto in tono di
scherno al cognato “cosa mai egli avesse
portato in dote” si precipitò fuori sull’aia, si impossessò di un grosso tridente e ritornò
nella stanza avventandosi contro il cognato il quale però fu lesto ad impugnare
quella pistola - che non trovavasi
affatto per caso addosso al suo rientro
in casa - giusta la sua ammissione fatta
davanti ai giudici - che aveva avuto
cura di predisporre prima di scendere al pianterreno e quindi allorché il
cognato si era armato di tridente. I giudice dell’istruttoria analizzarono con
scrupolo e attenzione ogni particolare delle diverse deposizioni. Si
soffermarono ad analizzare – poiché il Levatè insisteva nell’assunto di essere
egli stato inseguito dal cognato dopo l’esplosione del primo colpo di pistola e
di essere stato quindi costretto a sparare un secondo colpo di pistola e di
essersi di essere stato quindi costretto a sparare un colpo poiché quegli
inseguendolo intorno al pozzo, gli si era all’improvviso parato di fronte, cosa
sia realmente accaduto. Alla ricostruzione del fatto – precisarono gli inquirenti - non può procedersi se non in base alle
dichiarazioni rese dalla Francesca
Manzella lo stesso giorno ai
carabinieri e l’indomani al Pretore. Tali dichiarazioni rese sia pure in stato di orgasmo e di emozione per quanto
era accaduto, apparvero infatti, appunto perché immediate, più rispondenti al
vero di quelle rese poi in successivi interrogatori. Si tenga presente anche
che il marito era latitante e che lei veniva continuamente interrogata dai
carabinieri e dagli inquirenti. D’altra parte quanto riferì la Manzella - per ben due volte in sede di indagine e poi
alla stesso suo fratello Luigi, accorse
subito dopo l’omicidio – appare molto
più logico essendo assurdo ritenere che un uomo, per quanto eccitato ma pur
sempre armata di uno strumento inidoneo a competere con un’arma da fuoco - potessi inseguire e con tanta insistenza un avversario armato di pistola e decisa a
servirsene quale appunto era il Levatè che se ne era fornito proprio per far
fronte alla sua tracotanza. Orbene è da ritenersi, come appunto dichiarò la
Francesca Manzella, che il marito visto il cognato impadronirsi del tridente ed
avvicinarsi minacciosamente impugnò la pistola; a tale suo gesto deciso e
specie se a questo seguì quel colpo esploso in aria nell’interno della stanza,
il cognato si diede senz’altro alla fuga (e questa circostanza spiega più di
quella dedotta dal Levatè com’è questi avesse potuto impunemente guadagnare la
porta e portarsi sull’aia) cercando dapprima riparo dietro il pozzo e poi
gettato l’inutile ed ingombrante arnese dirigendosi inavvertitamente verso il collettore; quivi
giunto ed accortasi dell’ostacolo non agevolmente superabile specie in quelle
condizioni si girò verso il Levatè - forse per rilevarne il distacco - fors’anche per parlargli - come ebbe a precisare la Mazzella, ma venne
colpito al petto rotolando nel canale.
“Le modalità del fatto -
precisarono ancora i giudici nella sentenza di rinvio a giudizio - l’inseguimento lungo i 50 metri
intercorrenti fra la casa e il
collettore dalla vittima disarmata ed ormai inoffensivo ed alla sua mercè, lo
sparo contro di essa di altri due colpi di pistola (la Mazzella fu precisa al
riguardo ed il di lei fratello Luigi
parla pure di tre colpi complessivamente)
dimostrano da un canto l’assurdità della tesi della
legittima difesa in assenza di ogni pericolo attuale sussistendo invece solo
per il fuggitivo Manzella, dall’altro una piena cosciente intenzione di uccidere da parte del
Levatè che sia pure sorta improvvisamente nello stato di concitazione derivante
dall’alterco e dall’atteggiamento della vittima si appalesa ben chiara a causa
della reiterazione dei colpi di un’arma così efficiente e dall’esplosione dello
ultimo di essi che da breve distanza fu diretto al petto della vittima e che
attinse come si è detto il polmone sinistro ed il cuore
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
La
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,
composta dal Presidente Giovanni
Morfino, dal giudice a latere, Mario Mancuso, con i giudici popolari: Michele Compofredi, Antonio Di Caprio, Domenico Gentile, Francesco
Cerreto, Paolo Aquaroli e Alberto Di Baia, rappresentante della
pubblica accusa Nicola Damiani in
data 13 aprile del 1955 pronunciò la
sentenza di condanna contro Mario Levatè,
di anni 27, da Castelvolturno, accusato di aver esploso tre colpi di pistola contro il cognato Michele Mazzella uccidendolo. Nel
dibattimento, i genitori della vittima revocarono espressamente la costituzione
di parte civile essendo stati risarciti.
L’imputato insistendo nel suo
assunto – ipotesi della legittima difesa - ci tenne a precisare di essersi
munito della pistola che era in
custodita in un mobile della stessa abitazione soltanto prima di scendere al
pianterreno dove il cognato si era frattanto portato ciò perché aveva temuto il
riaccendersi del diverbio. Il Pubblico ministero al termine della sua requisitoria
chiese una condanna a 12 anni di reclusione. La Corte concesse le attenuanti
generiche e quelle della provocazione precisando che “Il rilevato atteggiamento
dell’ucciso però, la sua aggressività e di cui lo stesso genitore aveva non a
torto temuto, le sue gravi minacce alla stessa incolumità personale del Levatè,
lo stesso suo intromettersi in questioni
che riguardavano esclusivamente il di lui genitore, il suo intrattenersi in casa durante l’assenza del
cognato, l’avere costretto la sorella a mostrargli persino qui pochi capi di
corredo ricevuti, non possono non essere
considerati un fatto ingiusto nei confronti del Levatè - suscitatore di una giustificata comprensibile
ira di costui cui pertanto va concessa
l’attenuante della provocazione. Inoltre, se non compete
l’attenuante del risarcimento del danno in quanto a prescindere della pochezze della somma che egli a tale titolo
avrebbe versato al suocero- che si è mostrato fra l’altro alquanto incerto al
riguardo – anche se altro risarcimento è stato offerto alla moglie dell’
ucciso, vanno indubbiamente concesse le attenuanti generiche sia in
considerazione di quanto sborsato al suocero a titolo di indennizzo, sia in
considerazione dei suoi buoni precedenti morali e penale, sia infine
particolarmente per la condotta serbata nei confronti dei familiari della
moglie, essendosi egli limitato, di
fronte alla prolungata ed ingiustificata inadempienza di costoro tanto più
grave in quanto l’obbligazione era stata assunta anche in considerazione della
condizione in cui la Francesca era andata sposa al Levatè (ella era stata
infatti sedotta da altri). Ad adire le
vie legali accontentandosi peraltro di un regolamento onde venire nuovamente
incontro al suocero che aveva ancora una
volta eccepita l’impossibilità di prontamente adempiere. In
ordine alla pena per l’omicidio questo può essere fissate in anni 21 che per la
provocazione può essere ridotta ad anni
14. In definitiva la Corte di Assise condannò il Levatè a 9 anni e mesi 4 di
reclusione. In data 20 febbraio del 1956 la Corte di Assise di Appello confermò
la sentenza. Vi è da tener presente però che la parte civile, rappresentata dal
padre e dalla moglie della vittima si ritirarono in quanto l’imputato risarcì
con una certa somma le famiglie. Gli avvocati impegnati furono Antonio Caruso, Giuseppe Garofalo e Antonio
Giordano.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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