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sabato 11 agosto 2018





Ecco la verità del giudice Alemi dopo la morte di Ciro Cirillo: "Tutto chiaro per me, lo Stato trattò con la camorra"




Carlo Alemi, il coraggioso magistrato casertano si racconta dopo 40 anni... svelando segreti finora ignoti a molti  

     È la sera del 27 aprile del 1981 quando Ciro Cirillo, assessore regionale ai Lavori Pubblici della Regione Campania, viene sequestrato nel garage di casa, a Torre del Greco, da un commando di cinque uomini appartenenti alle Brigate Rosse, capeggiati da Giovanni Senzani. Nel conflitto a fuoco che segue perdono la vita l’agente di scorta di Cirillo, il brigadiere Luigi Carbone, l’autista Mario Cancello, e viene gambizzato Ciro Fiorillo, segretario dell’assessore. Ex presidente della Regione, democristiano “doroteo” molto vicino ad Antonio Gava, Cirillo è uno degli uomini politici più addentro ai meccanismi del potere; da qualche mese, inoltre, è diventato presidente della Commissione incaricata di gestire gli appalti del post-terremoto del 1980. Lo Stato annuncia la linea dura: come già per Aldo Moro tre anni prima, non tratterà con le BR.
     Cirillo verrà rilasciato dopo 89 giorni di prigionia, all’alba del 24 luglio, in un palazzo abbandonato di via Stadera, a Poggioreale. La liberazione era stata annunciata il giorno prima da un comunicato, in cui i rapitori dichiaravano che a sobbarcarsi l’onere del riscatto - un miliardo e 450 milioni di lire - era stata la Democrazia Cristiana, suscitando un enorme scandalo, nonché l’immediata smentita da parte dei familiari, che si assunsero la totale responsabilità di quel pagamento.
     La stessa liberazione fu costellata da episodi controversi, come quello per cui Cirillo, invece di essere tradotto in Questura, come da disposizioni della magistratura, venne portato a casa, dove vano sarà il tentativo di interrogatorio da parte dell’allora pubblico ministero di Napoli Libero Mancuso, causa stato di semincoscienza ascrivibile a shock - salvo poi colloquio personale, a porte chiuse, con Antonio Gava e Flaminio Piccoli, esponenti di spicco del partito.
     Fin da subito emersero dubbi anche in merito alla cifra pagata per il riscatto: si vociferava, infatti, che l’ammontare fosse stato pattuito grazie all’intercessione della camorra, cui sostanzialmente si doveva il merito del rilascio, e che la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo - il più sanguinario capo camorra dell’epoca - ne avesse incassato almeno una metà: la somma sarebbe stata messa insieme da un gruppo di imprenditori edili, ”amici” della DC legati a doppio filo a Cirillo per questioni di appalti e i “colloqui” tanto con funzionari dei Servizi Segreti che con esponenti politici, si sarebbero svolti direttamente nell “allegro” carcere di Ascoli Piceno, in cui era detenuto 'o Professore, per il tramite di faccendieri senza scrupoli.
     Inizia così quella che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha definito “una delle pagine più nere dell'esercizio del potere nell'Italia democratica”: il sequestro è destinato infatti a divenire uno dei più clamorosi casi politici e giudiziari degli anni bui della Repubblica Italiana.
     A indagare sul caso Cirillo è il magistrato Carlo Alemi (casertano) che, in qualità di giudice istruttore, diventa protagonista di alcune delle vicende più oscure e sanguinose degli annidi piombo, conoscendo e interrogando i personaggi più ambigui implicati nelle intricate trame della politica, della malavita organizzata, del terrorismo rosso e dei Servizi Segreti, fino a divenire, suo malgrado, inconsapevole agnello sacrificale. Gli elementi che si intrecciano nella sua ricostruzione sono tanti: fatti di cronaca nera, crimini mafiosi, ipotesi investigative, tentativi di depistaggi da parte di organi dello Stato, sparizione di documenti, misteri irrisolti, testimonianze scottanti, raggiri politici, Servizi deviati.
     E’ Alemi l’autore della straordinaria istruttoria condotta sul caso, affidatagli il 1° settembre del 1981 e conclusasi il 28 luglio del 1988, con il deposito della sentenza-ordinanza di 1,534 pagine destinata a fare Storia, un J’Accuse che scatenerà una vera e propria tempesta politica in Parlamento: ci stata mediazione politica da parte di esponenti della DC, così come ci sono stati contatti e intercessioni con i brigatisti per il tramite di Servizi Segreti e Nuova Camorra Organizzata.
     Vengono chieste le dimissioni al Cava divenuto intanto, con il governo De Mita ministro degli Interni; il Presidente del Consiglio lo difende, respingendo al mittente le accuse, attaccando violentemente Alemi per le sue “opinioni indebitamente espresse e illazioni” e asserendo che il giudice ha abusato delle procedure, “ponendosi così fuori dal circuito costituzionale”.
     L’esito dell’istruttoria, che Carlo Alemi portò avanti, con coraggio e ostinazione, mettendo a rischio la sua stessa vita, tra minacce di morte - il suo nome figurava nell’agenda della “Primula Rossa” Barbara Balzerani - scorte negate, procedimenti per diffamazione e commissioni d’inchiesta  - portò alla comminazione di 30 ergastoli. La sua ordinanza è diventata nel tempo oggetto di studio tanto nelle forze dell’ordine che nelle università italiane e negli atenei stranieri, in quanto documentazione preziosissima atta a testimoniare e ricostruire la storia dell’organizzazione terroristica nota con il nome di Brigate Rosse.
Oggi, magistrato in pensione, per la prima volta e in esclusiva, il narratore d’eccezione della trattativa Stato-BR-camorra per la liberazione di Ciro Cirillo parla e racconta, svelando, in pagine dure e toccanti a un tempo, tra ricordi intimi e analisi storiche lucide e rigorose, chi effettivamente vi prese parte, per conto di chi e per quali motivi si siano mossi i Servizi Segreti e perché lo Stato – diversamente da quanto fece con Aldo Moro – trattò con i brigatisti.






Ciro Cirillo

 subito dopo la liberazione nel 1981 (ansa)






di STELLA CERVASIO


 "Se lo Stato ha trattato una volta con la criminalità organizzata, come è accaduto per Ciro Cirillo, significa che può essere successo altre volte. E siccome nulla è veramente cambiato da allora, non possiamo escludere che accada di nuovo", dice Carlo Alemi, il magistrato che ha indagato sul rapimento e la successiva liberazione dell'allora potentissimo assessore regionale democristiano ai Lavori pubblici. Il 27 aprile del 1981, un commando delle 'brigate rosse' composto da cinque persone agli ordini di Giovanni Senzani, dopo aver ucciso l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, neutralizzò Cirillo per rinchiuderlo in una "prigione del popolo". Ma a differenza di quanto accaduto tre anni prima con Aldo Moro, il 24 luglio successivo, l'ostaggio fu rilasciato. "Le sentenze della Corte d'Appello e della Cassazione hanno sancito che ci fu una trattativa", sottolinea Alemi, all'epoca giudice istruttore, poi presidente del tribunale di Napoli, che ha scritto per Pironti un libro dal titolo inequivocabile: "Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-camorra", che sarà presentato martedì alle 17 all'Istituto studi filosofici.

Perché ha aspettato 37 anni per raccontare la sua verità sul caso Cirillo, presidente Alemi?
"Mi sembrava doveroso lasciare la magistratura, prima. Non sono d'accordo con quei colleghi che scrivono libri quando ancora i procedimenti sono in corso. Ciò nonostante, non avrei mai scritto questo libro senza le insistenze di Luigi Necco (recentemente scomparso, ndr) un giornalista che aveva vissuto da cronista quegli anni, venendo anche ferito alle gambe dalla camorra. Necco mi aveva più volte invitato a raccogliere le mie memorie di quella vicenda e mi ha assistito nella scrittura".


Chi trattò per liberare Cirillo?
"Lo Stato. E non mi si venga a dire che quei soggetti non rappresentavano lo Stato: gli attori di questa vicenda erano ai vertici dell'amministrazione pubblica, dei servizi segreti, del ministero della Giustizia, del partito che aveva la maggioranza relativa in Parlamento".

Perché Moro fu ucciso, mentre Cirillo tornò a casa?
"Cirillo gestiva la ricostruzione post terremoto, dunque serviva vivo alla Dc. Nessuno, invece, voleva che Aldo Moro rimanesse in vita. Non il suo partito, non gli americani e neppure i socialisti, che a parole erano per la trattativa ma temevano il compromesso storico".

Il boss della camorra Raffaele Cutolo che ruolo ebbe?
"Quello di intermediario".

In cambio di cosa?
"Aveva ricevuto promesse ben precise: la liberazione anticipata o almeno la dichiarazione di infermità mentale e favori per i camorristi detenuti".

Il patto però non fu mantenuto.
"Innanzitutto perché il documento pubblicato dall'Unità, attribuito ai Servizi ma risultato falso, in cui si riferiva di una visita nel carcere di Ascoli Piceno di Francesco Patriarca, Antonio Gava e Vincenzo Scotti, fece saltare tutto. E poi perché al Quirinale c'era Sandro Pertini, un presidente di straordinaria autonomia e autorevolezza".

Molti attori di questa storia sono morti, come Gava e lo stesso Cirillo. Restano altri misteri insoluti?
"L'omicidio del dirigente della squadra mobile Antonio Ammaturo. È una bruttissima pagina per il nostro Paese. Basti pensare che, fra i documenti scomparsi durante le indagini, figura la relazione sul caso Cirillo che Ammaturo aveva trasmesso ai suoi superiori. Manca anche la copia che il commissario aveva consegnato al fratello, a sua volta vittima di uno strano incidente di caccia".

Cosa ha rappresentato per lei questa indagine?
"Un impegno difficilissimo, portato avanti nonostante una totale mancanza di collaborazione da parte di chi aveva indagato, di chi avrebbe dovuto testimoniare, e nell'isolamento dei colleghi, tranne uno: Raffaele Bertoni. Ho dedicato il libro a mia moglie, perché mi ha aiutato a proteggere la privacy e la serenità della mia famiglia. Al tempo stesso però ho ricevuto attestati di stima da parte di tante persone, alcune anche insospettabili".

Ad esempio?
"Mentre il Mattino diretto da Pasquale Nonno mi attaccava violentemente, mi arrivò la lettera di un brigatista: "Giudice - diceva - leggendo quello che scrivono, sono contento di essere stato arrestato da lei".




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