A Torino il mondo dell’impresa, l’80% all’incirca
dell’imprenditoria italiana, ha lanciato un monito molto severo al Governo: se
continua così si va al disastro. Le prime avvisaglie della legge contro il
precariato parlano di 53.000 licenziamenti alla fine dell’anno. La strada delle
buone intenzioni è molto sconnessa.
(di
Stelio W. Venceslai)
Il dissenso del padronato, piccolo e grande, si
aggiunge ai molti dell’opposizione, dell’Europa, dei grandi opinion makers della finanza
internazionale. È un monito pesante,
perché contro di tutti non si può andare. Bisognerebbe essere dei profeti o
degli illuminati.
Di
profeti non si vede l’ombra, non è tempo di profeti. Quanto agli illuminati, i nostri
governanti non sanno neppure cosa significhi. C’è,
invece, molta testardaggine, quasi iattanza. Dopo sei mesi di governo, il
governo non governa, in bilico tra le promesse fatte all’elettorato, gli
impegni del “contratto”, i pochi quattrini disponibili e i punti di convergenza
sempre più remoti.
Eppure,
questo sarebbe un momento d’oro per il governo, perché l’opposizione è
annichilita e il consenso dell’elettorato è ancora molto forte. Il consenso c’è
se si fanno le riforme annunciate, giuste o sbagliate che siano. La gente vuole
e crede nel cambiamento. Il duopolio destra-sinistra è finito, due altre forze
politiche contrapposte, invece di combattersi fra loro, si sono unite per fare
il governo, ma governare e fare le riforme è un affare serio.
Per
fare le riforme ci vogliono i quattrini. I quattrini non ci sono. Ci si può
indebitare ma il nostro debito è già molto alto e nessuno ci presterebbe una
lira. Il dilemma è insolubile, se non a chiacchiere.
Di
chiacchiere se ne fanno molte, del tutto inutili. Se i Ministri stessero zitti,
sarebbe molto meglio, evitando polemiche da quattro soldi (v. caso Di Maio). Brillano
Conte e Tria, gli unici presentabili in un contesto internazionale, ma devono
avere argomenti solidi. Nessuno dubita della buona volontà e dei buoni
propositi del governo, ma il “cambiamento” comincia a fare acqua da tutte le
parti.
Il
punto dolente è che ancora ci si gingilla sulle percentuali, 04 o 02 o 03, come
se da queste dipendesse il mondo. La verità, invece, è che non si ha alcuna
idea su come fare gli investimenti, gli unici che darebbero fiato alle imprese e
all’occupazione.
Le
stupide battaglie sulla TAV e l’opposizione contro i grandi lavori, già
bandiera dei 5Stelle, dovrebbero lasciare il campo alla ragionevolezza. Il Paese ha bisogno di tutto, dalle cose che
non costano (snellire gli adempimenti burocratici) a quelle che costano (tipo le
grandi infrastrutture).
Per
gli investimenti i quattrini si trovano, per l’assistenza sociale no. Non
gliene importa niente a nessuno. Questa è la dura verità del mercato. Occorre
abbandonare le illusioni dei tempi dell’osteria o dell’oratorio e pensare non
solo a mantenere ciò che già c’è ma anche a come ammodernare il Paese. Sembra
di essere nella Spagna di Alfonso XIII, prima della rivoluzione repubblicana.
Il
monito degli industriali rappresenta una svolta importante nel dibattito
politico. O il governo si dà una mossa, o diventa un corpo agonizzante. Le
risposte pepate di Salvini o gli incontri di Di Maio per placare gli animi sono
zollette amarognole. L’economia ha le sue regole e i suoi limiti. Far finta di
niente significa suicidarsi.
È
vero che la Confindustria, per definizione scontata, è sempre stata
filo-governativa, ma stavolta il messaggio è chiarissimo: non facciamo politica
ma fateci lavorare. È vero che la Confindustria non ha mai mosso un dito
quando i vari governi del passato sfasciavano il Paese, ma almeno ci lucravano
sopra. Ora, l’occupazione diminuisce, i traffici ristagnano, la produzione
industriale cala, la disoccupazione aumenta, le tasse non scendono, della flat tax non si parla più.
L’industria,
in passato, soprattutto la grande industria, ha preso dallo Stato tutto quello
che poteva prendere: cassa integrazione, incentivi fiscali, favorevoli
normative sul lavoro, accesso pieno e diretto alle stanze del potere. Ora,
tutto ciò non basta più.
Il
dilemma è se dar da mangiare a chi non ne ha, oppure favorire le attività
economiche che potrebbero assicurare una crescita meno fantasma di quella
attuale. Se c’è la crescita c’è l’occupazione. Se c’è l’occupazione si può dare
un colpo alla miseria dilagante.
Di
Maio avverte che il suo elettorato ha bisogno di sopravvivere. Salvini avverte
che l’opinione dell’apparato industriale del Nord non gli è più favorevole. Non
basta riordinare la questione dell’immigrazione, occorre dare lavoro e
certezze. Questa contraddizione pesa molto di più di un’opposizione belante. Le
soluzioni governative prospettate non sono seducenti, sembrano più risposte
emotive che reali orientamenti di politica industriale. Un colpo qua e un colpo
là. Dilettanti. L’altolà dell’industria segna un colpo fatale alle illusioni e
ai vaneggiamenti social-popolari della maggioranza.
La
manovra naviga nelle secche di una contestazione totale tanto agguerrita quanto
impotente. Il negoziato interno giallo-verde si fa ogni giorno più difficile,
guardando ai consensi che si perdono e a quelli che si possono acquisire. Tutto
vogliono fare gli interessi dei cittadini, e credo che siano anche sinceri, ma
i cittadini-imprenditori hanno una marcia in più dei cittadini comuni. Sono
loro quelli che producono e se producono di meno o vanno altrove a produrre,
sono guai.
Qui
non si tratta di essere laureati o arruffapopoli. Conosciamo i limiti
intellettuali della nostra rappresentanza politica. In una situazione come
questa occorre il buon senso. Non c’è scuola o università o master che lo possa dare. O c’è, o non
c’è.
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