Sovranisti
per ghetto
Il
danno, però, è stato fatto. È un classico della politica nazionale: chiudere le
stalle quando i buoi sono già usciti. A fronte di un’emergenza sanitaria
mondiale i problemi italiani sono modesti. Questioni di fondamentale importanza,
come la prescrizione, che hanno dilaniato per mesi la politica nazionale, sono
scomparse. I veri problemi economici sono rimasti insoluti (Alitalia, ex ILVA,
Whirpool e così via) e a questi se ne aggiungono altri, se possibile, ancora
più importanti.
(di Stelio W.
Venceslai)
Stavolta l’hanno fatta grossa, gridando
al lupo, al lupo. A furia di dire scempiaggini, i politici improvvisandosi
medici e i medici improvvisandosi scienziati e politici, i commentatori
televisivi e i giornalisti di grido ci sguazzano, con il tipico ardore italico
della ricerca del pelo sull’uovo.
Il fatto è che, invece, siamo a un guado
difficilissimo, da sovranisti per boria trasformati in sovranisti per ghetto.
Non ci vogliono, nel mondo, perché siamo i nuovi untori di un virus che non si conosce.
Dato l’allarme, con una ventina di
ammalati, si è ricorsi a un metodo nuovissimo, imitando il governo cinese:
quarantena per 50.000 persone, esattamente come si faceva nel Medioevo. Poi,
poiché siamo più furbi di tutti gli altri, siamo andati noi a caccia del virus,
scoprendo che siamo il focolaio europeo dell’infezione.
Adesso, che l’infezione si propaga e i
contagiati sono più di mille, ci poniamo il problema di sopprimere la
quarantena perché ai danni economici di un provvedimento così insensato non ci
aveva pensato nessuno.
Il danno, però, è stato fatto. È un
classico della politica nazionale: chiudere le stalle quando i buoi sono già
usciti. A fronte di un’emergenza sanitaria mondiale i problemi italiani sono modesti.
Questioni di fondamentale importanza, come la prescrizione, che hanno dilaniato
per mesi la politica nazionale, sono scomparse. I veri problemi economici sono
rimasti insoluti (Alitalia, ex ILVA, Whirpool e così via) e a questi se ne
aggiungono altri, se possibile, ancora più importanti.
È in gioco l’intera economia produttiva
italiana. Non parliamo, poi, del turismo.
Gli alberghi chiudono, le prenotazioni sono annullate, le agenzie sono vuote,
gli eventi sportivi e sociali sono sospesi o soppressi, le scuole sono chiuse.
I treni veloci per il nord viaggiano vuoti. Nelle campagne non lavora più
nessuno. La gente ha paura, anche i braccianti, anche i disperati intruppati
dai “caporali”. Anche i camionisti. Progressivamente, si chiudono i voli per
l’Italia. Ultimi a farlo, la Turchia e gli Stati Uniti.
Il nostro famoso Servizio sanitario
nazionale boccheggia: mancano i medici, mancano gli infermieri, difettano i
posti letto, s’improvvisano delle tendopoli sanitarie. Funziona, grazie
all’impegno straordinario del personale sanitario, ma comincia ad essere
asmatico.
Può sembrare un paradosso: il cuore
produttivo del Paese è fermo mentre nel Meridione il contagio è ancora effimero.
Buon per loro, ma il panorama è tragico per tutti. Gridare l’allarme e vantarsi
di essere stati i primi della classe nel farlo è stato fatale. La psicosi da
contagio c’è crollata addosso.
Purtroppo, poi, il mondo va avanti lo
stesso, con le sue scempiaggini tragiche, ma la dimensione della gravità dei
nostri problemi non deve farci dimenticare o non considerare ciò che sta
accadendo sul pianeta.
Al momento, per gli Stati Uniti, sono più
importanti le elezioni del Presidente che l’infezione. In fondo, se la Cina è
nei guai, va bene per Washington, almeno finché il virus non si espanderà creando gli stessi problemi che abbiamo noi.
Anche lì non sono pronti a fronteggiare il contagio.
Giappone e Corea del Sud sono nei guai. L’infezione
paralizza questi due Paesi. E la Corea del Nord? Nessuno ne parla: brutto
segno.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità,
l’OMS, si preoccupa dell’Iran. Là pare che il contagio abbia già causato
centinaia di morti. Le strutture sanitarie in
loco sono pessime, aggravate da un embargo
ventennale. Il sogno militar-nucleare ha prosciugato le risorse del Paese e al virus non gliene importa nulla delle
ambizioni degli ayatollah.
La Turchia agita i suoi spettri su un equilibrio
politico instabile, muovendosi con troppa disinvoltura fra alleati di ieri e
nemici di oggi, ieri con i Siriani, poi contro i Kurdi, oggi contro i Siriani, con
la benevola assistenza dei Russi ma strizzando un occhio alla Nato di cui fa
parte, perché non si fida di Putin e delle sue fin troppo buone relazioni con
l’Iran.
Dove vuole andare Erdogan? In Siria? In
Libano? In Libia? Cerca la protezione della Nato perché non si fida dei Russi,
ricatta un’Europa inesistente spingendo alle sue frontiere decine di migliaia
di profughi verso la Grecia e la Bulgaria. Lascia aperte le frontiere per un
esodo biblico. La sua politica estera si fa con la pelle dei profughi.
Dove andranno queste masse di disgraziati
che fuggono dalle bombe turche e siriane per incontrare i lacrimogeni e le
barriere di filo spinato greco-bulgare?
Il caso italiano è una goccia in un mare
di problemi per l’economia mondiale. Dal contagio, se si svilupperà
progressivamente un po’ dappertutto, deriveranno cambiamenti importanti, perché
sono in gioco gli equilibri geopolitici cui eravamo abituati, anche se molto
instabili.
La Cina, la seconda grande potenza
industriale del mondo, è a pezzi, checché ne dicano i comunicati governativi.
Il prodotto cinese non è più ambito, anche se costa quattro soldi. Ma la Cina non produce solo chincaglierie. Là
si sono trasferite le industrie occidentali, attratte dalla convenienza dei
bassi salari, dell’inesistenza di regole severe sul mercato del lavoro, dalla
mancanza di standard
igienico-sanitari, dalla disinvoltura in materia di protezione ambientale. Tutto
ciò che producono, a partire dai pezzi di ricambio fino alle forniture
elettroniche di eccellenza, ora, è cinese e segue le sorti del blocco attorno
alla Cina.
Di conseguenza, rischia di fermarsi
l’industria occidentale le cui principali componenti sono prodotte in Cina (v.
Mercedes). Chi di globalizzazione colpisce, di globalizzazione perisce. Altro
che via della seta!
La maledizione del virus colpisce tutti, si traduce in un fermo produttivo che aggrava
le tensioni già esistenti, e gravissime, sul mercato del lavoro. La crisi
finanziaria di giorno in giorno si estende come una ragnatela velenosa sul
mondo delle imprese e sugli Stati. Le Borse sono lo specchio della fiducia.
Ogni giorno vanno sotto e perdono colpi. Gli investitori continuano a vendere.
Questo è lo scenario internazionale. Va
da sé che quello nostrano è altrettanto preoccupante. La piccola e media
impresa, che è il nocciolo duro del settore produttivo nazionale, se continua
così, entrerà in agonia. Non si tratta d’essere pessimisti, ma solo realisti.
Se il governo s’illude con qualche
miliardo a debito in più di fermare questo trend
negativo, che è soprattutto mancanza di fiducia nelle istituzioni, siamo
messi proprio male. Invertire questa tendenza sarà enormemente costoso per
tutti e non saranno certo le procedure che inventerà il nostro governo a
facilitare la ripresa, questa fata morgana che appare e scompare dalle labbra
dei nostri politici.
Siamo alle soglie di una vera
rivoluzione.
Roma,
01/03/2020

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