Translate

lunedì 3 gennaio 2022

 

Dopo due anni da un matrimonio “imposto” uccise 

la moglie a calci. Alla Corte scrisse un memoriale 

con il quale ‘confessava’ di non aver avuto 

intenzione di ucciderla. 




L’assassino: “Non sono affatto pentito di quanto ho 

commesso e mi dispiace soltanto di avere sporcato 

le mie scarpine del sangue di mia moglie”…

 

Il 21 maggio del 1957 nel cimitero di Carano una piccola frazione di Sessa Aurunca, il Prof. Carlo Romano, eseguiva l’autopsia di Carmela Di Meo, vittima del brutale uxoricidio perpetrato dal marito Austilio Colella. Dopo l’esame autoptico iniziava l’istruttoria giudiziaria e veniva affidato l’incarico di perito – per una indagine clinica, psicologica e psichiatrica dell’imputato – al Prof. Ugo Massari, psichiatra allora molto in voga. Il primo responso fu che ‘il Colella era un deficiente dell’intelletto, degli affetti e della volontà’. E’ cioè un ‘frenastenico’.  Il 22 maggio del 57 al Pretore di Sessa Aurunca il Colella  precisava  la storia dei suoi  rapporti con la Carmela Di Meo. Circa due anni prima ella gli aveva esternato  la sua viva simpatia tramite due suoi amici, Angelo Di Pietro e Erasmo Asciolla. Senza essersi più visti le nozze venivano celebrate nel dicembre del 1955  e dopo il rito gli sposi facevano ritorno a ciascuno a casa propria. 

Sei sette mesi dopo la Di Meo metteva in atto vari tentativi per convincere lo sposo di prenderla a casa sua tramite Orsola Colella, Ernesto Di Pietro e successivamente a mezzo di Vincenzo Cuomo e Vito Tuccillo, adducendo che i genitori volevano scacciarla di casa. La donna lo invitava a prenderla a casa sua e gli dava due mesi di tempo per la decisione, dichiarando testualmente: “Altrimenti sappiamo noi quello che dobbiamo fare… ti uccidiamo”. Avendo a tale richiesta il Colella risposto ‘che non intendeva lasciarsi intimorire una seconda volta e per di più sentirsi chiamare ‘cornuto’ in tutto il paese’  la moglie cominciava ad urlare, ad insistere, a fare rimostranze per circa una decina di minuti, tanto che egli, persa la pazienza, le vibrò un cazzotto al viso.

Nel mentre la donna caduta a terra chiedeva perdono e piangeva, egli nel buio, al solo scopo di darle una lezione e non essere più molestato le vibrava a casaccio cinque sei calci. Ciò fatto si allontanava, ma avendo constatato  che aveva le scarpe sporche di sangue, era andato dai carabinieri, ai quali aveva dichiarato di aver fatto una buona ‘paliata’ alla moglie.

Nel corso delle indagini si appurò, tra l’altro, che Liliana Di Meo  era a conoscenza che il Austilio Colella aveva avuto relazioni intime con la sorella Carmina,  la quale perciò lo sollecitava continuamente al matrimonio che veniva sempre da lui differito con continui pretesti fino a che la defunta venne a conoscenza che il suo seduttore si era fidanzato con un’altra ragazza di Piedimonte di Sessa Aurunca,. tale Maria Simeone provandone grande risentimento.

In conseguenza di tale fatto nella prima quindicina del gennaio 56, Gina Di Meo ed Angelina Binovelli in Poccia, rispettivamente sorella e cugina della vittima si erano recate in casa della signora Anna Maria Capomacchia coniugata Mazzei, per raccontarle l’accaduto e darle incarico di informare subito il padre della ragazza sedotta senza far nulla trapelare alla madre, sofferente di cuore.

La signora Mazzei condusse a termine l’incarico  ricevuto, dopo aver prima mandato a chiamare la ragazza per rimproverarla di quando aveva commesso. Alcuni giorni dopo il Di Meo padre ritornò dalla signora Mazzei per chiederle di voler mettere a disposizione una camera per un incontro tra i rappresentanti delle due parti al fine di addivenire ad un accordo per il matrimonio tra i due giovani. Parteciparono al convegno preliminare, per Austilio Colella il fratello Andrea e lo zio Eduardo Matano; per la Di Meo, Giovanni Cimmino e Gino Zannini.


Minacce di morte vere o presunte. Il delitto ‘atroce’ e barbaro… Le perizie: sano di mente pazzo totale pazzo parziale ‘socialmente pericoloso’



 

Nonostante tutto, il matrimonio fu celebrato il 27 febbraio del 1956 e dopo le nozze, gli sposi continuarono i vivere ciascuno nella propria abitazione. Ma a proposito della frase ‘manzoniana’, in questa vicenda, intervenne anche il ‘bravo’ dell’epoca un tal Eduardo Martino, uno stretto parente della Di Meo il quale minacciò il Colella e la madre di morte se non avessero riparate il ‘guasto’ con le giuste nozze. Ma anche questo episodio si tinse di ‘giallo’. Dalle indagini dei carabinieri, dalle dichiarazione dei testi, Erasmo Asciolla (cugino dell’imputato) e Mario Binovelli e dal confronto della parti (Matano: Leone Fazzone e Ines Razzino), la pretesa minaccia risultò assolutamente infondata per cui fu dai carabinieri giudicata ‘inesistente’ e messa in circolazione dalla Matano o suoi familiari al fine di creare per il Colella una giustificazione nella consumazione dell’orrendo delitto. 

Angelo Di Pietro, Vincenzo Cuomo ed Erasmo Asciolla (cugino dell’imputato) negarono di aver detto al Colella che la Carmina Di Meo aveva esternato la sua viva simpatia per lui e il desiderio di diventare la sua fidanzata. Le sorelle della vittima Gina, Maria (sorda e malaticcia) e Liliana, ed in particolare quest’ultima, precisarono che la sorella Carmina allorquando si era sparsa la voce in paese che Austilio Colella stava per sposare una certa Maria Simeone aveva loro confidato il suo segreto – fino ad allora gelosamente custodito – di essere cioè stata fidanzata di nascosto per circa tre anni con lo stesso giovane e di essere stata da lui sedotta con promessa di matrimonio da effettuarsi dopo il servizio militare.

Pensarono,  perciò, di mettere al corrente del grave fatto la signora Mazzei, della quale erano coloni, e la Gina vi si recò insieme alla cugina Angelina Binovelli, per pregarla di far conoscere la verità al loro padre, al fine di trovare la migliore soluzione. Nel frattempo si accertò che il padre dell’imputato era stato ricoverato negli anni precedenti al Manicomio di Aversa ed era nello stesso deceduto e sorse quindi il sospetto che il Colella potesse essere pure non del tutto sano di mente e quindi venne sottoposto a perizia psichiatrica .

Il 5 giugno del 1958 il Prof. Ugo Massari, direttore del manicomio ‘Filippo Saporito’ di Aversa, consegnò il suo elaborato e nelle conclusioni evidenziò: “Austilio Colella per infermità, era in uno stato da mente tale, da scemare grandemente, senza escludere, la capacità di intendere e di volere. Lo stesso era persona socialmente pericolosa”.

Il 19 gennaio del 1960, in applicazione della legge del contrappasso, l’avvocato Luigi Falco, difensore di Parte Civile, depositò in cancellaria un parere dello psichiatra Prof. Annibale Puca – in contraddizione a quanto affermato dal perito di ufficio sullo stato id mente dell’imputato. Austilio Colella era capace di intendere e di volere e perfettamente sano di mente”. 

 

  


 

Il processo, l’appello, la condanna a 22 anni di reclusione col riconoscimento del vizio parziale di mente. La vittima una Maria Goretti? Parole di raccapriccio nella motivazione della Corte di Assise

Il delitto di ‘calcio’ e di ‘punta’ commesso da un calciatore di professionecome se volesse uccidere un serpente’… si costituirà per paura di essere ucciso dai parenti della sua vittima…

 

 


 

 

A marzo del 1960 Austilio Colella, con i ferri ai polsi, fu tradotto, sotto buona scorta nella gabbia dell’aula della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Nella relazione del Presidente vi furono parole che facevano accapponare la pelle, che facevano rabbrividire. ‘Austilio Colella di anni 23, da Pidimonte di Sessa Aurunca deve rispondere di omicidio volontario aggravato perché cagionava la morte della moglie Carmina Di Meo usando sevizie e crudeltà, cioè calpestandola  Secondo la parte civile invece, come da accordi presi nell’ultima riunione in casa Palmieri la convivenza era stata rinviata temporaneamente finché il fratello dello sposo Andrea, non avesse raggiunto una sistemazione mediante il conseguimento di un posto nelle Ferrovie dello Stato cui aspirava ed egli, Austilio non aveva espletato il servizio militare.

 “La giovane – informarono i carabinieri - non era stata fidanzata con altri all’infuori del Colella, ed era onesta e stimata come la famiglia a cui apparteneva. Giuseppe Di Donato, parroco del paese ha deposto che la Carmela era ‘buona’, ‘religiosa’ e ‘bene educata’ e molti testi concordano in questa definizione: Giorina Iannucci, Anna Maria Capomacchia,  Domenico Mazzei,  Edoardo Martino,  tra cui qualche parente dello stesso imputato quale uguale Ada Colella”.



Tuttavia durante l’istruttoria, era pervenuta agli inquirenti una lettera anonima secondo la quale responsabile della deflorazione della Di Meo sarebbe stato Domenico Mazzei, proprietario del fondo dai Di Meo condotto. Ma i giudici non diedero molto credito all’anonimo e neppure all’imputato che affermava di aver trovato già abbastanza ‘usata’ la ragazza e faceva anche i nomi dei precedenti fidanzati: Antonio Viola, Michele Vietti (che però non furono mai identificati). Però, debbo ammetterlo che ad un certo punto del processo la Carmina Di Meo è apparsa quasi una Maria Goretti. Tuttavia i giudici contestarono all’imputato il fatto che…’quando, commesso il fatto constaterà -  alle prime luci del paese macchie di sangue alle scarpe - non appresterà alcun soccorso alla vittima,  ma da ‘vigliacco’ il suo pensiero sarà quello di evitare eventuali reazioni da parte dei familiari della moglie,  che potevano aver sentito le sue grida di aiuto dalla loro abitazione discosta di un centinaio di metri dal posto del delitto,  andandosi  a costituire ai Carabinieri di Sessa Aurunca anziché a quelli del proprio paese”. Inoltre la Corte chiarì che ‘venendo il vizio parziale di mente le conclusioni del perito sono pienamente accettabili perché scaturite da un’indagine seria fondata sull’anamnesi  familiare ed individuale del Colella. Il padre del Colella decedette nel manicomio giudiziario di Aversa ove era internato quale prosciolto per totale infermità mentale dal reato di tentato omicidio e si accertò che lo stesso era anche dedito all’uso dell’alcool. Una zia materna poi ricoverata nell’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria Maddalena” di Aversa, per demenza senile decedette nel 1955. Alla pena dell’ergastolo previste per il reato così come contestato originariamente anche senza l’aggravante dell’articolo 61, va sostituita per il riconosciuto vizio parziale di mente la pena di 22 anni di reclusione che si ritiene adeguata al commesso reato.  

La condanna fu appellata e il 2 ottobre del 1965 – dopo otto anni dal delitto – iniziò il processo di Appello. La sentenza confermò il primo verdetto. Fu quindi prodotto un ricorso per Cassazione contro la decisione della Corte di Assise di Appello di Napoli che aveva confermato ‘in toto’ il verdetto di primo grado. Tra l’altro Erminio Di Meo e Caterina Binovelli, genitori della povera Carmina, si dovettero recare allo studio del Notaio Federico Girfatti  per sottoscrivere una procura speciale che serviva a rappresentarli innanzi la Suprema  Corte. Anche il Colella con l’assistenza di Giuseppe Irace presentò ricorso per Cassazione.

 


L’avvocato Giuseppe Irace poi nel suo ricorso pose l’accento 

sull’aggravante della crudeltà, riportandosi allo ‘stato di mente’ del 

Colella, al diniego delle ‘attenuanti generiche’. Ma il suo fu uno 

sforzo  vano. La Cassazione ‘non cassò’ ed anzi confermò il verdetto di  appello.  

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento