Una
vita di sofferenza con 4 figli da sfamare mentre lui faceva la bella vita a
Napoli
Con un Fonogramma
i Carabinieri di Lusciano informarono l’A.G. che Andrea
Tridente nato a Teano il 1911 e domiciliato a Lusciano, alla via Orefici
28, guardia giurata del Comune di Napoli, era stato ucciso nella propria abitazione dalla moglie Maria Concetta Fiorillo che dopo il delitto si era resa latitante con i quattro
figli piccoli. Fu rintracciata due
giorni dopo. Interrogata non ebbe difficoltà ad ammettere il delitto ma volle
precisare che il marito nel corso dell’ennesimo violento litigio aveva
minacciato di ucciderla con la sua pistola d’ordinanza (era guardia giurata del
comune di Napoli) ma lei, armatasi di un manganello di legno, si era difesa e
mentre il marito raccoglieva la pistola che gli era sfuggita di mano ed era
finita sotto il letto, lei l’aveva violentemente e più volte colpito alla
testa. Infatti in sede di sopralluogo venne repertato un manganello, duro,
sporco di sangue in un lavatoio annesso all’abitazione dei coniugi Fiorillo
-Tridente.
Assicurata alla
giustizia l’autrice del delitto gli inquirenti iniziarono il consueto iter
giudiziario. Nel cimitero di Lusciano, il Prof. Dottor Achille Canfora, dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università
di Napoli, incaricato dal giudice istruttore Vincenzo Cimmino del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere,
eseguiva l’autopsia sul cadavere di Andrea
Tridente.
Sulla scena del
crimine i carabinieri avevano repertato
- rinvenuta sotto il letto a circa 80 centimetri dal cadavere - una
pistola automatica marca Beretta cal. 7,65 con caricatore completo con sette cartucce. Del resto già da tempo
risultava ai carabinieri che tra i due coniugi si verificavano frequenti litigi.
I carabinieri
erano intervenuti anche più volte invano, per mettere pace tra i due. La
Fiorillo venne tratta in arresto la sera del 20 maggio. E riferì che per i motivi sopra indicati i litigi tra lei
ed il Tridente erano divenuti negli ultimi tempi sempre più frequenti; che il
giorno precedente, dopo il pranzo che in parte era stato preparato anche del
marito, questo ad una sua richiesta di denaro che le occorreva per pagare
generi alimentari acquistati a credito aveva risposto con un rifiuto e con
minacce di morte e indi era risalito in camera da letto per vestirsi onde
recarsi a Napoli e l’aveva chiamata; che pertanto anche lei era salita al primo
piano ma sul pianerottolo era stata affrontato dal marito il quale puntandole
una pistola sul viso le disse: ”puttana
adesso ti debbo uccidere”; che ella spaventatasi, aveva impegnato una
colluttazione durante la quale la giacca del marito aveva riportato uno strappo
ed entrambi erano entrati nella stanza; che la pistola era caduta di mano al
marito che era andata a finire sotto il letto e indi entrambi si erano tirati
per i capelli fino a che il marito non si era svincolato e curvato – onde
riprendere la pistola –; che a seguito
di ciò essa, convinta che se l’altro avesse ripresa l’arma l’avrebbe
sicuramente sparata, avevo preso un manganello, che era in un angola della
stanza, e impugnandolo con le due mani aveva tirato con la massima forza
diversi colpi sul capo dell’aggressore il quale era rimasto al suolo
cadavere.
Vennero sentiti anche i figli del Tridente e
della Fiorillo, Antonio di anni 16
ed Elena di anni 15. Entrambi
dichiararono che il padre mentre si procurava per sé sufficiente vitto faceva
mancare il necessario a loro e alla madre alla quale passava pochissimo denaro
costringendola così a sbarcare il lunario con la somma di Lire 10.000 mensili
che ella percepiva per il fitto di alcune casette e con altri piccoli introiti,
e che inoltre il predetto spesso trascendeva nei quotidiani litigi che si
verificavano a causa del suo comportamento con ingiurie e minacce sia contro la
moglie che contro di loro. (1)
Un
particolare ripugnante evidenziò la
figlia Elena la quale riferì che il padre portava in casa fotografie nelle
quali era ritratto con delle donne ed anzi spesso durante il pranzo esponeva
quelle fotografie sul tavolo e si rivolgeva alla moglie con frasi come la
seguente: ”puttana, vedi, questa è meglio
di te, fa delle azioni meglio di te”.
Nelle motivazioni della ‘mite’ condanna alla
Fiorillo, i giudici della Corte ‘bollarono’ di infamia l’imputato, lo
definirono ‘padre snaturato’ che aveva perduto i sentimenti, un ‘degenerato’,
uno ‘scellerato’
Rinviata al giudizio
della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere la donna si difesa
energicamente in dibattimento. Vennero alla ribalta episodi che conclamarono le
vicissitudini trascorse nel portare avanti una famiglia con 4 figli, senza
reddito, e con l’aggravante di essere stata contagiata di sifilide dal marito
che a Napoli conduceva una esistenza ‘con donne di malaffare’.
Il parroco di Lusciano, Emilio Graziano ed il fratello del Tridente, Cosimo, riferivano in ordine a richieste di informazioni circa la
moralità e lo stato sociale della vittima che a loro erano pervenute da parte
di ragazze e donne di Napoli. La difesa della donna esibiva in giudizio
fotografie e lettere rinvenute nella casa dell’ucciso ed allo stesso dirette.
Nelle motivazioni
della ‘mite’ condanna alla Fiorillo, i giudici della Corte ‘bollarono’ di
infamia l’imputato, lo definirono ‘padre snaturato’ che aveva perduto i
sentimenti, un ‘degenerato’, uno ‘scellerato’
E proprio negli
ultimi giorni prima dell’omicidio contrasti sorsero infine anche perché il
Tridente intendeva far trasferire la famiglia a Napoli ed a ciò la Fiorillo si
oppose per la considerazione che a Napoli la vita sarebbe stata per loro più
cara che non a Lusciano ove tra l’altro non sopportavano alcuna spesa per alloggio
abitando una casa di sua proprietà. La tensione esistente tra due è ormai
divenuta gravissima e sfociò nella tragedia del pomeriggio del 19 maggio del
1957.
I giudici, però,
non erano pianamente convinti dell’assunto della Fiorillo per quanto attiene
alla circostanza della ‘paventata’ legittima difesa. Infatti evidenziarono che
‘la tesi della Fiorillo di avere agito per necessità di difesa è contrastata
non solo dagli elementi emersi ma anche dalla sua ammissione e dalle
deposizioni e dagli accertamenti generici ma anche dal comportamento tenuto
dalla stessa immediatamente dopo il fatto e dalla sua condotta processuale.
Infatti ‘essersi ella preoccupata di occultare le tracce di sangue rimaste sul
manganello e di nascondere quell’arnese gettandolo nel lavatoio del
cortile, e l’essersi ella data alla
latitanza - sia pure per una sola giornata – sono circostanze tutte che
dimostrano la sua convinzione che fosse opportuno alterare la prova
dell’accaduto e sottrarsi alle prime indagini, convinzione che avere agito
legittimamente per la necessità di difendersi’.
D’altra parte è
evidente che la tesi della legittima difesa se fosse rispondente al vero
avrebbe trovato sostegno un racconto del fatto sempre conforme; e ciò perché non vi sarebbe stata alcuna necessità
per l’imputata di allontanarsi dalla verità nell’esporre l’accaduto ove lo
svolgimento di questo consentisse effettivamente l’applicazione della invocata
esimente. Invece la Fiorillo ha continuamente mutato versione; (dapprima
innanzi ai carabinieri ha accennato ad una colluttazione avuto con il marito
durante la quale questi riportò lo strappo della giacca ed entrambi si presero
per i capelli ed a cui seguirono i colpi di manganello da lei tirati senza
intenzione, poi in gli istruttoria ha
precisato che si trattò di una lunga colluttazione tanto è vero che entrambi
andarono a finire in ogni punto della stanza provocando la caduta della
macchina da cucire, e infine in dibattimento ha fatto comprendere che la lotta
fu brevissima giacché essa ben presto fece cadere la pistola di mano al marito
e che i colpi furono da lei tirati senza interruzione), segno che essa nel
ricostruire il fatto è ricorsa a menzogne sapendo le vere modalità
dell’episodio smentiscono la tesi da lei adottata. Deve pertanto concludersi – sottolinearono i
giudici - che la Fiorillo quando tirò al
marito i colpi di mazza mortali aveva già avuto ragione del predetto e che
pertanto essa fu tratta all’omicidio – non già per necessità di difendersi da
un pericolo in atto - bensì solo per vendicarsi delle offese e delle angherie
in precedenza subite e culminate quel pomeriggio nella minaccia con la pistola.
La mite
condanna ad anni 8 di reclusione con le
attenuanti della provocazione e del particolare valore morale e sociale.
Il pubblico ministero al
termine della sua requisitoria, chiedeva la condanna della Fiorillo, con
l’attenuante della provocazione, ad anni
16 di reclusione mentre i difensori chiedevano che l’imputata fosse dichiarata
‘non punibile’ per aver agito in stato di legittima difesa reale o putativa e
in subordine che fosse riconosciuto l’eccesso colposo di legittima difesa e
fossero concesse le attenuanti generiche, della provocazione e del motivo
‘particolare’ del valore morale e sociale.
Il verdetto finale fu che la
Fiorillo agì indubbiamente in stato d’ira determinato in lei dalla ingiusta
minaccia a mano armata fattale dal marito e pertanto le andava riconosciuta
l’attenuante della provocazione. La Corte ritenne di concedere anche le altre
attenuante chieste dalla difesa, quelle del motivo di ‘particolare valore
morale e sociale’ e quelle ‘generiche’. La prima presuppone – come è noto – che
il reato nell’intenzione dell’agente sia diretto ad eliminare una situazione di
fatto, morale ed antisociale, determinata
dall’offeso del reato e non sembra contestabile che essa ricorre nella specie
essendo stato il delitto originato non solo dallo stato d’ira insorto nella
donna a seguito dell’ultimo episodio di minaccia, ma anche dall’intento della
stessa di reagire una volta e per sempre alla condotta davvero contraria
all’ordine ed alla morale familiare che il coniuge aveva tenuto per anni,
privando anche del necessario i mezzi di sostentamento ad essa e ai figli
destinando i suoi guadagni quasi esclusivamente alle ‘tresche’ che intrecciava
senza posa con donne di ‘malaffare’, ostentando addirittura dinanzi ai figli le
fotografie delle sue amanti.
Tale continuo disprezzo da
parte del Tridente dei più elementari doveri di marito e di padre di ogni
principio morale fece nascere nell’animo della donna, che era di onesti
costumi, la più viva avversione, il desiderio di reagire al fine di affermare
quei valori violati, desiderio che sempre contenuto onde evitare dannose
conseguenze sulla vita e l’avvenire dei figli,
esplose infine quando si aggiunse l’ultima grave minaccia.
Pertanto la pena di anni 24 di reclusione deve
ridursi ad anni 16 per la provocazione, ad anni 10 e mesi 8 per l’attenuante
del motivo di particolare valore morale e sociale e ad anni 8 per la attenuanti
generiche. La condanna fu confermata anche in appello e cassazione. Gli
avvocati impegnati nei processi furono: Ciro
Maffuccini, Antonio Schettino e Giacinto
Mazzuca. Il Collegio della corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere era
composto dal Presidente, Eduardo Cilento,
con il giudice a latere Guido Tavassi
e con il pubblico ministero, Nicola
Damiani.
(1) Diecimila lire nel 1957 oggi varrebbero 147 euro. In pratica con diecimila lire di allora mi potrei comprare un videogioco, pizza e birra. Dieci anni dopo sempre le miei diecimila lire varrebbero oggi un quarto (24 euro). Nove anni dopo arriva l’euro è si devono rifare tutti i calcoli. Ma il trend del nostro potere di acquisto è già evidente. A causa dell’ Inflazione il denaro, nel tempo, perde il suo potere di acquisto. Ne consegue che, con la stessa quantità di denaro, si può acquistare una minore quantità di beni e servizi. L’ISTAT, ogni mese effettua il rilievo della perdita del potere d’acquisto del denaro comunicando il tasso d’inflazione ed il relativo Numero Indice dei prezzi al consumo FOI (famiglie operai ed impiegati) da applicare per effettuare il ricalcolo (in aumento) delle somme in danaro collegate a determinate tipologie di rapporti.
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