ABOLIZIONE DEL DELITTO D'ONORE
1954: IL DELITTO D’ONORE DI ALFONSO LA GALA ERA UN MARESCIALLO DELLA
POLIZIA STRADALE CHE UCCISE LA
MOGLIE – FU CONDANNATO A MITE PENA - PADRE DI 10 FIGLI ACCOLTELLA L'AMANTE E
POI SI FA MACIULLARE DA UN TRENO
Accadde a
Santa Maria Capua Vetere il 24
agosto del 1962
Santa Maria Capua Vetere ( di Ferdinando Terlizzi ) - La donna era
in fin di vita, ma l'uomo, di 55
anni, credeva di averla uccisa. Un dramma della gelosia è avvenuto stasera a
Santa Maria Capua Vetere, nel popoloso rione di S. Erasmo in via Morelli 73. La
quarantenne Maria Cillari, bella e
prosperosa vedova allegra, che gestisce una rivendita di generi di monopolio, è
stata accoltellata dall’amante, il
macellaio Vincenzo Ragucci di
55 anni, ammogliato e padre di dieci figli.
L'uomo, dopo una animata discussione estraeva di tasca
un acuminato coltello (una molletta, coltello che apre la lama con un bottone a
scatto, quella che usavano i guappi di una volta con una lama che, solo a vederla, fa rabbrividire ) e si avventava sulla donna ferendola più
volte. Quindi si dava alla fuga, facendo perdere le proprie tracce. La donna soccorsa da alcuni passanti è stata trasportata in ospedale “Melorio”,
ove è ricoverata in fin di vita.
Più tardi, il culmine della tragedia. Il macellaio è stato rinvenuto cadavere sulla
linea ferroviaria Santa Maria Capua Vetere-Napoli. Forse egli, credendo di aver
uccisa la donna, si è tolta la vita lasciandosi investire da un treno.
Intanto non si era ancora spenta la eco di
un altro cruento delitto ( qualificato però delitto d’onore) nel corso del
quale un agente della polizia stradale Alfonso
La Gala residente a S. Maria C.V. aveva ucciso – addirittura - con un tubo di ferro, la moglie Anna
Mauriello, abitante nella zona di S. Pietro, e figlia di una famiglia che si occupava da
sempre della vendita e la macellazione della carne equina, che le aveva confessato di avere un amante.
Era l’epoca del delitto d’onore: poi
soppresso dal nostro codice penale. Noti furono i casi di Filippo Cifariello a quello di Maria Di Stasio: fino
al 1981 in Italia riconosciute le attenuanti al
“delitto d´onore”. Ingiurie,
vendette e tradimenti quando l´offesa si lavava col sangue: L´articolo 587 del
codice penale riconosceva l´offesa all´onore e finivano sempre con grandi
applausi quei processi in Corte di Assise. In aula si scatenava il putiferio, i
parenti e gli amici stavano lì in adorazione dell´imputato. Era un esempio per
tutti, un vero uomo. Famoso il caso del portalettere Salvatore e con Maria abitava a
Misilmeri, tra i giardini della Conca d´Oro.
Un giorno di sei anni prima disse a sua
moglie che il direttore delle Poste l´aveva convocato a Palermo: tornò a casa e
trovò Maria con il cognato Giovanni. Erano nella stanza da letto, lui nudo e
lei in vestaglia. Tirò fuori il revolver e li uccise. In primo grado lo
condannarono a 13 anni, in appello a 6 «per aver difeso l´onore suo».
Per corna o per qualunque altra offesa a
quella che in ogni sua sfumatura era considerata dignità, si sono versati fiumi
di sangue e fiumi di inchiostro nelle alcove e nei palazzi di giustizia sparsi
per il nostro Sud.
Mogli infedeli sgozzate, figlie disonorate
e vendicate in pubblica piazza, sorelle e madri punite per avere macchiato la
rispettabilità della famiglia. Una giustizia tribale che non ha mai conosciuto
distinzione di ceto, l´assassino era sempre giustificato: “Lo doveva fare”.
Erano i forzati dell´onore.
Come lo scultore Filippo
Cifariello, che aveva sposato la bellissima diciottenne Maria de Brown e la
sorprese con l´amante alla pensione “Mascotte” di Posillipo. Sparò un solo
colpo. Ebbe clemenza dalla corte, fu assolto per avere vendicato lo sfregio.
Era il 1905.
O come Luigi Millefiorini, che
fece fuori la moglie Giovanna a Roma, in via Appia. La donna aveva una
relazione con un certo Leone. In primo grado Leone giurò di non avere mai
sfiorato con un dito Giovanna e Luigi fu condannato a 3 anni e 6 mesi di
reclusione, in appello l´uomo confessò di essere l´amante e la condanna per
Luigi scese a 7 mesi. Fu scarcerato con il solito battimani. Era il 1954.
O come il maresciallo di
polizia Alfonso La Gala, che colpì la moglie Anna con un tubo di ferro nella
loro casa di Santa Maria Capua Vetere. Lei aveva confessato di amare un altro.
La condanna fu di 2 anni di reclusione e la non menzione sul certificato
penale. Era il 1978.
L´articolo del codice era
sempre quello, il numero 587 che così recitava: “Chiunque cagiona la morte del
coniuge, della figlia o della sorella, nell´atto in cui ne scopre la
illegittima relazione carnale e nello stato d´ira determinato dall´offesa
recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da 3 a 7 anni”.
Qualcuno cercò di abolirlo già nel 1968. Il primo fu il ministro della
Giustizia Oronzo Reale, poi Giuliano Vassalli. Ma le loro proposte si arenarono
in Parlamento. Solo dopo il referendum sul divorzio e quello sull´aborto
l´odioso articolo fu cancellato. La legge è la numero 442 del 5 agosto 1981.
Fino ad allora restarono impuniti quei
forzati dell´onore. Vergogna raccontata anche da Pietro Germi nel suo famosissimo
“Divorzio all´italiana”. Il film è del ‘61. Il protagonista, un barone
siciliano - Marcello Mastroianni - stanco della petulante moglie e invaghito di
una cugina sedicenne, indusse la consorte al tradimento per poi ucciderla.
Condannato a una pena minima per “delitto d´onore”, il barone finalmente sposò
la cugina.
In quell´Italia è accaduto di tutto in nome
dell´onore. Febbraio 1967, in un albergo di Bagnoli Maria Di Stasio evira con
una lama il giovane amante e getta dalla finestra l´oggetto della sua
rappresaglia. Ottobre 1979, il carrettiere di Trapani Vito Cardella uccide il
possidente Giovanni Castiglione perché quasi mezzo secolo prima - nel 1937 -
gli aveva detto: “Ti ho fatto cornuto”.
Marzo 1980, il segretario regionale del
Psi campano viene ucciso da un uomo che ai carabinieri racconta: “Era giusto
così, andava con mia moglie”. Eserciti di avvocati si sono arrampicati anche
sui muri per sostenere le ragioni di quegli assassini. Come Giuseppe
Casalinuovo, principe del foro di Reggio Calabria, che difese con successo un
certo Annibale Mazzone con una sbalorditiva arringa: “E´ il disonore che ci
devasta, che ci rende folli. In noi c´è il fuoco dei nostri vulcani... se sei
tradito uccidi, te lo gridano i tuoi avi da millenni, te lo gridano i tuoi
morti da tutte le fosse. Uccidi, se no sei disonorato due volte”.
IL BRANO E' TRATTO DAL LIBRO "100 ANNI DI CASI GIUDIZIARI: CASERTA UNA LUNGA SCIA DI SANGUE" di Ferdinando Terlizzi ( in allestimento )
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