La prima seduta del processo, inizia il 24 febbraio 1864
La realtà è tuttavia macabra
oltre l'immaginabile. Sul balcone di una casetta di campagna, si vede la testa
di Francesco De Cesare con una pipa in bocca; sugli alberi vicini, là una
gamba, là un braccio, là altre membra informi. Dovunque biglietti, sotto brani
di carne umana "Così si fa alle spie, Questo spetta ai traditori e simili".
Per terra traccia di fuoco appena spento ed ossa umane spolpate; a turno i
briganti avevano mangiato un pò di carne arrostita del De Cesare. Pasquale Papa
avrebbe voluto che anche prete Ruotolo ne mangiasse un poco. Fu indi risaputo
che un vecchio brigante soprannominato La Vecchierella, il meno coraggioso di
tutti, aveva reciso i genitali del De Cesare, se li era sospesi al petto e se
ne era andato in giro così per due giorni.
La sentenza emessa
il 13 marzo 1864, condannò D'Avanzo a venti anni di reclusione, Domenico Papa
ai lavori forzati, Cipriano e Giona La Gala alla pena di morte.
La montagna del Taburno,
solenne ed austera per il colore bianco-grigio della pietra calcarea, al tempo
di Carlo III di Borbone, era diventata nelle ampie spianate tra i 1000 e 1100
metri altimetrici, deposito estivo dei cavalli stalloni dell'esercito. All'improvviso,
tra la fine del 1860 e l'inizio del 1861 se ne scopre l'importanza strategica,
compresa com'è nella catena degli Appennini, per i cui i valichi i briganti
possono scorrazzare attraverso la Campania, le Puglie e la Basilicata, nel
tentativo di riconquistare Napoli ed impedire all'esercito piemontese le
comunicazioni tra il Tirreno e l'Adriatico. La fitta abetaia e il terreno
accidentato, ben si prestano alla guerriglia. Cipriano La Gala, qui fissa il
suo quartiere generale, di qui manovra ben trecento uomini organizzandoli in
commandi di non più di dieci persone, in continue sortite contro i territori di
Cancello, Nola, Caserta, Limatola, Durazzano, Arpaia, Sant'Agata dei Goti,
Cervinara. Obiettivo di Cipriano è la restaurazione di Francesco II sul trono
di Napoli; arruola gli uomini pagandoli con il danaro che il comitato centrale
borbonico gli invia tramite messi fidati; quando però le sovvenzioni non
arrivano più, è costretto a provvedere da sè. Ricorre al sistema delle
grassazioni e il 23 maggio 1861 estorce denaro in Avella (Av) a Michele Abate,
Francesco Biancardi, Aniello d'Avanzo e Martino de Lucia.
Nello stesso giorno,
sempre in Avella, sequestra un bambino di undici anni Vincenzo d'Avanzo; chiede
e ottiene dal padre un riscatto in ragione di L.204, provviste di pasta, sale e
tabacco. Il fanciullo si mostra docile; in pochi giorni di prigionia conquista
la fiducia dei carcerieri, quindi col pretesto di raccogliere per loro fragole
nel bosco, se la dà a gambe. Al processo testimonierà a favore di Cipriano,
illustrando la buona indole del brigante, ma il La Gala negherà di averlo mai
visto. Un mese dopo, sull'imbrunire assalta 1'Ufficio del Ricevitore della
Ferrovia di Cancello, portando via dalla cassa 314 lire e 50 centesimi. Indi
procede ad una spedizione punitiva: l'uccisione del caffettiere Ferrara che ha
fatto la spia contro di lui. Il brigante Antonio Pipolo lo fa legare ed incita
gli altri a sparargli addosso. Dopo qualche esitazione, quattro colpi partono.
Il Ferrara rotola su se stesso, mentre riceve il colpo di grazia all'orecchio.
Il 27 luglio l'assalto alla corriera sulla strada di Cimitile (Na), si conclude
con un tragico bilancio: muoiono Bartolo Cuminellie Pietro Brocchieri
carabinieri di scorta; è ferito il postiglione, derubato il passeggero genovese
Preve. Uno dei luogotenenti più fidi, Crescenzo Gravina, il 31 di agosto, in
circostanze non chiare, uccide il bersagliere Federico Pellegrino di Pisa. Allo
stesso periodo, risale il saccheggio subito dai fratelli Giovanni e Michele
Mascolo di Sasso di Roccarainola (Na). Dopo aver subito furto di granaglie ed
oggetti vari, Orsola Piscitelli, moglie di Michele, è portata via in montagna
per fini turpi e rilasciata solo a seguito delle pressanti richieste di persone
dabbene che intercedono per lei. Il Mascolo accusato di meditare la vendetta e
di essere disposto a denunziare 14 briganti alle autorità, preso con la forza,
è chiamato a discolparsi dinanzi al tribunale dei briganti. Come in un regolare
processo, si odono i testimoni a discarico, i testi di accusa, la requisitoria
del Pubblico Ministero Piscitelli, cognato dell'accusato. Le imputazioni sono
talmente inverosimili che lo stesso Cipriano conviene trattarsi di
testimonianze calunniose non rispondenti al vero; i giurati dopo aver votato
l'assoluzione più completa, si associano al Presidente nella deplorazione dei
rancori personali del Pescitelli verso il congiunto e decidono di indennizzare
il Mascolo per i danni subiti, anche e soprattutto in riconoscimento delle
munizioni e vettovaglie da lui fornite alla Comitiva. La banda, forte di 85
uomini, il 2 settembre si dirige al villaggio di Paolini di Sant'Agata dei
Goti, verso la casa dei fratelli sacerdoti don Giacomo e don Pasquale Viscusi.
La nipote Domenica cerca di opporsi alla cattura degli zii, chiede pietà per il
vecchio don Giacomo, ma Cipriano infastidito dalle sollecitazioni, fa per
trafiggerla con lo stile. Nel trambusto generale, il vecchio prete, sentite le
grida della nipote, preferisce consegnarsi ai briganti, dicendosi disposto a
pagare il riscatto. Le prime richieste sono avanzate in ragione di 12.000
ducati. Impossibile pagare una somma simile; i contraenti si accordano per
6.000 ducati; i due fratelli sono portati in montagna e dopo una settimana,
Pasquale è rimandato a casa per sollecitare il pagamento dell'intera somma.
Frattanto un altro prete: Messandro Ruotolo di 30 anni sequestrato in contrada
Acquavitara sulla strada tra Arpaia e Arienzo, viene a fare compagnia al
Viscusi. Vorrebbe confortarlo, parlare con lui, ma ne è dissuaso dal brigante
Antonio Sperone. Giona impaziente, non vuole aspettare oltre, tronca un
orecchio al Viscusi; Ruotolo testimone oculare, vede Pasquale Papa, fratello di
Domenico addentare l'orecchio e con i filacci di carne tra i denti, lo sente
esclamare "capperi che bel sapore hanno gli orecchi dei preti!" Giona
infastidito, glielo toglie di bocca; non è il caso di mangiarlo, lo si deve
spedire alla famiglia per averne quattrini. Ci si domanderà perchè tanta
ferocia verso un sacerdote. Gli è che i briganti detestavano i preti, le cui
competenze si estendevano per legge fino a stilare il certificato di buona
condotta dei parrocchiani.
Essi erano tenuti ad individuare quanti si
allontanasse di casa per imprese di brigantaggio politico e a trasmettere le
loro relazioni al Sindaco, al Comandante dei Carabinieri, al Comandante della
Guardia Nazionale, al Delegato di Polizia. In particolare il giovane Domenico
Papa da Santa Maria a Vico, era stato costretto a farsi brigante a causa del
sacerdote Giuseppe Mazzone che aveva avuto la poca accortezza di parlare male
di lui e del fratello Pasquale con le donne più pettegole del paese: Carmela
Nuzzo e Giuseppa Campagnuolo. Aveva loro confidato che quei ladri dei figli di
Tep-Tep avevano avuto quello che si meritavano ed erano stati arrestati nella
cupa di Pizzoli. Le donne menarono un gran chiasso per il villaggio e forse
riflettendo che il parroco aveva l'abitudine di anticipare un po' gli eventi,
avevano voluto fare un sopralluogo di persona in casa dei Papa, dove trovarono
i presunti arrestati, pacificamente raccolti in seno alla famiglia. I giovani
montarono in gran collera e senza interporre indugi si recarono a casa di Don
Giuseppe, gli fracassarono vetri ed imposte con grosse pietre, aspettando che si
affacciasse per farlo fuori. Malauguratamente, Vincenzo, fratello del prete,
ritornava dai campi dopo aver falciato l'erba e per un qui pro quo, fu ucciso
da Domenico Papa. Di qui la necessità di sottrarsi alla giustizia e farsi
davvero brigante. Domenico Papa aveva più volte maledetto il suo triste destino
con i nuovi compagni. Ecco perchè la permanenza di don Giacomo Viscusi sul
Taburno non si presentava esente da rappresaglie, nonostante il denaro del
riscatto arrivasse un po' per volta. Vero è che D'Avanzo gli rilasciava
ricevute di questo genere come la seguente "Noi Giona e Cipriano La Gala
dichiariamo aver ricevuto la somma di ducati 1700 dai catturati Pasquale e
Giacomo Viscusi e la ragione per cui abbiamo richiesto questo denaro, è di
mantenere la truppa a difesa di Francesco II, e che quando Questi sarà
ritornato a Napoli, i detti Viscusi riavranno il loro denaro". Don Giacomo
è venuto in uggia ai sequestratori. Basta che Nicola Jannotta detto Rafaniello
si lasci sfuggire l'esclamazione - Questo infame carbonaro è ancora vivo -,
perchè la violenza esploda senza remore. Gionata si slancia contro il prete,
imitato dagli altri. Obbligano il contadino Carmine Atarella a dare in prestito
la zappa per scavare un fosso ed in questo ancora vivo, gettano il sacerdote.
Quando il maggiore delle Guardie Nazionali Pasquale D'Ambrosio da Arienzo,
riesce a seguito di una perlustrazione, ad individuare la tomba dell'ucciso,
con raccapriccio si avvede che ha le braccia rivolte in su con le palme aperte,
quasi a voler sostenere il peso dei grossi sassi. Nota che un macigno di circa
un cantaio e mezzo gli grava sul petto e sulla testa. Al collo le varie
ecchimosi e un fazzoletto ben stretto denotano il tentativo di strangolamento.
Ormai non rimane che lavare il cadavere, rivestirlo e dargli cristiana
sepoltura. Lo sgomento per l'odioso crimine, non ancora si è smorzato tra le
genti del Circondano, quando si diffonde notizia più agghiacciante. Il
tribunale La Gala ha eseguito sentenza contro una spia sul Taburno, il 4 settembre
contro Francesco De Cesare di Laiano, frazione di Sant'Agata dei Goti. Era De
Cesare una vecchia conoscenza di Cipriano e Giona, compagno di prigionia nei
bagni penali di Castellammare, presso cui i La Gala scontavano la pena a 20
anni di carcere per furto aggravato, a seguito della condanna loro inferta
dalla Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro il 24 aprile 1855. Durante una
rissa, erano volati affronti pesanti e parole grosse tra i tre. Nel 1860 dopo
l'evasione da Castellammare, De Cesare non aveva voluto aggregarsi ai fratelli,
limitandosi in apparenza a fare il loro manutengolo, in realtà collaborava con
la truppa per segnalare i loro movimenti e non aveva mancato di contribuire
all'arresto di 17 briganti. I La Gaia a mezzo del portaordini Cosmo Matera,
mandano a chiamare De Cesare; si porti subito al Taburno. Invano Cosmo
sconsiglia De Cesare dal farlo; per non spaventare la moglie Antonia, il
manutengolo dice che starà un po' fuori per affari. Arrivato a destinazione,
riceve accoglienze cordiali da Giona che lo porta da Cipriano; questi sul
momento lo abbraccia, poi a bruciapelo gli dice: "Francesco tu devi
morire; Giona scannalo". De Cesare per quanto legato ad un albero, non si
rende conto della prossima esecuzione e pensa ad uno scherzo. Trafitto da
innumerevoli pugnalate, ha però la forza di imprecare contro i vigliacchi
traditori, gente da lui trattata altre volte a calci e schiaffi. Cipriano alla
fine, scarica sul corpo martoriato il suo fucile a doppia canna. Molte cose
orrende sono successe, così viene a sapere il maggiore D'Ambrosio; preparato al
peggio, il giorno dopo sale sul Taburno diretto a contrada Pozzillo, con il
capitano dei 18° battaglione bersaglieri.
La realtà è tuttavia macabra oltre
l'immaginabile. Sul balcone di una casetta di campagna, si vede la testa di
Francesco De Cesare con una pipa in bocca; sugli alberi vicini, là una gamba,
là un braccio, là altre membra informi. Dovunque biglietti, sotto brani di
carne umana "Così si fa alle spie, Questo spetta ai traditori e simili
". Per terra traccia di fuoco appena spento ed ossa umane spolpate; a
turno i briganti avevano mangiato un pò di carne arrostita del De Cesare.
Pasquale Papa avrebbe voluto che anche prete Ruotolo ne mangiasse un poco. Fu
indi risaputo che un vecchio brigante soprannominato La Vecchierella, il meno
coraggioso di tutti, aveva reciso i genitali del De Cesare, se li era sospesi
al petto e se ne era andato in giro così per due giorni. Le imprese della banda
suscitano lo sdegno del Maggiore Comandante Pinelli e del Maggiore Franzini che
mobilitano la Guardia Nazionale di Cervinara in uno stato di allarme
permanente, impegnandolo nel duplice incarico di difendere i contadini occupati
nel raccolto delle castagne e di osservare gli spostamenti dei La Gala. Siamo
al 29 ottobre. Il Luogotenente Luigi Savoia con 19 militi svolgeva opera di
vigilanza, allorché Nunzio Clemente contadino impegnato nei lavori dei campi,
un'ora dopo mezzodì, ode uno squillo di tromba. Il suono non gli pare quello
militare, lo sente poco rassicurante. Cautamente avanza per vederci chiaro e si
imbatte in 8 briganti armati. Di corsa, va a riferire la cosa al luogotenente,
ma questi con belle maniere lo esorta a stare calmo; devono essere altre
Guardie Nazionali spedite di rincalzo da Cervinara dagli ufficiali superiori,
preoccupati di lasciare con piccolo drappello lui, in una località lontana
dall'abitato, in una evenienza di attacco. Ha appena terminato di dire così,
allorché una scarica di fucileria uccide lui, i militi Antonio Clemente, Agostino
Lallo, Serafino Pisanelli,Luigi Saldi, Giovanbattista Teti. Un grido di gioia
sopravanza le schioppettate; è Giona che urla "Avanti Cipriano, che
abbiamo ucciso il Capitano". Tutt'intorno spuntano numerosi i briganti;
militi e contadini fuggono terrorizzati. Due Guardie Nazionali, tra cui
Giovanni Genovese, sono fatte prigioniere. Per un po' i briganti non fanno
parlare di sè. Il 18 novembre Caporal Giona, riprende a fare opera di
grassazione. Questa volta ai Paolini di Sant'Agata dei Goti, ai danni
dell'agiato proprietario Angelo Soriano; gli sequestra la moglie settantenne
Maddalena Russo che rilascia dopo 15 giorni, non senza aver prima intascato il
riscatto di 3.000 ducati, pari a L.12.750. I banditi non si fanno scrupolo di
derubare i salariati Giuseppe Esposito e Vincenzo Panno, di violentare tre
giovani braccianti agricole: le sorelle Lucia e Maddalena De Lucia, Orsola
Nuzzo. Cipriano La Gala si indigna per la feroce aggressione, prendendo le
distanze da Giona, in quanto come notorio, egli non attenta alle virtù delle
fanciulle, nè consente che si offenda l'onore delle famiglie. Ormai la
deplorazione non tocca la sensibilità di Giona, che anzi durante il saccheggio
del 27 novembre in casa di Equizia e Giuseppe Abate in Cervinara per un valore
di 198 lire, fa prigioniero Giuseppe. Lo porta in montagna e gli recide
entrambe le orecchie, che poi spedisce alla moglie Chiara Maria Raucci per un
riscatto di L. 2,295. Dispone in ginocchio Carmine Clemente, Carmine Iuliano e
taglia loro l'orecchio destro. Il contadinello Giovanni Abate di S. Martino
Valle Caudina, si inginocchia senza subire imposizione, pronto alla
mutilazione. Per il suo gesto piace a Giona che non gli fa del male e lo
rimanda a casa, dopo aver ricevuto dalla famiglia 10 cantaia di pane, 6 di
maccheroni e 10 prosciutti. Cipriano anzi, gli regala una piastra che Abate non
vuole tenere per sè e dà ad un brigante che gli aveva mostrato compassione. Non
egualmente fortunato era stato Giuseppe Abate di 47 anni, alto e robusto nella
persona; nonostante avesse pagato complessivamente 600 ducati e speso altri 200
in vettovaglie e regali, aveva ricevuto crudele mutilazione di entrambe le
orecchie. La banda, alla fine di dicembre '61, ha ormai i giorni contati,
braccata da ogni parte, da Benevento, Caserta e Napoli; si scinde in piccoli
groppuscoli per eludere la vigilanza dell'esercito e guadagnare il confine
pontificio. Sulla sera del 6 gennaio 1862, si dà per certo che Cipriano si
aggira nel territorio dei Mazzoni di Capua, usando come ricovero durante la
notte, una casa di Casal di Principe (Ce). I carabinieri di Capua ricevono
l'ordine di recarsi sul posto ed accerchiare la casa. Il sergente Luigi Monti e
il maresciallo Giacomo Gedda lungo il percorso, intimano l'alt a vari uomini a
cavallo. Non si ottempera al comando. Gli uomini si danno alla fuga, meno uno
che viene riconosciuto nella persona di Angelo Menniello manutengolo e preso
come guida, obbligato a dare le indicazioni necessarie per arrivare al rifugio.
Nella casina, tutti dormono meno Cipriano che sveglia i suoi ed insieme con
Giona e Domenico Papa, si apre un varco tra i militi sparando su di loro ed
uccidendo il maresciallo Gedda. Nella sua sortita, è favorito dall'oscurità e
dalla pioggia battente; Non fanno a tempo a porsi in salvo Aniello Mercogliano,
un ex sequestrato obbligato ad aggregarsi nella banda, in cui è rimasto sei
mesi e due guardiani di bufali che hanno concesso l'ospitalità. Arrestati i
tre, si procede all'inseguimento e il contadino Carlo Guerra proprietario della
masseria Bonito, ammette di aver dato aiuto a tre uomini, di cui uno ferito
gravemente alla mano. Nell'impossibilità di fornire bende, ha stracciato una
camicia e dato un asino al ferito. Antonio Federico, Ferdinando Santoro,
Francesco Gravante, Marcello Petrella e i sacerdoti Vincenzo e Giovanni
Caianiello, hanno riconosciuto nel ferito Cipriano La Gaia. I tre raggiungono
come si proponevano il confine e si mettono al sicuro. Una fitta rete di omertà
li protegge, finchè amici potenti procurano ai La Gala, a D'Avanzo e Papa un
passaporto con tanto di visto dell'ambasciata di Francia per Marsiglia e della
legazione di Spagna per Barcellona. Partiti da Civitavecchia sul piroscafo
Aunis delle messaggerie imperiali diretti a Marsiglia, fanno scalo a Genova il
10 luglio 1863. Durante l'assenza del capitano, sceso a terra per vidimare le
carte di bordo all'Ufficio di Sanità del porto, salgono sul vapore un
commissario di polizia italiana, agenti e carabinieri ed arrestano i quattro,
in aperta violazione della Convenzione consolare italo-francese. In particolare
gli articoli 12 e 13 così recitavano: "Art. 12 - E convenuto che: i
funzionari dell'ordine giudiziario e gli ufficiali ed agenti della dogana non
potranno in alcun caso, operare nè visite, nè ricerche a bordo dei legni, senza
essere accompagnati dal console o viceconsole della nazione cui quei legni si
appartengono.
Art. 13 -
Le autorità locali
potranno intervenire solo quando i disordini sopravvenuti a bordo dei legni
fossero di natura da turbare la tranquillità e l'ordine pubblico a terra o nel
porto, o quando una persona del paese, non facente parte dell'equipaggio vi si
troverà compromessa.
Il console generale di
Francia, informato con molto ritardo dell'incidente diplomatico dal Prefetto di
Genova, che pure non aveva alcun diritto a fare arrestare passeggeri in
transito, si trova dinanzi al fatto compiuto e li abbandona alla giustizia
italiana. Sarà incolpato di eccesso di potere dal ministro francese degli
affari esteri, in quanto ottemperando ad una richiesta politica, si era
sostituito alla legazione dell'Imperatore in Italia. I La Gala, D'Avanzo e Papa
sotto nutrita scorta, vengono condotti al carcere di S. Maria Capua Vetere in
attesa di giudizio. La prima seduta del processo, inizia il 24 febbraio 1864 dinanzi
alla I Corte d'Assise del Circolo. Componenti: il Presidente On. Filippo Capone
deputato al Parlamento Nazionale. Consiglieri: Cav. Mariano Englen e Sig.
Vincenzo Napoletano. Supplente Giudice il Sig. Giovanni Ricciardi. Cancelliere
il Sig. Domenico De Lorenzo. Procuratore Generale il Sig. Pasquale Giliberti.
Assumono le difese per Cipriano La Gala l'Avv. Ottavio Cecaro, per Giona l'Avv.
Domenico Tammaro, per Giovanni D'Avanzo l'Avv. Giovanni Paolillo, per Domenico
Papa l'Avv. Luigi Garofalo. Così numeroso è il pubblico dei giornalisti e
curiosi, che l'aula non li contiene tutti; si rende pertanto indispensabile il
trasferimento in una sala più ampia del Quartiere Militare. Tra la folla, molte
belle signore puntano i loro occhialini sulla corte e sugli imputati. Eccetto
Giona, giallognolo nel colorito e bieco nello sguardo, gli altri hanno un
aspetto distinto. Cipriano ora sui trent'anni, ha la dignità di un facoltoso
commerciante, D'Avanzo sui trentacinque anni, nei tratti severi del volto
ricorda vagamente uno sbirro, Papa sui ventuno anni è un bel giovane. Giona
conta ventotto anni. La difesa facilmente ottiene che non siano sentiti come
testimoni di accusa Lotti e Campagnuolo, un tempo facenti parte della banda.
Gli avvocati vanamente chiedono che l'atto diplomatico d'estradizione sia
acquisito agli atti e per ovvie ragioni; si capisce subito che il processo
salterebbe in quanto gli imputati sono stati irregolarmente arrestati. Mentre
Giona nega ogni attività delittuosa, D'Avanzo ci tiene a precisare che i suoi
guai con la giustizia derivano dal servizio da lui reso quale Comandante della
gendarmeria ausiliaria di Cervaro. Qui nel 1849 aveva l'incarico di sorvegliare
gli attendibili politici che lo sopportavano di malanimo. Venuta l'ora della
rivalsa, l'11 novembre 1860 convinsero le Autorità ad operare una visita al suo
domicilio. Gli furono sequestrate lettere del Vial, del Peccheneda, del Mazza e
da carceriere si trovò carcerato. Liberato nel giugno '61, invano rivolse una
supplica al signor Pizzi e al Farmi per ottenere la reintegrazione sul posto
occupato. Al fine di sottrarsi a molte persecuzioni, preferì dal 1° luglio '61
espatriare e rifugiarsi nello Stato Pontificio. Domenico Papa ricorda le tristi
circostanze in cui fu costretto a darsi al brigantaggio, a causa di prete
Mazzone che rovinò la sua reputazione di onesto operaio, calunniandolo come
ladro. Cipriano invece non nega gli addebiti, ribadisce di aver agito per
motivi politici. Intorno a lui si è creata la leggenda di capo spietato e crudele;
gli si attribuiscono più colpe di quante egli non se ne riconosca. Chiede
perciò di mettere a verbale che molti capibanda scorrazzavano sul Taburno nel
1861; il presidente acconsente. "Voglio però dare documento alla giustizia
del come i carichi a me apposti debbono forse con più ragione farsi gravare
sugli altri numerosi Capibanda che nel tempo della mia latitanza tenevano
questi luoghi, e coi quali sempre che mi occorse incontrarmi non mancai di
dolermi con loro delle tante grida che dappertutto si levavano per gli atti
obbrobriosi ai quali si lasciavano andare, e di esortarli a impedire ogni
eccesso. Ho fatto scrivere una lista di tutti i nomi de' Capibanda mentovati, e
che all'uopo consegno nelle mani della giustizia rimettendola a voi. D. Chi ha
scritto la lista che ora mi presentate?
R.Questa l'ho dettata e fatta
scrivere sotto i miei occhi dall'attuale compagno di prigione Giovanni
d'Avanzo, come potete anche da lui sapere. Nomino per mio difensore l'Avv.D.
Ottavio Cecaro. Segna la croce (non sa leggere nè scrivere). Notamento de'
Capibanda e degli altri che domiciliavano ne Monti di Cervinara: 1) Domenico
Bello di Cervinara. - 2) Pasquale Martone, id. - 3) Antonio Caruso di Avella. -
4) Domenico il Calabrese. - 5) Antonio Zappatore. - 6) Antonio Pungolo.
Capibanda che esistevano tra' monti e contorni di Cancello. 1) Giuseppe Tiniero
di Arienzo - 2)Antonio Pipolo, Napoli o Marigliano - 3)Lisco Fabiano di
Marigliano - 4) Donato Pizza dì Cicciano-5)Felice di Marigliano- 6) Angelo
Pascarella alias Angiolillo di Messercola - 7)Luigi Esposito di Marigliano - 8)
Francesco Liberato di Camposano. Capibanda che stavano pe' monti di Taburno. 1)
I fratelli Giovanni e Tommaso Romano di Limatola - 2) Il nipote de lGenerale
Bosco a nome Giuseppe - 3) Luciano Martino di Casalduni - 4) Padresanto di
Guardia Sanframondi - 5) Cosimo di Cerreto - 6) Giuseppe Gallo di Casalduni -
7) Vincenzo aliasPelorosso di Cerreto - 8) Un Maggiore borbonico che portava
180 persone -.9) Il nipote del generale Vial, il tenente ed altri che venivano
da Benevento - 10) Michele Caruso. Capibanda de' dintorni di Nola. 1) Crescenzo
Gravina di Palma - 2) Angelo Bianco di Bajano - 3) altro a nome La Vecchia di
Monteforte - 4) Pasquale D'Avanzo di Avella - 5)Antonio Del Mastro di Avella -
6) Giuseppe Santaniello della parte di Palma - 7) Benedetto D'Avanzo di Avella
o Mugnano. Nelle udienze successive i testimoni si mostrano reticenti, non
riconoscono gli imputati, cadono in contraddizioni e il Pubblico Ministero si
lamenta di così spiccata perdita di memoria. Alcuni arrivano ad affermare, con
suo sommo dispetto, che è proprio così; hanno subito tali violente emozioni, da
esserne restati davvero scimuniti. Con involontario umorismo, i contadini
derubati richiamano all'attenzione del Presidente che le Guardie Nazionali del
Savoia, superstiti all'attacco, non si sono mostrate più eloquenti di loro.
C'era o non c'era Cipriano? I cronisti diligentemente annotano che la paura
chiude la bocca di tutti e non c’è verso di provare la effettiva presenza degli
imputati ai fatti. L'avvocato Cecaro su Cipriano ha buon gioco; con la sua
eloquenza stringente demolisce le motivazioni di accusa; là dove non si può
negare la partecipazione di Cipriano, come nell'uccisione del De Cesare,
sostiene che il suo patrocinato può essere accusato di mancanza di aiuto e di
assistenza, non di omicidio volontario e premeditato. Inoltre non può neppure
configurarsi come il mandante di imprese, giacchè non si è potuto accertare che
tutti i commandi cooperassero, spinti dalla stessa mente direttrice verso un
medesimo fine. Cipriano è da considerarsi un partigiano del Borbone e basta.
Quanto poi alle buone azioni in difesa degli umili, basta far riferimento ai
numerosi contadini che spontaneamente hanno voluto fare testimonianza, onde rendere
di pubblico dominio le restituzioni di denaro e suppellettili, nonchè il
rilascio di molte persone. Il Pubblico Ministero ammette che la difesa è stata
eloquentissima ed egli non pensa di emularne la valentia. "... Dunque
sarebbero invendicati i militi di S. Martino, i carabinieri, perchè è
impossibile sapere quale degli assassini ebbero il funesto privilegio di
ucciderli. Per Montesquieu, la legge è come una tela di ragno, i moscerini vi
restano presi, i grossi se la scappano. La legge non raggiungerebbe mai i
grandi misfattori, poichè invece di dieci si riunirebbero in 50 e quindi
sarebbe difficile sapere chi avesse ucciso o derubato nel tale o nel tal altro
caso; si commetterebbero i più grandi misfatti raggiungendo la impunità. Ed
allora... i nostri poveri codici sarebbero come quelle tele di ragno, fatte
solo per prendere i ladruncoli, qualche reo di omicidio volontario e non coloro
che si riconoscono in gran numero ed insorgono contro la società,
danneggiandola, commettendo i più orrendi misfatti". La sentenza emessa il
13 marzo 1864, condanna D'Avanzo a venti anni di reclusione, Domenico Papa ai
lavori forzati, Cipriano e Giona alla pena di morte. Ma l'Avvocato Cecaro sa di
poter tentare ancora una carta. I La Gala dietro suo consiglio, indirizzano a
Francesco II una supplica …. e attraverso gli opportuni canali diplomatici, fu
fatta opera di persuasione e la condanna a morte dei La Gala nel successivo
ricorso alla Cassazione, fu commutata nei lavori forzati a vita. Doveva finire
così; gli stessi magistrati sapevano che non avrebbero potuto ottenere di più.
Nessun commento:
Posta un commento