Il
fatto accadde ad agosto del 1961 a S. Andrea del Piazzone.
Una giovane maestrina
Consiglia
Sciaudone, sparò nella folla di un Luna Park durante la festa patronale Uccise il suo seduttore e altre due persone
e ferì gravemente una quarto che rimase paralitica.
Il fatto accadde
ad asgosto del 1961 a S. Andrea del Piazzone. La ragazza era stata sedotta,
aspettava un bambino ed il fidanzato, che era di Capua, non LE aveva detto di
essere sposato ed AVEVA un figlio –
Tratta a giudizio le fu riconosciuta l’attenuante della provocazione. Fu
condannata a 24 anni. Nel carcere di
Pozzuoli era capo cuciniera. Fu liberata dopo 15 anni. Vive nel suo paese ed ha
quasi 80 anni.
S.
Andrea del Pizzone - Una giovane
maestrina, Consiglia Sciaudone, 24 anni, bellezza selvaggia e prosperosa,
carattere fiero, educata dai severi genitori, vestita con un goffo abito da
gestante si recò al centro del paese (allora
era frazione del comune di Francolise), dove
era in corso la festa Patronale e la gente si accalcava vicino al Luna
Park era agosto del 1961. Improvvisamente echeggiarono cinque colpi in
ripetizione. Caddero sotto il fuoco della ragazza il suo seduttore ed ex
fidanzato Aldo Marras, (32
anni da Capua) il suo amico Alfredo
Petrillo, ed un anziano contadino, Salvatore
De Micco. Altre persone rimasero ferite. Aveva vendicato il suo onore.
La prime notizie, scandite dal tam tam
paesano, furono frammentarie. “Consiglia ha ucciso tre uomini che l’avevano
aggredita”; “Consiglia aspettava un bambino dal suo fidanzato che si era rifiutato di sposarla”. “C’era un patto
d’onore tra i due: se ti abbandono
uccidimi”. Una ridda di ipotesi. Il botteghino del lotto, l’indomani, fu preso d’assalto. I giornali dell’epoca
titolarono: “Una giovane donna uccide il seduttore per la strada”.
Tutto fu chiarito dal pronto intervento dei
carabinieri ai quali la sconvolta ragazza,
sommariamente, raccontò la sua
odissea d’amore. E il primo “dispaccio”, il lunedì mattina, parlò chiaro. “Ieri
una giovane donna in stato
interessante, poche ore prima di dare
alla luce la sua creatura, ha ucciso a colpi di arma da fuoco l’uomo che l’aveva
sedotta e poi abbandonata, rifiutandosi ripetutamente di sposarla”.
E intanto la storia si contornava di particolari inediti. La vittima Aldo
Marras, di trentadue anni, studente
universitario fuori corso, della Facoltà di giurisprudenza, dopo aver abbandonato la ragazza per un certo
tempo si era improvvisamente presentato nel giorno della festa al suo
paese. A Consiglia – questo fatto – era
sembrata una sfida. I due erano stati fidanzati tempo fa. Il Marras durante il
periodo della relazione rese incinta la giovane, promettendole di sposarla al
più presto.
Le cronache dell’epoca raccontano che
qualche mese dopo l’inizio della
gravidanza della Sciaudone però,
il Marras abbandonò la giovane senza alcuna giustificazione. Egli fu
esortato dal parroco del paese e da parenti suoi e della ragazza a riparare
alla colpa con il matrimonio. A nulla però valsero tutti i tentativi: il Marras
lasciò chiaramente intendere di non voler più avvicinare l’ex-fidanzata. E così
che la Sciaudone ha messo in atto la vendetta:
è uscita di casa di buon’ora e si è messa alla ricerca del suo seduttore. Lo ha
scorto nella strada centrale di S. Andrea del Pizzone, dove il Marras si
trovava nei pressi di un bar a discutere con alcuni amici. La donna senza
lasciar trapelare i suoi propositi, si è avvicinata al Marras e gli ha sparato
contro cinque colpi di pistola. Lo studente, raggiunto in parti vitali, ha
tentato di allontanarsi, ma, fatti pochi metri, e stramazzato al suolo
cadavere. I colpi sparati dalla Sciaudone non hanno raggiunto soltanto il
Marras. Infatti due persone che erano con lui sono rimaste ferite. Esse sono il
commerciante Alfredo Pratillo, di trentasei anni, e l'agricoltore Antonio De
Micco, di sessantuno, i quali sono stati ricoverati in gravi condizioni all’ospedale
civile di Capua. I due morirono a Napoli dopo qualche giorno.
Perpetrato il delitto la giovane donna si
è avviata alla stazione dei carabinieri del posto, dove si è costituita,
consegnando al sottufficiale di servizio la pistola “Beretta” con la quale
aveva soppresso pochi minuti prima il seduttore ed aveva ferito le altre tre
persone. Nel consegnare l’arma ai carabinieri, la Sciaudone ha dichiarato: “Questa
pistola mi fu regalata tempo fa dal Marras, il quale in quella occasione mi
disse: “Se non ti sposerò mi ammazzerai con quest’arma. Non mi ha voluto sposare - ha concluso la
donna - ed ho fatto come mi aveva detto”.
Nel 1965, innanzi la Corte di Assise del
Tribunale di Napoli (competente per territorio, essendo i due feriti morti poi
nell’ospedale partenopeo) comparve
Consiglia Sciaudone, e dopo tre anni trascorsi in carcere non aveva perduto il
suo temperamento esuberante caratteristico della gente dei “Mazzoni” narrò,
per tre ore, al presidente Marino Lo
Schiavo, la sua triste sorta,
culminata nei tre omicidi (di cui uno premeditato) per i quali essa
rischiava la pena dell’ergastolo.
Nel corso dell’udienza emerse che la
giovane conobbe Aldo Marras ad una fiera, in paese. In principio essa respinse
la sua corte. I suoi modi di grossolano dongiovanni di provincia la irritavano.
Ma, in sostanza, Aldo Marras (che aveva perduto il padre, sottufficiale dei
carabinieri, in azione di polizia ed i due fratelli minori morti uno in
sanatorio, l’altro in un incidente aviatorio) le apparve un ragazzo buono e
generoso, ed essa cedette. Poco dopo, però, l’innamorato avanzò richiesta ( la cosiddetta “prova d’amore”) che la ragazza, cresciuta in un ambiente di
severi costumi, giudicò eccessiva, e
ruppe il fidanzamento. Oggi la società è cambiata, la prova d’amore si chiede via sms o via Facebook, o nel web,
e le dolci donzelle la concedono… spesso, senza richiesta.
Avvenne, allora, un episodio, non infrequente dalle nostre parti. Aldo
Marras chiese alla ragazza di riconciliarsi con lui, di cedere ai suoi desideri
e di accettare, “in pegno” la garanzia
delle sue buone intenzioni, una pistola automatica. Se non l’avesse più
sposata, essa avrebbe avuto l’arma per vendicarsi.
“Quella
pistola – raccontò la ragazza – io la
custodii gelosamente e dovetti infine usarla per riscattare i miei sogni
perduti. Attendevo un bimbo ed Aldo non voleva più sposarmi. Ero agli ultimi
giorni di gravidanza e decisi di farla finita. La sera del 2 agosto seppi che
Aldo era al Luna-Park con due amici. Presi la pistola, la nascosi nella tasca
dell'ampio vestito di cotone da gestante, ed uscii. Aldo era al baraccone del
tiro a segno col fucile a compressione imbracciato: sparava e rideva. Estrassi
la pistola e cominciai a sparare; ricordo solo una grande confusione, e vidi
del sangue. Non capii più niente. Qualcuno mi sorresse e mi trascinò . Quando,
il giorno dopo, mi rinchiusero nel carcere di S. Maria Capua Vetere ero già in
preda alle doglie del parto. La mia bambina — ha aggiunto singhiozzando — visse un
giorno soltanto”.
A conclusione della sua requisitoria il pubblico ministero, Francesco
Calabrese, chiese una condanna a 30 anni di reclusione. Dopo
le arringhe di parte civile e quelle dei
difensori, Avv. Michele Verzillo, del Foro di S. Maria C.V. e del Prof. Avv. Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica ( che sostennero la non premeditazione del
delitto e la provocazione ) la Corte,
riconobbe le attenuanti generiche, per
l’incensuratezza e le attenuanti per la
provocazione e condannò la giovane a 24
anni di reclusione.
Certo,
deve essere stato terribile, per
Consiglia Sciaudone, pensare di essere una ragazza madre, a quell’epoca, anni
Sessanta, in un paese come il suo ciò
era inaccettabile. Un figlio illegittimo veniva considerato una vergogna e una
relazione con un uomo sposato una grave colpa. Sul delitto ci sono due versioni:
una giudiziaria e l’altra letteraria. La
prima propende per il delitto con una pistola contro un giovane studente. La
seconda per il delitto con il fucile del padre della
ragazza contro un uomo, un geometra,
sposato e con figlio. Oggi la maestrina
“ribelle” ha quasi 80 anni e vive nel suo paese riverita e rispettata.
Ma
alcuni particolari inediti della sua tragedia
(che durante il processo non si appalesarono) sono emersi, nel 1976 dal capitolo che Liliana De Cristoforo, direttrice del
Carcere di Pozzuoli, le ha voluto dedicare nel suo libro “Donne, cancelli e delitti”. Anche se nel testo – che ha avuto un
notevole successo – ed è stato ripubblicato con altro editore – il capitolo viene
occultato con nomi travisati. La De Cristoforo ha narrato, tra l’altro, anche
la detenzione nel carcere di Caserta ( lei è stata direttrice anche di quella
struttura ) di Sofia Loren.
“Concetta ( cioè Consiglia ) – scrive la De
Cristoforo - aveva 35 anni, era alta,
esile e con un’espressione perennemente triste sul volto segnato da piccole
rughe precoci. Era capo cuciniera e
svolgeva il suo lavoro con impegno e un gran senso del dovere. Aveva molto
ascendente sulle compagne, forse perché il suo grado d’istruzione, anche se non
elevato, le consentiva di emergere da una massa il cui livello culturale era
piuttosto basso o forse perché il suo atteggiamento serio e responsabile le
conferiva un’aura di credibilità e di affidabilità. Proveniva da Sessa Aurunca,
un antico centro agricolo di interesse storico. Era in carcere da quindici anni ed era in
attesa della liberazione condizionale, con grande ansia e trepidazione,
convinta di avere abbondantemente scontato il suo debito con la società. Seduta
nel mio ufficio, dall’altra parte della scrivania, fissava la finestra con gli
occhi mesti e lo sguardo carico di rimpianti”.
“Solo ora mi rendo conto che in fondo sono
stata contagiata da quella mentalità che disapprovavo. Non si può convivere a
lungo con qualcuno o qualcosa senza assorbirne a poco a poco le consuetudini,
gli atteggiamenti, il linguaggio E così è accaduto anche a me Il paese mi ha
condizionato Senza rendermene conto e senza volerlo, ho finito con l’assumere i
comportamenti dei miei compaesani. Quando mi diplomai – narra Consiglia Sciaudone - i miei diedero una grande festa.
“Ora ti devi trovare un bravo giovane, di
buona famiglia, e ti devi maritare” diceva mia madre, “la gioventù passa presto
e io voglio vederti sistemata. Mi devi dare dei bei nipotini. Ti aiuto io a
crescerli”. “I primi mesi di scuola volarono. Giunsero le vacanze di Natale. La
notte della vigilia ero con la mia amica Adele nella cattedrale ad assistere
alla funzione di mezzanotte. C’era molta gente venuta anche dalle frazioni
vicine tanto che non trovammo posto a sedere. Durante l’omelia del vescovo mi
sentii osservata. Voltandomi vidi un giovane nella navata opposta che mi
sorrideva. Non sapevo chi fosse, non l’avevo mai visto. Quel sorriso mi turbò e
mi provocò un certo disagio”.
“Lo incontrai di nuovo a
una festa a casa di un’amica il giorno di Capodanno.
“Cominciai a inventarmi dei viaggi a Caserta
al Provveditorato agli Studi per consultare le graduatorie, per chiedere
informazioni sui programmi del concorso, sulle date degli esami o altro.
Prendevo la corriera la mattina presto a Sessa e arrivavo a Caserta dove lui mi
aspettava. Aveva da poco acquistato un’auto, una piccola utilitaria, che era
diventata il nostro rifugio. Andavamo in giro nei dintorni, nelle campagne, nei
boschi, nei luoghi appartati dove potevamo stare soli a parlare e abbracciarci
per ore; poi il pomeriggio riprendevo la corriera per Sessa”.
“Mia madre era diventata assillante,
sospettava qualcosa. In paese si dice che hai simpatia per il geometra
dell’impresa di costruzioni, è vero? Perché non lo presenti in famiglia? Tuo
padre non lo sa ancora, ma quanto prima qualcuno lo informerà, lo sai, e sai
anche che si risentirà moltissimo. Cerca di evitarlo.”
“Una mattina, mentre ero
in classe, fui presa da un forte senso di nausea accompagnato da violenti
capogiri. Mi resi conto di essere incinta. Riuscii a incontrare Armando e a
parlargli. Ebbe una lieve espressione di contrarietà, ma si riprese subito e mi
rassicurò. Mi disse di non preoccuparmi, tutto si sarebbe aggiustato, si
sarebbe presentato ai miei e ci saremmo sposati. Dovrò anche informare la mia
famiglia” disse. “Devi solo aspettare una decina di giorni, i miei sono andati
a Torino da un fratello di mia madre che è molto malato. Appena tornano parlo
con loro e poi vengo a casa tua. Stai tranquilla”
I dieci giorni passarono e ne trascorsero
altri dieci Armando non si fece più vedere Venni a sapere che i lavori della
strada era- no quasi finiti e che lui era stato destinato a un altro cantiere
Era completamente sparito dal paese. Temevo che gli fosse accaduto qualcosa, ma
dentro di me cominciavano a insinuarsi atroci sospetti. L’unica cosa da fare era cercare di rintracciarlo
nella sua città. Il fratello della mia amica Adele si procurò l’indirizzo da un operaio
dell’impresa via IV Novembre n. 68:Capua”.
“Adele e io giungemmo a
Capua con la corriera, trovammo subito la via che era piuttosto centrale, ma la
numerazione era confusa e provvisoria. Chiedemmo a un calzolaio che lavorava
sull’uscio della bottega. Costui ci indicò un palazzo al lato opposto della
strada. Ci avvicinammo dal portone usciva una giovane donna con un bambino per
mano: “Abita qui la famiglia Coletta?’ chiedemmo. Cerchiamo un geometra che si
chiama Armando Coletta”. “Mio marito non c’è , rispose lei, e andato a Napoli
per lavoro, tornerà nel pomeriggio”. “Mi ripiegai su me stessa, come se avessi
ricevuto un colpo di rivoltella allo stomaco. Adele mi prese per un braccio e
mi trascinò via. La donna non notò la mia reazione, il pallore del mio viso,
poiché era distratta dai capricci del figlio. “Chi devo dire che l’ha
cercato?”, chiese, ma noi facemmo finta di non sentire e ci allontanammo in
fretta”.
Il prof. Avv. Giovanni Leone e sua moglie |
“Vedevo abbattersi sulla
mia vita un uragano gigantesco che mi avrebbe travolto. Immaginavo già il vento
dello scandalo soffiare in ogni vicolo del paese, il pettegolezzo diffondersi
di bocca in bocca, l’atteggiamento di riprovazione delle suore, del parroco,
delle bigotte che trascorrono i pomeriggi a far pettegolezzi, lo sguardo di
disprezzo di molti. Pensai anche a un
aborto, ma a chi rivolgersi? L’aborto era un reato, sarebbe stato difficile
trovare un medico disponibile
“I giorni passavano e non
vedevo soluzioni al mio dramma, avrei potuto suicidarmi e risolvere così ogni
problema oppure confessare tutto ai miei e affrontare la loro reazione, ma non
avevo il coraggio. Mi dibattevo tra mille pensieri senza riuscire a prendere
una decisione e con il trascorrere dei giorni l’amore che avevo provato si trasformava
in odio che cresceva dentro di me così come cresceva quel piccolo essere che
consapevolmente rifiutavo e inconsciamente desideravo”.
“Venne la ricorrenza del
Santo Patrono, il paese era in festa con luminarie, bancarelle, la banda
musicale, le giostre per i bambini. La mattina mi ero recata a messa e il
pomeriggio avevo seguito la processione, avevo anche chiesto al Santo di
illuminarmi e suggerirmi cosa fare. Era scesa la sera, non avevo alcuna
intenzione di uscire e unirmi alla folla festante e chiassosa, ero seduta nel
soggiorno immersa nei miei pensieri, fingendo di leggere un libro. Mio padre
era da poco tornato dalla caccia, la carabina era poggiata in un angolo in
attesa di essere riposta. Mi ritornò
alla mente un giorno lontano in cui mio padre ne illustrava a mio fratello il
funzionamento: Questo è il cane, questo il caricatore, qui si mettono le
cartucce. . .‘ spiegava, “quando togli
la sicura devi tenere sempre la canna abbassata… il difficile è prendere la
mira, bisogna mantenere l’arma così, altrimenti il contraccolpo ti spinge
indietro. . .“
“In quel momento giunse
Adele. “Vestiti’ mi disse, “usciamo andiamo a vedere le bancarelle”. Poi sottovoce, in modo che nessuno sentisse: “Armando ti
aspetta in piazza davanti al bar “Stella Polare”, ti vuole parlare. La guardai
stupita e sconcertata; che cosa voleva quell’individuo da me? Mi faceva paura,
non intendevo incontrarlo. “Comincia ad andare, dissi ad Adele, ti raggiungo in
piazza fra pochi minuti’ Andai in camera mia, indossai l’abito migliore, le
scarpe eleganti, mi pettinai accuratamente, poi tornai nel soggiorno. Mio padre
e mia madre erano in cucina, li sentivo discutere su un terreno da acquistare”.
“In un lampo mi
impossessai del fucile e mi precipitai per le scale. Prima di uscire dal
portone controllai che l’arma fosse carica e tolsi la sicura. La piazza era poco distante, camminavo
nell’oscurità tenendo il fucile verticalmente e rasentando le case, inseguivo
la mia ombra gigantesca che si proiettava sui muri senza vedere altro intorno a
me. C’era qualcosa che mi spingeva, che alleggeriva i miei passi, che mi
infondeva un senso di dovere e di obbligo. Un mostruoso desiderio di vendetta e
di riscatto si era insinuato nella mia anima...”.
“Il caldo, la paura, la
tensione si scioglievano nel sudore che grondava dai capelli scorrendomi sul
viso, sugli occhi, sul collo e sulle spalle. Il leggero abito estivo era
intriso d’acqua come tutto il mio corpo. Improvvisamente l’ansia si dileguò lasciando
il posto a una profonda calma e un freddo autocontrollo. Giunsi velocemente nei pressi del bar
tenendomi a breve distanza. Lui era lì davanti all’ingresso con un gruppo di
amici, sorrideva, fumava, scherzava, aveva un abito scuro, la cravatta
intonata, l’atteggiamento sicuro di sempre. Mi avvicinai furtivamente, feci
celermente gli ultimi passi e giunta a pochi metri di distanza puntai il
fucile. Vidi un’espressione di stupore sul suo volto e poi nient’altro. Un
colpo, due, tre, quattro. . . Aveva ragione mio padre, il difficile è prendere
la mira. Le deflagrazioni squarciarono l’aria e rimbombarono nel mio cervello
come mine esplose. Stordita mi accasciai contro il muro in preda all’angoscia. Le risa,
l’allegria, le chiacchiere che
echeggiavano intorno cessarono di colpo e un silenzio di piombo calò sulla piazza. Subito dopo, rumore di
vetri infranti, di oggetti caduti, di
gente in fuga, urla di terrore, gemiti di dolore, grida di disperazione, singhiozzi e sangue, sangue
dovunque, sui muri, sul marciapiede, sui
tavolini. . . E poi tutti quei corpi per terra”.
“A me non dispiace per
lui, non me ne importa niente di lui. Aveva
un figlio, lo so, ma doveva pensarci prima a suo figlio. Invece, mi dispiace
per gli altri due giovani, quelli non c’entravano, è stato un destino infausto che li ha messi sul mio
cammino. Mi dispiace anche per
quell’altro che ora è su una sedia a rotelle, ma io dovevo difendere il mio onore”.
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