Accadde
Il 17 ottobre del 1947 alle 22,45 in Maddaloni
UN OSCURO
MOVENTE PER L’OMICIDIO
Leonardo Romano e
il cognato Pasquale Romano accusati di
avere ucciso Vincenzo Abbruzzese – Gelosia? Contrasti sulla spartizione del
bottino? Sei colpi di pistola dopo una serata in cantina. L’allegra vita di una compagnia di
gitani.
IL
FATTO
Il 17 ottobre del 1947 alle 22,45
in Maddaloni, i carabinieri venivano avvisati che in località “Molini” e
propriamente in via Ponte Cardino era avvenuta una zuffa tra nomadi e che uno
di essi giaceva a terra gravemente ferito. I carabinieri sul posto infatti
rinvennero Vincenzo Abbruzzese,
quasi morente, il quale però fece il
nome del suo assassino e disse che trattavasi di tale Narduccio
alias Leonardo Romano e del cognato
di costui a nome Pasquale Romano che
gli aveva passato la pistola dalla quale erano partiti i colpi che lo avevano
attinto “limite inferiore lipocandrio”.
I carabinieri dopo aver
accompagnato il ferito all’ospedale di Maddaloni si diressero verso
l’abitazione dei due Romano. Nel frangente fortunatamente la Gazzella dei
carabinieri( il cui equipaggio era composto dal brig. Vincenzo Panipucci e Francesco
Zevola) incrociò i due fuggiaschi. Al Leonardo Romano i carabinieri
sequestrarono una rivoltella militare inglese marca Webbleng a rotazione cal.10.42 che dichiarò – però - di aver
raccolto per terra vicino al corpo del soggetto da lui ferito. Entrambi si
protestavano innocenti della zuffa e della conseguente sparatoria addirittura
sostennero di non conoscere nulla di quanto era accaduto. Poi in caserma, messi
a confronto con quanto aveva dichiarato il Vincenzo Abbruzzese, i due prospettarono una versione dei fatti adombrando
una presumibile legittima difesa ed una esclusione totale per la sparatoria di
Leonardo Romano. Nella circostanza il Leonardo Romano raccontò si carabinieri
che Vincenzo Abbruzzese era l’amante della sorella di sua moglie e quel giorno
erano stati ospiti di alcuni parenti della moglie. Nella stessa serata alla
comitiva si era aggiunto anche Pasquale Romano marito di Felicia Romano sorella del Leonardo e quindi suocera di Pasquale. Ad
un certo momento della serata Vincenzo Abbruzzese e Pasquale Romano si recarono
presso l’Osteria gestita da Andrea
Merola dove cenarono e bevvero e si trattennero fino a notte inoltrata. Quasi
all’una di notte la moglie di Pasquale Romano preoccupata per la lunga assenza
del marito volle recarsi a chiamarlo facendosi accompagnare da Leonardo Romano.
Giunti nei pressi della cantina chiamarono l’Abbruzzese e Pasquale Romano i
quali pur invitati ripetutamente non volevano abbandonare il vino e l’oste.
Finalmente dopo alcune esitazioni si avviarono tutti insieme verso casa. Ma
appena giunti nella casa di Generosa
Romano, Vincenzo Abbruzzese - alquanto alticcio - incominciò ad inveire
contro l’amante, Carmela Bevilacqua,
che percosse e minacciò estraendo la sua rivoltella che portava alla cintola. A
questo punto intervenne Pasquale Romano invitandolo a desistere, ma l’altro,
esasperato rivolse con di lui l’arma ingiungendogli di uscire fuori: ”Uomo
di merda se hai coraggio esci fuori”. Ma il Romano, prevedendo la reazione dell’uomo abbastanza
ubbriaco, per essere stato nella cantina assieme a lui ed avendo assistito
anche ad altre provocazioni con la pistola in pugno che l’Abbruzzese estraeva con
molta facilità ad ogni piè sospinto iniziò a scappare per sottrarsi ad
eventuali rappresaglie. L’Abbruzzese – invece di desistere – iniziò un
inseguimento impugnando l’arma e minacciando di esplodere colpi al suo
indirizzo: “Pover’uomo…fermato…ti sparo”…nello stesso istante fece partire
quattro, cinque colpi di pistola all’indirizzo del Romano…
Dalla casa Leonardo Romano e gli altri
familiari sentirono – dato il silenzio delle tenebre – le detonazioni e la
reiterazione dei colpi. Nella corsa Leonardo Romano era giunto fino alla
località “Molini”. In quel frangente – secondo il suo fantasioso
racconto – aveva trovato l’Abbruzzese gravemente ferito e vicino a questi una
rivoltella che aveva raccolto andando subito nella caserma dei carabinieri che,
però, stranamente, aveva trovato chiusa.
Nel tornare indietro – continuò nel
suo fantasioso racconto Leonardo Romano – si era imbattuto in Pasquale Romano e
questi gli aveva dichiarato che era stato fatto segno a numerosi colpi di arma
da fuoco di rivoltella e che però era stato costretto a difendersi e di far
fuoco egli stesso colpendo così l’Abbruzzese. Un racconto che secondo l’esperienza
degli investigatori non era assolutamente credibile. Anche in ospedale, però,
l’Abbruzzese - così come fatto ai carabinieri – prima di morire – confermò che
essere stato sparato da Leonardo Romano e non nominò neppure il Pasquale
Romano. Tuttavia i carabinieri denunciarono entrambi i Romano per omicidio.
Nel prosieguo delle indagini si
accertò che l’Abbruzzese era stato ferito con una zappa alla testa e fatto
successivamente segno a numerosi colpi di rivoltella. Il giorno dopo – diagnosticarono
i medici – a causa da una emorragia interna – l’uomo cessò di vivere. Le
successive investigazioni degli inquirenti accertarono che Vincenzo Abbruzzese
quella sera, dopo aver bevuto a casa, si era presentato nella cantina già
alticcio e che in un frangente aveva anche minacciato l’oste, sfoderando la sua
pistola che, vistolo ubriaco fradicio si era rifiutato di mescere altro vino
rosso. L’Abbruzzese aveva anche più volte minacciato gli avventori chiedendo
loro delle sigarette ed arrivando addirittura a mettere la canna della pistola
in gola ad uno di essi che si era rifiutato di dargli una sigaretta, proprio
quella che in quel momento si stava fumando ma che, purtroppo, era l’ultima in
suo possesso.
LA
PERIZIA BALISTICA
E’ inesatto ritenere – si accertò
nella perizia – che l’Abbruzzese fosse
stato ferito con la stessa rivoltella che sarebbe stata quella consegnata ai
carabinieri quella sera stessa subito dopo il fatto da parte di Leonardo
Romano. Vero che questi ebbe a consegnare ai carabinieri una pistola che disse
di aver raccolto vicino al ferito, quando questi giaceva a terra sanguinante,
ma trattasi di una delle tante affermazioni fatte dal Leonardo in modo falso o
incompleto. La storiella della rivoltella rinvenuta a terra, ad una distanza
dal ferito, riferita diversamente era in un modo o in un altro dallo stesso
Leonardo, in quelle circostanze di tempo e di luogo si presenta quanto mai
dubbia ed equivoca. Se veramente la rivoltella fosse stata lasciata in quel
posto dallo stesso ferito, non si riesce a spiegare come mai la stessa pistola
era scarica di tutti i suoi bossoli che pur dovevano essere rimasti nel tamburo
– dopo che l’Abbruzzese ebbe a farne uso fuori la casa di Leonardo Romano e di sua madre Generosa. E giustamente fu osservato
che, se il Leonardo dopo avvenuto il ferimento, ebbe ad uscire di casa ed
avvicinarsi al ferito avrebbe avuto cura più che di portare in caserma la
rivoltella – con inspiegabile urgenza – di portare o far portare soccorso al
ferito che sanguinava terra e fu rimosso per essere portato in ospedale solo
quando – dopo circa mezz’ora – sopravvennero i carabinieri.
Poi successivamente, Pasquale
Romano, contrariamente a quanto
aveva sempre affermato ai carabinieri, uscì col dire che l’arma sequestrata dai
carabinieri – cioè quella rinvenuta a terra da Leonardo Romano – presso il
ferito – si apparteneva ad esso Pasquale Romano. Ma tale affermazione – fu
chiarito – era indubbiamente falsa perché il calibro della pistola sequestrata
era di 10,42 non poteva essere esploso da quella canna il proiettile che colpì
l’Abbruzzese, la cui ferita da arma da fuoco alla regione ipocondriaca sinistra
(foro di entrata)era di mezzo centimetro, e quello posteriore in corrispondenza
della loggia renale sinistra (foro d’uscita) il cui proiettile fece assumere alla ferita
una forma non più ovulare ma
rettangolare – di misura maggiore ma certo non tale da provenire da un
proiettile d’arma da fuoco di calibro 10,42. Il che sta a dimostrare che il
proiettile omicida proveniva da altra rivoltella, che non quella
sequestrata, così come lo stesso Pasquale Romano aveva sempre affermato e se
poi ebbe costui ad affermare il contrario se ne deve dedurre che trattasi di un
altro tentativo per intorbidare le acque e nascondere la verità. Una cosa è
certa l’Abbruzzese fu ferito da altra pistola e che quindi anche quelli coi
quali era avvenuta la lite – per lo meno uno di essi – era armato.
L’Abbruzzese quindi – fu raggiunto
– secondo i periti – da colpi esplosi a breve distanza e ciò fa dedurre che lui
era un inseguito (ubriaco e barcollante) e non un inseguitore.
LE
TESTIMONIANZE
Chiara è, tra l’altro, la
deposizione di Carmela Bevilacqua,
resa ai carabinieri, in un momento in cui non si sapeva dell’esistenza di altre
lesioni ( infatti non era stata ancora depositata la perizia generica)prodotte
con una zappa e nella quale dichiarazioni si accenna appunto a colpi di zappa
inferti da Pasquale Romano. Tale particolare – stigmatizzarono gli inquirenti -
vale a ribadire l’esattezza della perizia generica che vale anche a comprovare
che quando in un primo tempo la Bevilacqua, amante e concubina dell’Abbruzzese
e sorella alla moglie del Leonardo ebbe a deporre dichiarò la verità. Anche
questa volta la versione di Leonardo Romano combacia perfettamente con quella di Pasquale Romano, il quale
assumeva che fu costretto ad uscire fuori casa della suocera dalle minacce
dell’Abbruzzese, che, inseguendolo sulla strada
gli esplose contro 5 colpi della sua arma, fortunatamente andati a
vuoto, continuando ad inseguirlo ed a sparare.
LA
RICOSTRUZIONE DEL DELITTO
Mentre stava per essere raggiunto aveva
estratto a sua volta una pistola a tamburo ed aveva esploso un colpo contro
l’altro, dileguandosi verso le campagne, senza rendersi conto se l’Abbruzzese
fosse stato ferito. Tornato sui propri passi aveva visto l’Abbruzzese – che è
suo zio – a terra incontrandosi poi con il Leonardo e quindi coi carabinieri.
Soggiunse che l’arma di cui si era servito l’aveva buttata per terra nella
campagna. Questa seconda versione dei due Romano si combacia però con quella
resa da Felicia Romano, sorella del
Leonardo e moglie di Pasquale.
Costui, infatti, narrava che quando l’Abbruzzese uscì dalla cantina si unì al di lei fratello e
al di lei marito e che prima di rincasare venne a lite con il Leonardo col
quale venne alle mani. E siccome il Lonardo era privo di arma, mentre
l’Abbruzzese si era provvisto, Pasquale Romano intervenne in suo aiuto. Fu
allora che l’Abbruzzese esplose due o tre colpi di pistola andati a vuoto e poi
scappò verso via Ponte Cardino inseguito dai due. Identica deposizione fu resa
da Maria Romano, sorella di
Leonardo, la quale però precisava che il fratello Leonardo l’aveva sorpresa
nell’atto di abbracciarla a viva forza. E la stessa Carmela Bevilacqua – che pur essendo l’amante dell’Abbruzzese – era
sorella della moglie di Leonardo Romano
- affermò recisamente che aveva sentito
gridare l’Abbruzzese che diceva: “Madonna Pasquale mi ha dato una zappata”. I
carabinieri, tra l’altro, riferirono che non fu possibile raccogliere altre
testimonianze, in quanto sia l’oste che gli avventori avevano paura di
rappresaglie da parte dei cugini Leonardo e Pasquale Romano che era preceduti
di avere fama di ladri, rissosi,
criminali e violenti vendicatori. Ma
se la causale del delitto - ipotizzarono
ancora i giudici - non risulta e non è dato precisarla non può tale
lacuna arrestare il corso della giustizia che segue il suo verso con le
risultanze che offre e niente altro. Nella specie trattasi di delitto compiuto
fra soggetti che vivono appartati dal resto della società ( nomadi ) una vita
oscura e misteriosa e spesse volte dedicata ad attività imprecisabili in cui il
concetto morale dell’onestà e dell’onore è tutto proprio ed i rapporti di
parentado e di affinità si confondono
con quelli del comparaggio e dell’incesto. In mezzo a tale groviglio di
rapporti non è possibile individuare una causale chiara e precisa né gli
imputati l’hanno offerta per avvalorare sempre più la tesi dell’ubriachezza
dell’Abbruzzese ed il suo contegno arrogante e provocatorio.
IL
PROCESSO
La
Corte di Assise di S. Maria C.V. il 21 marzo del 1951, ritenne entrambi gli
imputati responsabili di concorso in omicidio volontario e col beneficio, della
provocazione e delle attenuanti generiche, li condannò a 10 anni di reclusione
ciascuno.
Durante il processo di primo grado
svoltosi innanzi alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Pasquale Taglialatela, Pubblico
Ministero Angelo Peluso) un
testimone oculare (falso) nominato dagli avvocati difensori degli imputati a
discarico degli stessi, ebbe a dichiarare che all’ora del delitto aveva visto Pasquale Romano sparare un colpo di
pistola all’indirizzo di Vincenzo
Abbruzzese che stava per raggiungerlo. Gli stessi parenti dell’ucciso – che
erano anche parenti degli imputati – confessarono, nelle loro diverse
deposizioni, nel prospettare una completa estromissione di Leonardo Romano ed una legittima difesa ( studiata a tavolino ma
non credibile) per Pasquale Romano.
Nonostante le diverse tesi
difensive la Sezione Istruttoria (un istituto che si potrebbe paragonare al Gip
e Gup di oggi) decretò il rinvio a giudizio per entrambi gli imputati per
omicidio volontario. La Corte di Assise di S. Maria C.V. il 21 marzo del 1951,
ritenne entrambi gli imputati responsabili di concorso in omicidio volontario e
col beneficio, per entrambi, della provocazione e delle attenuanti generiche,
li condannò a 10 anni di reclusione ciascuno. Solo Leonardo Romano impugnò la
sentenza ed il successivo ricorso per cassazione. Mentre Pasquale Romano, dal
canto suo scontò per intera la pena. Nel processo di appello ( Presidente Pasquale Falciatore, pubblica accusa Federico Putaturo) Leonardo Romano,
difeso dagli Avv.ti Alberto Martucci
e Ettore Botti, che insistettero per
una sentenza che riconoscesse al loro assistito, quantomeno una assoluzione per
insufficienza di prove, se non la legittima difesa, si battettero strenuamente
sia in appello che in cassazione. I giudici di appello furono scrupolosi e fecero
le seguenti considerazioni: ”Se doveva bastare il contrasto fra quello che fu
il frutto delle prime indagini , scaturite dalle deposizioni del ferito prima
di morire e quelle riferite dai prossimi congiunti degli imputati – sorrette da
precise ed inequivocabili prove generiche – e quelle che fu il frutto delle
prove scaturite dopo, senza affatto dimostrare la infondatezza e
l’inattendibilità delle prime, si arriverebbe alla bancarotta della giustizia
punitiva. Tutto sta – continuarono i giudici nella motivazione della loro
sentenza – a sapere scorgere nel contrasto dove sta la maggiore aderenza alla
verità, dove sta la maggiore attendibilità e verosimiglianza e soprattutto,
dove porta la logica delle cose e la voce delle prove accertate. Qui appare fin
troppo evidente il gioco degli imputati che in primo tempo si appalesarono
entrambi innocenti – ma quando poi videro che il ferito aveva parlato –
accusandoli entrambi e specificando la partecipazione delittuosa di ciascuno,
si resero conto che il diniego assoluto non andava bene per le loro tesi e
pensarono di affrontare la responsabilità col minimo mezzo e cioè quello di una
persona sola e non di due e più propriamente di quella persona che pei suoi
precedenti penali, si prestava più facilmente ad affrontare un giudizio penale
ed uscirsene con maggiore vantaggio. I giudici accertarono, infatti, che
Pasquale Romano era incensurato mentre Leonardo Romano aveva già riportato
numerose e gravi condanne tali da non poter godere del beneficio del condono e
doveva finanche incappare nell’aggravante della recidiva (per aver commesso
altro delitto anni prima).
Appare fin troppo chiaro –
spiegarono i giudici – infine che quando Leonardo Romano non aveva escluso e
lontano dalla perpetrazione del delitto riusciva facile per Pasquale Romano
sbandierare una legittima difesa di fronte ad un ubriaco armato di grossa
pistola a tamburo. Di qui si scorge che in un primo tempo, sul fervore delle
prime indagini, quando cioè le parti ed i parenti stessi dell’imputato e
dell’ucciso non avevano avuto tempo di mettersi d’accordo e di scegliere
una via di difesa, questi stessi
parenti, ebbero a dire la verità e descrivono il Leonardo insieme col Pasquale inseguire l’Abbruzzese,
dopo che questi, nell’esaltazione della sua ubriachezza ebbe ad esplodere i
colpi della sua rivoltella. L’Abbruzzese, quindi, era un inseguito e non un inseguitore
e quelli che lo inseguirono non possono certo in tali condizioni parlare di
legittima difesa, una volta che tale era stata da essi liberamente e
volontariamente scelta.
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