Accadde a S. Felice a Cancello 12 maggio del 1949
UN
BARBARO DELITTO PER UN PICCOLO APPEZZAMENTO DI TERRENO
Il
fatto
Filippo
Piscitelli di anni 48 all’epoca dei fatti, da S. Felice a
Cancello, venne tratto in arresto e accusato di omicidio volontario. Il 12
maggio del 1949, i carabinieri di
Maddaloni vennero informati da tal Antimo
Di Nuccio, che in località Isola era stato ucciso Giuseppe
Piscitelli di anni 52, in via Cancello
n° 88, vicino alla sua casa. Una pattuglia di carabinieri, al comando del brig. Giovanni Morcaldo, che si
trovava in zona, fu subito dirottata
verso il luogo del delitto. I carabinieri rinvennero il cadavere dell’uomo che
si presentava con le scarpe sbottonate ed in abito discinti in un prato
coltivato a fagioli. Ma data l’ora tarda il corpo del malcapitato fu piantonato
e rinviato al giorno successivo l’arrivo del magistrato inquirenti per i
rituali del caso. Si appurava così che l’ucciso, era celibe e viveva da solo, ma
era in serio disaccordo con il fratello Andrea
Piscitelli e la moglie di questi, Alessandra
Di Nuzzo, abitanti nella medesima
masseria ma in abitazioni diverse. Si accertò inotlre che nel 1938, Andrea Piscitelli, era venuto in possesso di
alcuni moggia di terreno, già di proprietà del
fratello, che era oberato di debiti, per un valore di circa venti milioni di lire. Il Piscitelli aveva fatto il tutto per salvare
la faccia della famiglia ed anche le proprietà che stavano per essere
espropriate dai creditori facendo redigere un atto al notaio Giuseppe Iorio, ma pagando il
corrispettivo del terreno direttamente ai vari creditori e non al fratello
Giuseppe che ne era stato il proprietario fino a quella data. In effetti lo
sconsiderato aveva alienato tutti i suoi beni con gioco e donne ed era rimasto
con un solo moggia di terreno che coltivava personalmente. Per tale fatto le
liti erano frequenti. Vi furono numerose
querele per ingiurie, ricorsi al Pretore, perizie e stime – nel corso
degli anni – fino a giungere al 1949. Per questi trascorsi, fu indiziato del
delitto Andrea Piscitelli che, però, al momento della irruzione in casa fu
trovato a letto affetto da una infezione viscerale, ma, siccome non aveva febbre fu immediatamente fermato
unitamente al nipote Raffaele Piscitelli,
figlio di Filippo, da Maddaloni di anni 20. Quest’ultimo, infatti, in località Scarpati in agro di Maddaloni, aveva rinvenuto, a circa
150 metri dalla propria masseria, il cadavere di un uomo, assieme ad un
altro contadino tale Alessandro Di Nuzzo
ed alla zia Carmela Piscitelli.
Testimoni
falsi o reticenti
Subito interrogati dai
carabinieri in particolare Andrea Piscitelli (il primo indiziato
del delitto) dichiarò che era malato da vari giorni per una intossicazione
viscerale e dal letto aveva appreso verso le 16 di quel giorno l’uccisione del
fratello Giuseppe, tale notizia gli era stata fornita dal nipote Raffaele.
Disse che il morto era in disaccordo con tutti per via del terreno. Lui viveva
nella stessa masseria ma in una appartamento diverso da dove viveva lui e la
moglie. Fu un racconto ingarbugliato e
contraddittorio che i carabinieri – come era evidente – accettarono con il
beneficio di inventario.
“Questa
mattina – disse Andrea Piscitelli - è
venuto a trovarmi mio cognato Filippo Piscitelli, per vedere come stavo e l’ho
mandato a chiamare suo cognato Ciro Petrella in Acerra e mio cugino Raffaele
Piscitelli a S. Felice a Cancello, per tentare, a mezzo di loro, una
riappacificazione con mio fratello Giuseppe. Filippo non era agitato, né ebbe a
rappresentarmi animosità verso mio fratello. Non ho udito spari vicino alla
masseria dopo che mio cognato ha lasciato la mia casa. Non so chi abbia potuto
uccidere mio fratello. Nessuno mi ha detto dell’atroce delitto. Escludo di
avere istigato o rafforzato l’idea di uccidere mio fratello nei riguardi di mio
cognato Filippo Piscitelli qualora lui avesse commesso il delitto”.
Alessandra Di Nuzzo,
interrogata, a suo volta confermò che esistevano dissidi con il morto ed in
particolare riferì che: “Mio cognato
Giuseppe Piscitelli, fratello di mio marito, abitava nei pressi della nostra
casa e l’ho visto verso le ore 16,00.
Era celibe e viveva solo. Era in lite con tutti ed i dissidi erano all’ordine
del giorno sempre per la questione del terreno. Non ci siamo trattati da molti
anni. Ieri è venuto mio nipote Raffaele Piscitelli – verso le ore 14,00 –
figlio di Filippo Piscitelli piangendo, e mi ha detto che mio cognato era morto
e che il suo cadavere era stato trovato dietro le case coloniche della nostra
zona. Mio cognato era in dissenso con la sorella Carmela e col marito Filippo
Piscitelli – sempre per ragione di interessi – il quale vantava diritti sulle
proprietà di Carmela. Ho sentito dei colpi di pistola ma non mi sono allarmata
perché spesso qui si spara.
A sua volta Carmela Piscitelli, sottoposta a
stringente interrogatorio, dichiarò di avere appreso della morte del
fratello dal nipote, Tommaso Izzo di anni 21; confermò i
dissidi tra tutti i membri della famiglia,
ma escluse categoricamente che ad uccidere l’uomo possa essere stato suo
marito ( il quale, peraltro, era fortemente indiziato dell’omicidio) “Perché lui è partito per Foggia, con un automezzo, dovendo acquistare del bestiame”.
Confermò, però, che tra i due non c’erano buoni rapporti.
La
svolta nelle indagini
Raffaele
Piscitelli, chiamato ad esporre la sua versione dei fatti raccontò
che - la sera precedente al giorno del
delitto – dopo cena il padre Filippo
Piscitelli aveva detto che l’indomani sarebbe partito per Foggia per
partecipare ad una Fiera di bestiame. “Questa
mattina però, precisò il giovane – l’ho visto verso le 7,30 rincasare, scomposto nei panni che indossava, dicendomi
che non ci saremmo più visti perché aveva litigato con mio zio Giuseppe
Piscitelli e mi pregava di andare sul monte
– dietro la casa del predetto mio zio per vedere se era vivo o morto.
Recatomi subito ho fatto delle ricerche nella zona senza rintracciare nessuno,
poi ci sono nuovamente ritornato spingendomi più oltre il monte ed ho trovato
il cadavere a ridosso di un rialzo di roccia. Dopo tale scoperta ho subito dato
l’allarme a mio zio Andrea Piscitelli ed a sua moglie ed alle loro grida sono
occorsi i vicini, tra gli altri Antino Di Nuzzo al quale diedi incarico
di avvisare i carabinieri”.
Il giovane precisò poi che tra
il padre e lo zio non correvano buoni rapporti,
perché lo zio offendeva spesso il proprio genitore con parolacce, ed una volta, addirittura gli aveva sputato
in viso. “Non so precisamente come mio
padre abbia ucciso mio zio, in quanto
non me lo ha detto, non so se avesse avuto una pistola io non glielo mai
vista”.
Giuseppe
Di Nuzzo, vicino di casa
dei fratelli Piscitelli dichiarò che era andato a casa di Giuseppe Piscitelli
propria quella mattina per farsi restituire la somma di lire 2500 che gli aveva
prestato ma non trovandolo lo aveva cercato per i campi. Ritornò alla sua casa
ma verso le ore 7,00 aveva sentito degli spari provenire alla casa di Giuseppe
Piscitelli. Confermò, anche che “vox populi”,
indicava che Filippo aveva ucciso il fratello in casa e poi lo aveva
trasportato fuori in campagna. I carabinieri ipotizzarono anche che, complici
nel trasportare il cadavere altrove, fossero stati la moglie ed il figlio dell’assassino tutto ciò per ritardare le
indagini.
Pasquale
Pascarella, soprannominato a’ Volpe, da S. Felice a
Cancello, non confermò, però, il
racconto dell’assassino. Smentì di avere incontrato Filippo Piscitelli né
confermò che l’uomo che aveva visto scappare dopo aver udito i colpi di pistola
fosse il Piscitelli. Francesco Parisi, guardia giurata, da
S. Felice a Cancello, confermò di essere stato in compagnia del Pascarella la
domenica del delitto, e dichiarò che mentre si dirigeva verso Cancello, con la
propria bicicletta aveva udito i colpi e subito si era recato sul posto assieme
a Tommaso Izzo dove rinvennero il cadavere. Questa dichiarazione confermò la
tesi dei carabinieri che ritenevano che il delitto fosse avvenuto altrove e non
sul luogo ove venne rinvenuto il cadavere.
Tommaso
Izzo,
fu Vincenzo, da S. Felice a Cancello, dichiarò che aveva incontrato il Filippo
Piscitelli il quale, piangendo, gli raccontò di essersi sparato
con il cognato Giuseppe Piscitelli, e che doveva andare in carcere. Tommaso Izzo, fu Filippo, a sua volta
dichiarò che quella domenica mattina andò a casa sua Filippo Piscitelli, cugino
del padre, e gli riferì, piangendo, che il cognato Andrea Piscitelli era
grave e che avrebbe desiderato parlare con il fratello Giuseppe, pregandolo di
andare ad Acerra, a chiamare il cognato Ciro Petrella, pregandolo di andare dal
malato. Questa dichiarazione, però,
venne smentita da Michele Piscitelli,
79 anni da Acerra, il quale dichiarò di
non essere stato affatto avvisato e di non essere stato in grado di parlare con
la vittima per la sua ostinatezza. Anche
un altro parente, Raffaele Piscitelli, 38 anni da S. Felice a Cancello, confermò di
essere ignaro di tutto.
Gli inquirenti con queste “deposizioni-confessioni” ebbero la certezza che ad uccidere era stato Filippo Piscitelli, anche perché,
questi si era dato alla latitanza. Intanto era stato disposto il fermo di Andrea Piscitelli e di Raffaele Piscitelli, che gli
investigatori sospettavano complici nel delitto. Le donne, tutte, invece,
furono liberate.
Il
racconto dell’assassino e la pistola fantasma
Nel mentre il magistrato
inquirente aveva dato incarico di procedere alle perizie balistiche e
autoptiche. Il perito settore incaricato
il Dr. Luigi Del Vecchio, diagnosticò
che Giuseppe Piscitelli era
stato ferito mortalmente all’emitorace e alla regione tiroidea da ben tre colpi
di rivoltella. Nel frattempo, mentre era stato prorogato il fermo dei due
indiziati il vero assassino si costituì ai carabinieri.
“Domenica
mattina mi recai a casa di mio cognato Andrea Piscitelli, già ammalato da tempo, per chiedergli se avesse avuto bisogno di me. Nella
circostanza mi rinnovò la preghiera – anche per il suo stato di salute - di adoperarmi affinchè egli avesse fatto pace
col proprio fratello Giuseppe. Nello stesso tempo mi aveva pregato di far
andare presso di lui alcuni parenti: zio Michele
Piscitelli, che abita ad Acerra ed i figli di costui, Raffaele che abita a S. Felice a Cancello e mio cognato Ciro Petrella, pure di Acerra. Aveva in
animo di fare una riappacificazione generale. Mi recai subito da Tommaso Izzo a Cancello Scalo e lo incaricai di andare a chiamare tutti gli
altri. Intanto io tornai verso l’abitazione dei miei cognati Andrea Piscitelli
e Giuseppe Piscitelli per cercare quest’ultimo e tentare di farlo
riappacificare con il fratello. Scortolo sulla strada campestre che dalla sua
casa conduce alla propria Pagliara, a circa 100 metri dalla propria abitazione,
mi sono diretto colà e gli dissi che il fratello malato si era aggravato e
stava male e quindi sarebbe stato il caso di riappacificarsi. Mi rispose di no!
Mi invitò, con violenza ad andare via sputandomi, addirittura in viso. Poi mi
minacciò estraendo dal suo fianco una
grossa pistola. A tale vista
estrassi anch’io la rivoltella che portavo addosso e dopo che mi sparò un colpo
con la sua arma, risposi c on la mia sparando tre o quattro colpi da una
distanza, credo, non più di 3 o 4 metri.
Il colpo sparato contro di me era andato a vuoto. Poi visto che lui
barcollava, sono fuggito. Durante il
tragitto – piangendo – ho incontrato due o tre persone – tra le quale Pasquale a’ Volpe, e a loro domanda dissi che
avevo fatto. Poi andai a casa mia –
distante meno di un chilometro dal luogo del delitto – raccontai il tutto a mio
figlio, raccomandandogli di andare sul posto per vedere se Giuseppe era morto
oppure no. Pensando che lui potesse essere solo ferito poi mi sono dato alla
latitanza per sistemare le cose. Appreso ieri della morte - per evitare che
venissero arrestati degli innocenti – tra
i quali mio cognato Andrea e mio figlio Raffaele – fermati da voi e
sospettati del delitto, mi sono costituito. Io sono l’unico responsabile del
delitto e l’ho commesso per legittima difesa. Ho sparato dopo essere stato minacciato ed ho visto la mia vita in
pericolo. Non ho spostato il cadavere. Sarà
precipitato da solo nel canalone.
Nessuno mi ha istigato. Non so dove può essere finita la sua rivoltella. La mia
l’ho nascosta in campagna, ma ho già
dato disposizioni ad alcuni amici per rintracciarla per farvela consegnare. In seguito alla sua
confessione venivano subito liberati i due che erano stati fermati per presunto
concorso nell’omicidio. Il racconto, però, aveva rappresentato molte
perplessità per gli inquirenti specialmente per quanto atteneva il luogo dove
era stato trovato il cadavere e la scomparsa della fantomatica pistola della
vittima.
I giudici, dal conto loro, si convinsero delle
asserzioni mendaci fatte ai carabinieri dall’omicida, al fine di fare apparire di avere agito in
stato di legittima difesa, della quale -
dissero - “non era neppure il caso di parlarne”, perché oltre ad essere
di assai dubbio che il Giuseppe Piscitelli avesse potuto possedere una pistola
– “per lo stato di miseria i cui viveva”
- l’arma con la quale egli avesse
minacciato e sparato a vuoto contro Filippo si doveva trovare e non era stata
rinvenuta, nonostante i carabinieri
avessero minuziosamente ispezionato,
ogni angolo del terreno. Non è
neppure vero che il Piscitelli avesse
incaricato il figlio di andare a vedere se lo zio era morto o meno e non era vero
il fatto che era andato dalla vittima per farlo riappacificare in quanto anche
egli aveva avuto un appezzamento di terreno con lo stesso sistema usato dal
fratello Andrea (cioè intestarselo, pagando i creditori, ad un prezzo inferiore al valore reale). Si tratta di un piano delittuoso – precisarono
i giudici nella loro sentenza – proposto con la complicità di Andrea Piscitelli il quale, tra l’altro,
possedeva anche una pistola. Fu eliminato insomma colui che dava fastidio alla
famiglia con il suo modo di vivere; il cadavere fu spostato e portato fuori
l’abitazione per similare il presunto atto di legittima difesa, con il concorso
anche degli altri membri della famiglia. Inoltre ad aggravare la sua posizione
si seppe che nel periodo che si era dato alla latitanza era stato a Santa Maria
Capua Vetere presso lo studio di un noto avvocato. Infine i giudici della Corte di Assise si
soffermarono sulla singolare deposizione di un monaco (ritenuto inattendibile ma in buona fede). Si
era, infatti, presentato presso la caserma dei carabinieri - dopo pochi giorni dal delitto - tale padre
Giuseppe Mercogliano, monaco cappuccino, riferendo che la sera precedente,
recatosi nel fondo dell’ucciso, per constatare lo stato di crescita delle
piantine che erano state seminate per suo conto nel fondo dell’ucciso e nel frangente la moglie di Filippo
Piscitelli, sorella della vittima, gli aveva dato una elemosina e lui, mentre vagava per il campo, aveva
trovato una pistola…ricoperta da uno
strato di terra. Nella nota riservata,
però, già i carabinieri, avevano
prima denunciato il prete e poi adombrato che quello era l’ennesimo tentativo
della difesa per avallare la tesi della legittima difesa, alla quale il monaco
si era prestato. Indagato per favoreggiamento e sottoposto a procedimento
penale, si era protestato innocente. I giudici non bevvero la…storia… del
cappuccino…!
Avv. Vittorio Verzillo |
I magistrati della Corte di Assise, per avere
conferma della validità della loro condanna rifecero ab origine la storia della famiglia, dei possedimenti, delle
relative acquisizioni, dei rapporti intercorsi; degli attriti, delle querele e
delle istanze fatte dai Piscitelli prima del delitto. Accertarono, infatti, che
nel 1938 dovendo essere espropriati i beni di Giuseppe Piscitelli, che aveva contratto molti debiti (con gioco e
donne), il fratello Andrea, li acquistò a mezzo di rogito redatto dal notaio Federico Iorio di Maddaloni, per una
somma complessiva di 20 milioni di lire. Con tale somma l’acquirente soddisfece
i creditori. I beni acquistati consistevano in 2 moggia di terreno in
Maddaloni. Il prezzo parve equo per tutti. Secondo l’assunto dell’imputato
Andrea Piscitelli, - il fratello era rimasto con lui nella stessa masseria fino
al 1944 ma nel 1945 si allontanò per andare a convivere con una prostituta
incominciando a farneticare che doveva rientrare in possesso della sua
proprietà. Appare manifesto – scrissero i giudici – che tale idea maturò e si
rinforzò nella mente di Giuseppe, allorché il valore dei feudi rustici ascese
ad un livello superiore agli aumenti registrati in altri campi dovuto alla
svalutazione monetaria in atto.
Probabilmente, se l’acquirente
fosse stato un estraneo, il venditore
Giuseppe, si sarebbe rassegnato ad un
negozio mal riuscito – per cause non dipendenti dal compratore – ma, essendo
stato il fratello, per deplorevole pervertimento il rancore e l’invidia
dovettero agitarlo alla constatazione che il patrimonio di costui aumentava e
che tale vantaggio avrebbe potuto usufruirne lui qualora non avesse venduto.
Egli, infatti, nel 1948 si rivolse all’avv. Salvatore Correra, assumendo
falsamente di non aver riscosso il
prezzo del terreno. Era nota, però, la circostanza, secondo la quale il
fratello – sapendo della sue mani bucate – con il corrispettivo dei terreni
aveva soddisfatto direttamente i suoi
creditori. Il suo avvocato – in coscienza –dopo aver esaminato gli atti –
riferì che non vi era più nulla da fare perché era stato inserito nell’atto di
vendita che il pagamento era stato effettuato prima del rogito. Iniziò da
allora, una lotta del tutto illegale ed immorale contro il fratello che si
rivolse all’Autorità Giudiziaria senza passare mai a via di fatto. Ci furono
atti innanzi al Pretore che ribadirono la legalità, sia del pagamento che del
possesso dei feudi ma il Giuseppe Piscitelli (pur ammettendovi fatti) si
rifiutò sempre di sottoscrivere i
verbali. Alle sue azioni di spoglio il Pretore reintegrò nel possesso
Andrea Piscitelli. Lo stesso Avv.
Correra dovette riferire al suo assistito che non vi erano motivi per opporsi
alle decisioni del Pretore. Si susseguirono ricorsi, spogli e reintegre.
Giuseppe Piscitelli dava spesso molestie al fratello ingiuriando la moglie: “Sei
una puttana… tela fai con tutti…”. Ma non era vero! Ci fu anche una querela
per tali gravi offese. Nonostante ciò Andrea aveva cura del fratello, pagava i
generi alimentari, e tutto quello che occorreva e non tralasciava momenti per
una riappacificazione. Lo confermarono, nelle loro deposizioni, Clemente Crisci, Pasquale Di Nuzzo,
Francesco Lombardi e Michele
Piscitelli, che avevano fatto anche da paciari. Infine, fu stabilito, addirittura per quiete vivere
che Andrea avrebbe ceduto a Giuseppe l’usufrutto dei beni controversi e fu
all’uopo disposta una riunione innanzi al notaio Giuseppe Barletta in Maddaloni, che avrebbe dovuto stipulare il
contratto, per un giovedì del mese di aprile. Furono presenti Andrea con il suo
avvocato Fabio Brancaccio e l’avv. Salvatore Correra. L’interessato,
però, si fece attendere invano. In quanto a Filippo Piscitelli, marito della
sorella dell’ucciso, pur risultando dagli atti,
che anche lui aveva acquistato alcuni beni del cognato alle stesse
condizioni di Andrea Piscitelli, nessun rancore la vittima covava nei suoi
confronti. Il delitto fu ricostruito dai giudici e si ritenne che avvenne nella
casa della vittima. In definitiva Andrea Piscitelli fu Assolto con formula
piena. Filippo non premeditò il delitto e il cappuccino fu tratto in inganno
(infatti fu assolto perché il fatto non costituiva reato). Dopo due anni Andrea
ritornò libero. La Corte di Assise di S.
Maria C.V. aveva inflitta una condanna
a 14 anni di reclusione per omicidio
volontario aggravato e tentato omicidio, senza la concessione delle attenuanti
generiche. La sua difesa, affidata in
prime cure all’avv.to Ciro Maffuccini,
e successivamente – fino al ricorso innanzi alla Suprema Corte di Cassazione –
agli avvocati Giuseppe Fusco, Fausto
D’Ortona e Vittorio Verzillo,
non modificò di molto la definitiva condanna a 14 anni. Con
la sentenza del sei luglio 1951, della Corte di
Assise di Appello di Napoli, (Presidente Nicandro
Siravo, giudice a latere Gennaro
Guadagno, Procuratore Generale Francesco Ventriglia) condannava a 11 anni di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche.
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