Contro la
pornografia del dolore
di Guido Stampanoni Bassi
formiche.net, 9 dicembre 2023
Il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto ma esiste una netta
differenza tra cronaca e voyeurismo. Non sono un giornalista e, quindi, non
spetterebbe a me dire come si pubblica una notizia. Non sono neanche un
direttore o un editore di un quotidiano (lo sono, in realtà, ma di una rivista
giuridica) e, quindi, non spetterebbe a me stabilire cosa sia una notizia e
cosa no. Suppongo lo sia tutto ciò che è in grado di far vendere.
È quindi nella veste di semplice lettore che mi chiedo come mai, a ogni
tragica vicenda di cronaca, si debba assistere al solito susseguirsi di
dettagli macabri e notizie per lo più irrilevanti al solo scopo di solleticare
l’attenzione dell’opinione pubblica. La chiamano “pornografia del dolore”
(trauma porn) e consiste nella pubblicazione di contenuti - articoli, foto,
video, eccetera - che sfruttano traumi altrui per generare scalpore o
attenzione.
Si tratta di un fenomeno che riguarda diversi ambiti (pensiamo alle
raccolte fondi) e, nel 2016, era stata anche presentata una proposta di legge
avente a oggetto la “disciplina della comunicazione pubblica destinata alla
promozione di iniziative di solidarietà”.
Nella proposta di legge - che non riguardava il tema della cronaca
giudiziaria - si prevedeva che i contenuti della comunicazione finalizzata a
promuovere la raccolta di fondi fossero rispettosi di una serie di principi,
tra i quali il rispetto della “sensibilità pubblica”, i principi di “umanità,
neutralità, imparzialità e non discriminazione”, la garanzia della completezza
e della correttezza delle informazioni” nonché l’opportunità di “evitare l’uso
di immagini o di testi potenzialmente scioccanti e lesivi della dignità della persona”
nonché quelli tali da “sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla
dignità della persona, generando sentimenti di paura o grave turbamento, ovvero
rappresentando in modo esasperato la natura del problema sociale oggetto della
comunicazione”.
La cronaca non è ovviamente immune a tale deriva e, solo per rimanere ad
alcune delle più recenti vicende, la spettacolarizzazione del dolore ha
accompagnato la narrazione della tragedia del Mottarone o degli omicidi di
Carol Maltesi e di Giulia Tramontano (su cui non ci sono stati risparmiati
neanche i più macabri dettagli).
La spettacolarizzazione ha caratterizzato, nelle ultime settimane, il
racconto - quasi minuto per minuto - dell’omicidio di Giulia Cecchettin, su cui
l’informazione ci ha propinato, in ordine sparso, i seguenti dettagli: durante
il viaggio che lo portava in Italia, Filippo Turetta aveva la barba incolta e
indossava una tuta; dormiva con un orsacchiotto e questo sarebbe sintomo di una
regressione infantile; l’analisi della sua grafia avrebbe fatto emergere poco
spazio tra le lettere, il che sarebbe la prova di una sorta di “bulimia
affettiva”; una volta arrivato in carcere, avrebbe chiesto ansiolitici e libri;
fonti della biblioteca del carcere avrebbe indicato addirittura i titoli dei
libri: “La figlia del capitano” di Aleksandr Puškin e un giallo di Agatha
Christie (“ma non sarebbe stato chiarito se i titoli siano stati scelti dal
detenuto o se sia stato il giudice a volere che Filippo li leggesse”); gli
altri detenuti si sarebbero lamentati dei privilegi concessi al detenuto “vip”;
inizialmente i genitori di Turetta avrebbero rinunciato a vedere il figlio in
carcere in attesa di ricevere adeguato supporto psicologico; poi, al primo
incontro con i genitori, Turetta sarebbe apparso tranquillo e non avrebbe
versato una lacrima; il papà di Turetta, in un’intervista, avrebbe chiesto come
faccia una psicologa a definire suo figlio “mostro”; pochi giorni dopo
l’arresto, su Facebook sarebbero stati creati gruppi nei quali si mostrava
solidarietà nei confronti di Turetta; la sorella di Cecchettin si è fatta un
tatuaggio; la nonna ha presentato un libro proprio il giorno della autopsia
sulla nipote e avrebbe addirittura sorriso durante un’intervista; durante i
funerali, Turetta non avrebbe acceso la televisione e gli sarebbero stati tolti
anche i giornali.
E poi trasmissioni televisive e articoli nei quali si riportano il numero
di coltellate inferte, i disperati tentativi della povera Giulia di sottrarsi
all’aggressione o le condizioni in cui è stato ritrovato il corpo. Se certe
reazioni sono giustificabili e umanamente comprensibili da chi ha subito la
perdita di una persona cara - così come è comprensibile la reazione dei
familiari ai quali i medici comunicano una tragica notizia - sfruttare il loro
dolore per pure esigenze di marketing è un’operazione che dovrebbe essere
condannata a reti unificate.
Come dicevamo, il caso Cecchettin non è il primo e, certamente, non sarà
l’ultimo. Vi abbiamo assistito nel caso della funivia del Mottarone, quando, a
seguito della diffusione del video che riprendeva i tragici momenti del crollo,
la Procura aveva diramato un comunicato con il quale si invitavano tutti,
inquirenti e organi di informazione, al doveroso rispetto per le vittime e per
l’intera comunità.
Analogo invito era stato rivolto, nel caso Cecchettin, anche dal
procuratore di Venezia, il quale, pur comprendendo l’attenzione suscitata da un
caso così grave, non aveva risposto a domande su particolari “che servono solo
a creare ulteriori tensioni e problemi” e aveva ricordato “il diritto di
Turetta, al pari di ogni indagato, a essere trattato in maniera obiettiva, sia
dalla Procura, che garantisce i diritti delle parti in causa in questa fase,
sia dall’opinione pubblica” al fine di garantire i diritti all’indagato e la
serenità alle parti.
Se il diritto a informare ed essere informati è sacrosanto e non può essere
messo in discussione, occorre però ricordarsi (così almeno evitiamo di
dimenticarlo) che esiste - o quantomeno dovrebbe esistere - una netta differenza
tra ciò che è diritto di cronaca e ciò che è spettacolarizzazione e voyeurismo.
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