“Il
mostro di Parete”
Accadde
ad agosto del 1955
AVVELENÒ LA
MOGLIE INCINTA, E IL FIGLIO, UCCISE IL
FIDANZATO DELLA COGNATA PERCHÉ VOLEVA
SPOSARLA.
”NELLA NOTTE, GRATTAI ALL’INTERNO DEI RECIPIENTI DI RAME E MISI LA POLVERE IN UNA
BOTTIGLIA DI LATTE CHE SAPEVO DESTINATA A MIA MOGLIE”.
AVEVA INDIRIZZATO UNA LETTERA
ALLA COGNATA NELLA QUALE, TRA L’ALTRO, LE CONFESSAVA DI ESSERE SEMPRE E
PIÙ CHE MAI INNAMORATO DI LEI E CHE TUTTO QUELLO CHE ERA AVVENUTO (
L’ASSASSINIO DELLA MOGLIE E DEL FIGLIOLETTO, L’UCCISIONE DEL FIDANZATO ) LO AVEVA FATTO PERCHÉ INTENDEVA SPOSARLA.
RITENUTO SANO DI MENTE LA CORTE DI ASSISE DI S. MARIA C.V. LO
CONDANNÒ ALL’ERGASTOLO. PENA
RIDOTTA A 30 ANNI IN APPELLO.
Del “mostro” venticinquenne Pasquale Maione, da Parete,
pochi ricorderanno i suoi tragici e dissennati gesti. Si trattava di un “folle reo” (perché poi… alla fine confessò), oppure di un
“reo folle”, come dicono gli
strizzacervelli? A leggere le cronache dell’epoca par rivedere davanti agli occhi
le scene dell’”Elogio della Follia”, di
Erasmo da Rotterdam. Un delitto crudele, barbaro, inumano. Da pena di morte…
insomma. Buon per lui che era stata abolita 15 anni prima dei suoi crimini.
L’uomo, follemente innamorato della
cognata Maddalena Comune ( all’epoca
18 enne ) avvelenò con dell’anticrittogamico la moglie Anna Comune di 24 anni ( che,
tra l’altro, aspettava una
bambina ) e il figlioletto Luigi di
di 4 masi. Poi tese una imboscata al fidanzato della cognata, Tobia Clausino, di anni 18, e mentre questi, in bicicletta, attraversava una strada di campagna gli sparò
due colpi di pistola.
Quattro omicidi, che nella sua mente
malata e perversa gli spianavano la strada per poter convolare a “giuste nozze” con la
giovane cognata. Il problema dell’irresistibile impulso e del raptus omicida è una follia transitoria?
Sembra proprio di sì visto che il contadino conduceva una vita normale.
LA CORTE DI ASSISE DEL TRIBUNALE DI S.
MARIA C.V. AVEVA CONDANNATO IL “MOSTRO” ALLA MORTE BIANCA INFLIGGENDOGLI
UN ERGASTOLO PER I SUOI 4 OMICIDI: LA
MOGLIE, IL FIGLIO, LA NASCITURA E IL FIDANZATO DELLA COGNATA.
Teatro di questa triste e squallida
vicenda, furono le zone dell’agro
aversano, tra Parete e Lusciano, dal 1955,
al marzo del 1962, giorno in cui
fu emessa la sentenza di appello. La Corte di Assise del Tribunale di S. Maria
C.V. aveva condannato il “mostro” alla morte bianca infliggendogli un ergastolo per i suoi 4 omicidi: la moglie, il
figlio, la nascitura e il fidanzato della cognata.
Mentre la Corte di Assise di Appello di Napoli,
condannò poi, in via definitiva
il Maione – con il riconoscimento delle attenuanti generiche – alla pena
complessiva di anni 30 di
reclusione. Ma prima di addentrarci nei
meandri della truce storia ci domandiamo, ma è normale un individuo che
progetta un tale disegno criminoso? Quali probabilità di impunità aveva? E come avrebbe potuto
raggiungere il suo scopo, lasciando
tracce dei suoi delitti in ogni dove? Ma dove può portare la passione,
l’amore per una donna? A delitti come
questi? Ad altro? Ad azioni da belve?
Nei miei oltre 50 anni di cronista
giudiziario, però, nonostante abbia seguito migliaia di processi, con moventi
aberranti, questo mi sembra veramente da “Guinnes” dell’orrore. Aveva ragione,
allora, il grande avvocato Alfredo De
Marsico se al termine della sua arringa,
in difesa della vittima di Aurelio Tafuri (un giovane massacrato e
gettato nel Volturno) allorquando affermò: ”Uomo, guardati dall’uomo, capace di
azioni più crudeli delle belvi”.
Sulle prime “l’orco”, tratto in arresto dai carabinieri di Aversa, negò
ogni addebito. Ma il rapporto partito
dalla stazione di Parete lo inchiodò alla sue responsabilità. I carabinieri
annotarono nel loro mattinale: “L’accusato, tratto in arresto nega. Ma ha
ammesso di avere tentato una volta di attuare il criminoso disegno”. Un “caso”
di delinquenza – chiosava un cronista dell’epoca - che
potrebbe portare ad un processo
forse unico nella storia giudiziaria italiana, avvenuto nel piccolo centro di
Parete, è all’esame delle autorità inquirenti”.
LA DONNA MORÌ TRA ATROCI SPASIMI E SUA MADRE MARIA LUISA
PELLEGRINO, RICORDÒ CHE DURANTE IL GIORNO AVEVA ASSAGGIATO UNA POZIONE DI CAMOMILLA PREPARATALE DAL MARITO,
RIFIUTANDOSI PERÒ DI BERLA TUTTA POICHÉ “PUZZAVA COME FOSSE VETRIÒLO”.
“Il protagonista – scriveva ancora il maresciallo comandante la Stazione di
Parete - la cui personalità non si sa ancora se definire “losca” o “folle”, è il 25enne Pasquale Maione, la cui moglie Anna Comune, di 24 anni, mori la notte
del 3 agosto scorso; la giovane era in
stato interessante e il suo decesso
seguì di pochi giorni quello del
figlio Luigi, di 4 mesi, attribuito a “paralisi infantile”.
La donna morì
tra atroci spasimi e sua madre
Maria Luisa Pellegrino, ricordò che durante il giorno aveva assaggiato una
pozione di camomilla preparatale dal
marito, rifiutandosi però di berla tutta poiché “puzzava come fosse vetriòlo”.
Alcuni vicini di casa riferirono inoltre, che
Pasquale Maione, spesso si recava in casa del suocero Luigi Comune, ( quando la moglie era in campagna ) e lo si vedeva trattenersi e spessissimo confabulare con la cognata Maddalena alla
quale, giorni prima, aveva indirizzato una lettera nella quale, tra l’altro, le
confessava “di essere sempre e più che mai innamorato di lei e che tutto quello
che era avvenuto lo aveva fatto perché intendeva sposarla”. Cioè spiegava nella
lettera ( e qui si manifesta il folle
) di aver commesso i delitti per lei.
Perquisita da parte dei solerti carabinieri l’abitazione
della ragazza ( cognata del Maione e già
fidanzata con un giovane del luogo), veniva trovata la lettera incriminata.
Nello stesso tempo venivano fermati la ragazza e Pasquale Maione; ma le
indagini non si fermarono qui. Negli inquirenti nasceva il sospetto che alla
morte del piccolo Luigi Maione e della madre di questi, il Maione non fosse estraneo. A quanto si apprese, l'accusato, messo a confronto con la
suocera, ammise di aver somministrato mesi addietro del “solfato di rame” nei pasti della moglie
e del figlio, di aver messo del veleno nel latte, ma continuava
a negare di aver avuto intenzione di uccidere.
E qui il pensiero corre subito alla poca
professionalità dei medici che diagnosticarono malattie inesistenti, per giustificare la morte della donna e del
figlioletto. Pressappochismo sanitario, sciatteria, mala sanità ( già allora? ). Nessuna indagine tossicologica sui cadaveri e
leggerezza, per non dire altro, anche del magistrato inquirente, che addirittura non ordinò alcuna autopsia.
Ma in quella occasione – i rappresentanti
della Fedelissima – furono gli unici ( forse per intuito investigativo ) a non
abbandonare la pista del delitto e di
non credere ciecamente ai certificati medici rilasciati – evidentemente – con
corruzione e complicità.
Intanto,
date le voci che correvano in paese sulla morte della donna e del suo
figlioletto e la presunta tresca adombrata tra i due cognat per fugare i sospetti, il capo famiglia, organizzò una cena alla quale prese parte
anche Tobia Clausino, il fidanzato
ventitreenne della cognata Maddalena,
sorella di Anna. Il Maione, però, benché
atteso, non si presentò. Il giovane Clausino, dopo aver cenato in casa della
fidanzata, si avviò in bicicletta verso
Lusciano, suo paese di residenza, quando, poco distante dal bivio
“Parete-Trentola”, venne raggiunto alle
spalle da alcuni colpi di pistola. Raccolto da alcuni passanti; veniva
trasportato a Napoli e quindi ricoverato all’ospedale dove morì dopo qualche
giorno.
Chi l’aveva ucciso e perché? Il paese è
piccolo e la gente mormora… I carabinieri riuscirono – non senza fatica – a sbrigliare
l’intrigata matassa. Egli era - come detto - fidanzato di Maddalena Comune e
nel mese precedente era giunta alle
orecchie dei carabinieri voce che
“SÌ. HO VERSATO IL VELENO NEL LATTE DI
MIA MOGLIE… MA NON AVEVO INTENZIONE DI UCCIDERE ANCHE MIO FIGLIO… È STATO
UN ERRORE”.
Pasquale Maione, oltre a non
essere affatto prostrato e addolorato
per la morte della moglie e del figlio, deceduti entrambi a pochi giorni di
distanza l’uno dall’altro, ( la moglie, il 4
ed il piccolo il 29 agosto ) da qualche giorno lo si vedeva spesso
circuire la giovane cognata.
Messo nuovamente sotto torchio, e
contestategli tutti gli indizi che i carabinieri avevano raccolto il Maione,
finalmente, confessò l’orrendo crimine. “Sì. Ho versato il veleno nel latte di mia
moglie… ma non avevo intenzione di uccidere anche mio figlio… è stato un errore”.
Gli inquirenti ipotizzarono ( in parte
avevano ragione ) che complice del duplice delitto fosse stata la cognata con
la quale l’assassino coltivava una tresca. Al Maione, però, non era stato ancora contestato l’omicidio
del giovane Clausino, anche perché nessuno avrebbe potuto immaginare che per la
sua passione amorosa, un onesto lavoratore dei campi, si fosse trasformato in un bieco assassino,
uccidendo la moglie che stava per partorire una bambina, il figlio di 4 mesi e
addirittura il fidanzato della
cognata.
I fatti di questo delitto - che costituisce uno dei
più efferati del dopoguerra - ebbero inizio nel 1955, e si deve alla
sagacia di un coraggioso sottufficiale dell’arma, il comandante della stazione dei carabinieri
di Parete, Mar. Giuseppe Galletta,
se si giunse ad un epilogo nel quale trionfò la giustizia. Si pensi al tessuto
sociale e all’epoca in cui si svolse il delitto, alla omertà della zona, alla
presenza di bande e delinquenti di ogni risma che infestavano ( e purtroppo
infestano) l’agro Aversano.
Il solerte comandante non si fermò di fronte alle risultanze peritali. Il medico condotto
Dr. Salvatore Falco, infatti, aveva diagnosticato per il piccolo Luigi “un
decesso da eclampsia infantile”.
Continuò le sue indagini e raccolse
“vox popoli” una voce sulla
morte del bambino che ritenevano fosse stato avvelenato.
IL MAIONE, FERMATO, NON SOLO SI CONFESSÒ AUTORE DEL FERIMENTO, MA
AGGIUNSE DI AVERE AGITO COSI PERCHÈ TEMENDO CHE IL CLAUSINO GLI PORTASSE VIA LA
RAGAZZA, CON CUI CONVENNE D’AVERE UNA RELAZIONE, AVEVA VOLUTO VENDICARSI.
Mentre
i carabinieri svolgevano le loro
indagini sulla misteriosa morte del bambino, la sera del 3 dello stesso mese,
alle 21.10, un’auto che passava in località “Santa Caterina”, lungo la Provinciale
che da Parete reca a Napoli, raccolse, gravemente ferito, un giovane, Tobia Clausino, da Lusciano, che fu
ricoverato all’ospedale dei Pellegrini perché attinto da due colpi di pistola
al torace, con lesione di un polmone. Il giovane, interrogato in punto di
morte dichiarò che, mentre percorreva la
via in bicicletta, aveva udito i colpi e s’era abbattuto, senza poter indicare
altro.
Ma i carabinieri di Parete accertarono
che, in quel giorno, in quella via, vi era stato il Maione. Un altro elemento
che li orientò fu che il Clausino era fidanzato con Maddalena Comune, cognata
del Maione, la quale, secondo le voci, era da un anno l’amante del cognato.
Il Maione, fermato, non solo si confessò
autore del ferimento, ma aggiunse di avere agito cosi perchè temendo che il
Clausino gli portasse via la ragazza, con cui convenne d’avere una relazione, aveva voluto vendicarsi. Intanto il mattino
del 4 agosto, all’ospedale degli incurabili di Napoli, moriva improvvisamente
anche la moglie del Maione. Questa morte, giudicata normale dai sanitari,
aumentò invece i sospetti dei carabinieri e il maresciallo Galletta compì una
perquisizione nella casa del Maione trovandovi una lettera da lui scritta
all’amante; lettera in cui egli, pur esprimendosi
genericamente, diceva di aver ormai fatto il necessario per realizzare le sue
promesse e i comuni sogni.
Da questa rapporto epistolare si svilupparono nuove e serrate indagini ed il conseguente ordine della Procura della Repubblica di
Santa Maria Capua Vetere, di esumare il
cadavere della donna per una perizia
tossicologica. Ma ormai la stessa perizia era stata in gran parte superata dalla spontanea ed
ampia confessione dall’accusato che, presente il comandante della tenenza di Aversa, Ten. Antonio Messina, narrò di come ideò e come, poi, attuò il suo piano.
La giovane Maddalena, sorella della
moglie, di cui egli si era pazzamente innamorato, ogni tanto gli diceva che,
avendo ormai lei una certa età, i genitori e i suoi quattro fratelli le
consigliavano di non continuare a respingere le numerose offerte di matrimonio.
Allora, per evitare che Maddalena si maritasse, decise di sposarla lui.
-
“Nella notte del 26 - spiegò l’assassino nella sua orribile
confessione - grattai all’interno
dei recipienti di rame e misi la polvere
in una bottiglia di latte che sapevo destinata a mia moglie; il mattino mi
recai regolarmente al lavoro in campagna, ma verso mezzogiorno, stimolato dalla
curiosità, per vedere che cosa fosse accaduto, ritornai a casa. Niente. Anna
non aveva avvertito nessun disturbo. Attesi altri tre giorni e il 29,
improvvisamente, mio figlio si sentì male e poco dopo mori. Allora capii che la
madre aveva fatto, bere al bambino una parte del latte”.
“Poi, fu mia moglie a sentirsi male, insieme ai suoi genitori l’accompagnai a
Napoli, all’ospedale degli Incurabili. Poiché il medico di Parete aveva parlato
di disturbi da gravidanza, essa fu ricoverata nel reparto ostetrico; ma là i
sanitari, dopo averla visitata, esclusero
che si trattasse di gravidanza e la trasferirono a un altro reparto di medicina
dove, in serata, morì”.
A questo punto, gli stessi carabinieri, pur allibiti dal
racconto, continuarono a scandagliare
nella vita dei protagonisti, per giungere al vero movente del triplice delitto.
Fu convocata quindi la “cognata-amante”, Maddalena, sorella della morta e posta
a confronto con il reo confesso. “Sapevate del piano di vostro cognato?”,
chiese il Ten. Messina . E la donna, fra lo stupore dei militi, disse: “Sì”. “E… non interveniste per avvisare vostra
sorella?... incalzò il Ten. Messina. “Non potevo - rispose lei - perchè lui (e guardò l’amante) mi aveva detto chiaramente,
ed era uomo da farlo, che se avessi parlato mi avrebbe uccisa”.
Pasquale Maione fu tratto a giudizio per triplice omicidio aggravato, mentre
Maddalena Comune, per correità nell’omicidio della sorella e del piccolo
Luigi. Dopo una perizia psichiatrica che lo dichiarò – capace di intendere e
volere - al momento dei delitti, la
Corte di Assise del Tribunale di S. Maria C.V. lo condannò, come detto,
all’ergastolo assolvendo la ragazza dalla complicità.
Quel giorno, narrano le cronache dell’epoca, nell’aula
della Corte di Assise, gremita fino
all’inverosimile, all’atto della lettura
della sentenza, che condannava il “bieco
assassino”, alla morte bianca, con un
timbro sulla sua scheda nella matricola del carcere con “fine pena mai”, scoppiò un fragoroso
applauso.
Il giudizio di Appello svoltosi 7 anni
dopo i delitti, vide la richiesta della
conferma della condanna all’ergastolo, da parte della pubblica accusa, per il Maione, ma la Corte,
dopo le arringhe difensive, che
invocarono “pietà” per quel misero bracciante agricolo, e dopo 5 ore di
permanenza in Camera di Consiglio, concesse le attenuanti generiche e lo
condannò “soltanto” a trenta anni di galera.
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