Vostro
onore lavora 1.560 ore l’anno che fanno 4,2 ore al giorno. Ma, quando arriva al
vertice della carriera guadagna quasi il quintuplo degli italiani normali. Gli
esami per le promozioni sono una farsa: li supera il 99,6 per cento dei
candidati. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha assolto persino il
giudice sorpreso con un minorenne nei bagni di un cinema. Secondo la sentenza,
costata allo Stato 70 miliardi di lire, era “innocente” perché tre anni prima aveva sbattuto la
testa. L’Immagine pubblica della
Magistratura italiana: “lenta”, “persecutoria”, “ridicola”, “superficiale”,
“caotica”, “politicizzata”.
La
scomoda verità sui 9.116 uomini che controllano l’Italia: gli scandalosi
meccanismi di carriera, gli stipendi fino all’ultimo centesimo, i ricchi
incarichi extragiudiziari, le pensioni d’oro, la scala mobile su misura, gli
orari di lavoro, l’incredibile monte-ferie, i benefit dei consiglieri del Csm.
E, parola per parola, le segretissime sentenze-burla della Sezione disciplinare capace di
assolvere perfino una toga pedofila.
Stefano Liviadotti, giornalista de L’Espresso
– autore del pregevole best seller “L’altra casta. L’inchiesta sul sindacato”, è tornato in libreria con un lavoro
sconvolgente che ha messo a nudo, purtroppo, la gravissima realtà in cui si
trova la magistratura italiana ( il fortissimo terzo potere dello Stato )
scoprendo le “pecche” ( io direi le “pacche” del culo ) di moltissimi giudici: “L’Ultracasta” “Quella dei giudici, e dei pubblici ministeri,
- è scritto nel seconda di copertina edito da Bompiani - “infatti, è la madre di tutte le caste. Uno
stato nello Stato, governato da fazioni
che si spartiscono le poltrone in base a una ferrea logica lottizzatoria
e riescono a dettare l’agenda della politica. Un formidabile apparato di potere
che, sventolando spesso a sproposito il sacrosanto vessillo dell’indipendenza e
facendo leva sull’immagine dei tanti magistrati-eroi è riuscito a blindare la cittadella della
giustizia, bandendo ogni forma di meritocrazia e conquistando per i propri
associati un carnevale di privilegi. Per
la prima volta, cifra per cifra, tutta la scomoda verità sui 9.116 uomini che
controllano l’Italia: gli scandalosi meccanismi di carriera, gli stipendi fino
all’ultimo centesimo, i ricchi incarichi extragiudiziari, le pensioni d’oro, la
scala mobile su misura, gli orari di lavoro, l’incredibile monte-ferie, i
benefit dei consiglieri del Csm. E, parola per parola, le segretissime
sentenze-burla della Sezione disciplinare
capace di assolvere perfino una toga pedofila”.
Per
capire come sia considerata la magistratura in Italia basta leggere “L’Immagine pubblica della Magistratura
italiana” un tomo di 399 pagine pubblicato nel 2006. Gli aggettivi più
usati sono: “lenta”, “persecutoria”,
“ridicola”, “superficiale”, “caotica”, “politicizzata”. Colpa, è opinione
diffusa, anche della scarsa preparazione
dei magistrati.
A
Roma si sono tenute settanta udienze di un processo penale con un imputato
defunto. In Sicilia una causa sulla proprietà di alcuni terreni è iniziata
all’epoca del congresso di Vienna e si è conclusa dopo 192 anni. Nel 2007 il
Tribunale Amministrativo Regionale ( Tar) della Sardegna reintegrava nel suo
posto di lavoro un insegnante di educazione artistica che era stato licenziato
per assenteismo 1996. Si era suicidato l’anno successo. Al Tar lo hanno
scoperto solo quando la notizia è uscita sul giornale undici anni dopo.
Certamente non da promozione il comportamento di un altro giudice del Tribunale
di Taranto il quale il quale ha convocato l’ennesima udienza del processo per
il fallimento appartenuta a tale Osvaldo Salatino. “Il giudice dà atto”, ha
scritto con tono seccato, “che né il fallito né alcun creditore sono comparsi”.
Bastava dare un’occhiata agli incartamenti processuali dove la di lui moglie
veniva indicata come vedova Salatino…
A
Natale del 2008 la signora M.B. ha ricevuto nella sua abitazione di Palestrina
un avviso di cancelleria. Convocava per gennaio suo figlio F., già condannato
per furto davanti al Tribunale del riesame di Piazzale Clodio. Era successo che
una stazione dei carabinieri della zona aveva manifestato preoccupazione per la
presunta pericolosità di F. e un giudice s’era risolto ad avviare un
procedimento per stabilire se meritasse una qualche misura cautelare, tipo
l’obbligo di firma o il divieto di andarsene a zonzo durante la notte. Il
ragazzo si sarebbe dovuto difendere, dall’accusa di rappresentare una minaccia.
Solo che non avrebbe mai potuto farlo. Perché era morto, stroncato da
un’overdose, quasi due anni prima.
Diciotto minuti… e la seduta è tolta
E’
la durata media delle udienze penali. Solo tre su dieci si concludono con una
sentenza. Tutte le altre vengono rinviate. Di quattro mesi e mezzo. E una volta
su 4 per colpa delle toghe. Ecco perché si sono accumulati 3 milioni e 262 mila
processi. Mentre nei tribunali francesi l’arretrato non sanno nemmeno cosa
sia. Al tribunale di Roma ( ma non solo
) è stato constatato ( dall’autore del libro )
che le udienze iniziano spesso
dopo il tempo stabilito, che i testimoni sono convocati alle nove per essere
sentiti, quando va bene alle 12, che il 70% delle udienze finisce con un rinvio
a causa degli errori procedurali dei magistrati. Alla lentezza del sistema si
somma la sciatteria di chi l’amministra sapendo che non sarà mai chiamato a
rispondere delle proprie cantonate. Così si può finire in galera per un errore
di traduzione. Essere rilasciati per una distrazione del pubblico ministero. O
farla franca grazie ad una semplice omonimia. Secondo un sondaggio pubblicato
su “Panorama” del 10 gennaio 08, l’89,7 % degli italiani ritiene necessario
spedire a casa i magistrati che risultano troppo lenti e provocano così
scarcerazioni per decorrenza dei termini.
“Scarsa
produttività. Alta disorganizzazione”, recitava il 5 marzo del 2009 l’inchiesta
di copertina dell’Espresso ( Processo ai giudici ) e chiariva: ”I giudici dei
tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno nel 2001 a soli 533
nel 2006. E’ come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca
di dare un peso alla statistica allora diventa ancora più grave la frenata
delle corti di appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145”.
Il premier? “Un fesso”. E i poliziotti?
“Imbecilli” Straparlano. Sui giornali.
In televisione. Nelle manifestazioni pubbliche. Rovesciando insulti su
chiunque. Sui colleghi e sulla giustizia. Sul governo come sulle forze
dell’ordine.
Il
premier? “Un fesso”. E i poliziotti? “Imbecilli” Straparlano. Sui giornali. In televisione.
Nelle manifestazioni pubbliche. Rovesciando insulti su chiunque. Sui colleghi e
sulla giustizia. Sul governo come sulle forze dell’ordine. Ma il Csm riesce
sempre a trovare un buon motivo per assolverli. Salvo quando il bersaglio delle
contumelie diventa proprio Palazzo dei Marescialli. Una lettura che i
magistrati italiani non si perdono proprio mai è quella dei “Quaderni del
Consiglio superiore della magistratura” sulla disciplina. In quelle pagine
hanno trovato, nero su bianco, l’elenco dei loro doveri: correttezza,
diligenza, imparzialità, operosità. Il riserbo, quello veniva per ultimo. E
dunque, si sono detti, era certamente il meno importante. Così, hanno deciso in
massa di ignorarlo. Per rendersi conto della coerenza con cui hanno applicato
la scelta ai loro comportamenti di tutti i giorni occorre armarsi di una lente
d’ingrandimento e andare a curiosare tra le note di uno strabiliante torno di
591 pagine, intitolato La libertà di espressione dei magistrati. Sostiene
l’autore, Sandro De Nardi: “Se a fronte di singolari esternazioni poste in
essere in occasione dell’espletamento di funzioni giudiziarie si negasse
qualunque forma di sindacato e di eventuale responsabilità disciplinare al fine
di non compromettere l’indipendenza funzionale degli esponenti dell’ordine
giudiziario, questi ultimi diventerebbero una casta di intoccabili: il che non
sarebbe concepibile in base alla nostra Costituzione”. Ha scritto nel 1984
Giuseppe Ferrari, costituzionalista, professore emerito di diritto pubblico ed ex
membro del Csm e poi della Consulta, in Soliloquio sulla magistratura:
“Assolutizzando e dilatando il principio dell’indipendenza dei giudici si
perviene all’intoccabilità dei magistrati. Questi, quando amministrano la
giustizia, è in nome dell’indipendenza che non possono essere perseguiti, per
abnormi che siano i loro provvedimenti e sgangherate le relative motivazioni
E...] E, quando non amministrano la giustizia, allora è in nome della libertà
di manifestazione del pensiero che si perpetua l’intoccabilità”. È esattamente
ciò che succede in Italia, dove i magistrati straparlano. Inondando tutti i
giorni di interviste gazzette di ogni risma. Non resistendo all’irrefrenabile
impulso di pararsi davanti a qualunque telecamera risulti a tiro. E facendo a gara
a chi la spara più grossa. Sicuri di poter contare, sempre e comunque, sulla
comprensione della sezione disciplinare. Negli ultimi decenni, una sola delle
tante toghe linguacciute ci ha rimesso la poltrona, destituita il 19 marzo del
2004, ma non aveva solo violato il riserbo. Il tipo in questione, “già
condannato per corruzione aggravata in atti giudiziari, perseguendo interessi
personali di natura patrimoniale attraverso una condotta del tutto contraria ai
suoi doveri istituzionali, aveva accettato da un noto imputato (dei reati di
associazione camorristica ed estorsione continuata e aggravata) di rivelare i
contenuti della camera di consiglio del collegio giudicante di cui faceva parte
come giudice a latere e s’era impegnato a suggerire la strategia processuale
più utile per pervenire all’assoluzione del suddetto imputato e dei suoi
associati”. Diciamo pure che buttano fuori era stato davvero inevitabile. Ma in
quasi tutti gli altri casi il Csm, in un modo o nell’altro, ha trovato la
strada per assolvere i magistrati. Anche quelli che hanno divulgato particolari
delle istruttorie a loro affidate, così contravvenendo alla circolare del
consiglio del 22 aprile 1966. Aveva detto l’allora presidente della repubblica
Scalfaro davanti all’assemblea plenaria del 9 luglio 1998: “Non ho mai visto
arrivare a termine una procedura per violazione di segreto istruttorio”.
Abbiamo già visto la storia di quello che l’ha passata in cavalleria perché,
semplicemente, secondo i giudici dei giudici, non si rendeva conto di ciò che
andava esternando. Ma ce ne sono ben altre. Come quella del magistrato che,
commentando una proposta sulla liberalizzazione delle droghe leggere, aveva
insultato alcuni parlamentari (tranne poi correggersi in una successiva
intervista): “Non commette illecito,” ha deciso la disciplinare, “allorquando
le espressioni usate [definite dal Csm stesso ‘inopportune e poco meditate’]
appaiono fortemente condizionate dal suo appassionato impegno professionale
nello specifico settore”. In un altro caso, il comportamento poco urbano di
Vostro Onore è stato addirittura giustificato “dall’esuberanza legata alla
giovane età”. Aspettando che un giorno, chissà, il magistrato sbarbatello metta
giudizio pure lui, quelli della sezione intanto hanno assolto anche un suo collega
che aveva “inserito in un provvedimento giurisdizionale riferimenti capaci di
offendere la reputazione di terzi estranei”. Nella motivazione, gli uomini del
Csm hanno superato se stessi, e pure Niccolò Machiavelli: “[Gli insulti] erano
necessari e, quantomeno, utili all’economia complessiva dell’atto processuale”.
Come spiega Carlo Guarnieri, ordinario di sistema politico italiano e sistemi
giudiziari comparati a Bologna (L’indiperndenza della magistratura), in Francia
c’è la cosiddetta “obligation de réserve”: l’articolo 10 dello Statut de la
magistrature recita che “ogni manifestazione di ostilità al principio e alla
forma di governo della repubblica è proibita ai magistrati, come del resto ogni
dimostrazione di natura politica incompatibile con la riserva che impone la
funzione che esercitano”. In Italia la giurisprudenza della sezione
disciplinare del Csm insegna che le cose vanno in un altro modo. È stato
assolto il magistrato collaboratore di un giornale che, rispondendo
privatamente a un lettore denunciato per possesso di armi da guerra, aveva
coperto di insulti sia la polizia (“banda di ignoranti e di imbecilli... crassa
ignoranza... una tale bestialità”) sia il perito del tribunale (“un
imbecille”). Assolto anche il magistrato che aveva distribuito, all’interno
degli uffici giudiziari, un volantino su un pubblico dibattito con allegati due
scritti di un prete operaio prossimi all’istigazione a delinquere: “Occorre
demolire il sistema puntellato da giudici e polizia e perfino dalla chiesa. Occorre
far sparire i padroni e creare una nuova società con una giustizia diretta dal
popolo E...] Bisogna affrettare l’abbattimento dei padroni, l’abbattimento di
questa giustizia”. Assolta la toga che aveva definito quello di Giuseppe
Pinelli “suicidio per conto terzi” e parlato di Luigi Calabresi come del
“commissario finestra”. Quelli della sezione hanno riconosciuto, bontà loro,
che “alcune espressioni impiegate davano prima facie l’impressione di aver
superato il limite che gli esponenti dell’ordine giudiziario dovrebbero
rispettare allorquando esercitano la loro libertà di manifestazione del
pensiero”. Poi, però, hanno spiegato: “Tuttavia bisogna valutarle tenendo
conto… (…) del particolare clima di scontro che aveva caratterizzato quegli
anni”. Assolto pure il magistrato che, riferendosi all’epoca del terrorismo,
aveva scritto sul “manifesto” in un pencolante italiano: “Già oggi è una realtà
che questo tipo di processi possono trattarli soltanto quei giudici
culturalmente attrezzati ad accettare senza obiezioni la rinuncia a ogni
elementare cautela giuridica quando si tratta di incarcerare presunti
terroristi”. Gli aguzzini, insomma. “L’affermazione, pur potendo essere letta
come offensiva dei magistrati che trattavano processi di terrorismo,” si legge
nella sentenza, “rappresentava certamente un’opinione critica, certamente
sgradita, ma liberamente manifestabile, anche da parte di un magistrato, in
virtù dell’articolo 21 della Costituzione”. Nessuna sanzione neanche per il
presidente del Tribunale del riesame di Lecce, che, in un messaggio di posta
elettronica inviato a venti colleghi, e finito sulle pagine di un quotidiano
locale, chiamava l’allora (come oggi) presidente del consiglio, Berlusconi,
“Silvio Banana”, definendolo “decisamente fesso” e invocava “una commissione
d’inchiesta, pubblica e trasparente, sul rincoglionimento degli italiani”. Idem
per il procuratore della repubblica che, impegnato in un’indagine sull’utilizzo
di minorenni nella realizzazione di materiale pornografico, in un guazzabuglio
di dichiarazioni si spingeva fino a dire: “In Italia esiste, ed è innegabile,
una vera e propria lobby dei pedofili, che è appoggiata anche da molti
esponenti di partiti politici (…) i ministri Bianco, Fassino e Turco E...]
sembrano voler escludere in ogni modo che il materiale pedopornografico sia
prodotto in Italia” (“si era in sostanza trattato soltanto,” hanno sentenziato
alla disciplinare, “di un modo di richiamare l’attenzione anche delle altre
istituzioni su un fenomeno presentato spesso alla pubblica opinione senza la
doverosa sottolineatura della sua gravità”). E stesso trattamento anche per il
consigliere della corte d’appello di Genova che, di nuovo riferendosi a
Berlusconi e ai suoi ministri, dichiarava in un’intervista: “Questo squallido,
pessimo governo sta distruggendo la struttura stessa del paese, la sua
immagine, il suo futuro (…) adesso tiriamo via questa brutta gente. E un
impegno che ho preso e non mi sembra poco”. A quelli del Csm, invece, è
sembrato poco. Addirittura, non è stata proprio esercitata l’azione
disciplinare per il caso del consigliere della corte d’appello di Torino
(finito peraltro sotto processo penale) che, come direttore di un periodico,
aveva dato il via libera alla pubblicazione di un articolo sul processo
Eichmann dove era scritto: “Il popolo ebraico, in quanto tale, dovrebbe
ritenersi deicida e conseguentemente amorale e perciò indegno di giudicare
chiunque”. E la sezione disciplinare ha continuato a sonnecchiare pure sulla
vicenda del giudice istruttore che, partecipando a una trasmissione televisiva
gestita da un partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva accusato
le istituzioni repubblicane di “atteggiamento criminale” e “persecuzione” nei
confronti dei fascisti. Tranne risvegliarsi dal torpore quando un incauto
magistrato le aveva tirato contro una sventagliata di mitra per la decisione di
condannare alcuni esponenti dell’ordine giudiziario risultati iscritti alla
loggia P2. Parlando con un cronista dell’agenzia Ansa, la toga ci aveva messo
il carico da novanta: “Si tratta, per quanto mi riguarda, di un tipico atto di
ferocia istituzionale da dilettanti del potere. Nell’indifferenza dei
garantisti, la lottizzazione di condanne e assoluzioni chiude questa caccia
alle streghe in base a norme retroattive dopo un processo illegale davanti a un
organo fuori legge. Con questi ingredienti la cucina di Palazzo dei Marescialli
non poteva che sfornare pietanze da pattumiera”. Questo sì, l’hanno condannato.
Quando ci vuole, ci vuole. I magistrati italiani si ritengono liberi di
esprimere i giudizi che meglio credono e su chicchessia. Ma se qualcuno se la
prende con loro, diventano permalosi come le scimmie. Quando il procuratore
generale di Ancona, G.D., ha pubblicato sul suo blog 43 sentenze con clamorosi
svarioni e salti logici (tipo: “si concedono le attenuanti generiche perché
l’imputato è africano e l’Africa è povera”) è successo il finimondo. L’Anm ha
convocato un’affollatissima assemblea e il caso è finito, per sospetta
incompatibilità ambientale, direttamente al Csm, che in un soprassalto di
dignità s’è dichiarato incompetente, rimettendosi alle decisioni del ministro e
del procuratore generale della cassazione. Non senza aver prima stigmatizzato
“la caduta di stile”. E si trattava di un collega. Figuriamoci quando la
critica arriva da una controparte. Ne sanno qualcosa gli avvocati, difensori di
T.M., agli arresti domiciliari nella casa di Poggiomarino, senza alcuna
restrizione agli incontri e ai contatti con persone estranee al nucleo
familiare. Il padre di T.M., che abitava a pochi metri di distanza, era stato
fulminato da un ictus e i legali avevano chiesto al giudice per le indagini
preliminari di autorizzare il loro cliente a vegliare la salma e a partecipare
al funerale. Il Gip aveva risposto asciutto: “Visto si autorizza il T. a
presenziare ai funerali del padre per il tempo strettamente necessario e con
scorta”. La veglia, quella no. Negata. Incomprensibilmente, dato che T., in
casa sua, poteva incontrare chi voleva. Così, gli avvocati si erano rivolti al
presidente del Tribunale di Torre Annunziata, al vicepresidente del Csm e al
ministro della giustizia, chiedendo loro di valutare un’eventuale azione
disciplinare. Nell’esposto, il provvedimento di diniego dell’autorizzazione (e
non il suo firmatario) veniva qualificato come “odioso, disumano, sconcertante
e gratuitamente contrario al senso di umanità”. Il magistrato ha immediatamente
presentato querela per diffamazione, vincendo in primo grado. Poi, in appello,
gli avvocati sono stati assolti, ma è comunque stato riconosciuto a loro carico
l’“eccesso colposo nell’esercizio del diritto di critica per il superamento del
limite della continenza per l’imprudenza dovuta allo stato emotivo”. Allora
hanno deciso di andare avanti fino alla cassazione. Che si è pronunciata il 20
gennaio 2009, respingendo il loro ricorso. Ha scritto la corte, e cioè i
colleghi del magistrato denunciante: “Non c’è dubbio che i provvedimenti
giudiziari possono essere oggetto di critica, anche aspra, in ragione
dell’opinabilità degli argomenti che li sorreggono, ma non è lecito trasmodare
in critiche virulente, concretanti il dileggio di colui che li ha redatti”. Nel
1983, racconta Mellini (Il golpe dei giudici), C.M., sostituto di una procura
del Sud, aveva ricevuto un rapporto della Digos dove si escludeva che un certo
gruppo potesse essere autore di alcuni volantini eversivi. “Letto il rapporto e
ritenuto che il collettivo studentesco si dovesse identificare con quello che
aveva emesso il volantino (cioè esattamente il contrario di quanto affermato
nel rapporto) il sostituto ordinava la cattura di sei giovani [...] con
l’imputazione di apologia di reato e associazione sovversiva. Il provvedimento
veniva revocato dal Tribunale della libertà e dal giudice istruttore.” A quel
punto, il fratello di uno degli imputati, avvocato, aveva provocatoriamente
proposto al tribunale un’istanza d’interdizione per infermità mentale del
magistrato. L’autorità giudiziaria non si era limitata a respingerla
(giustamente, almeno dal punto di vista giuridico), ma aveva proceduto “contro
l’avvocato nientemeno che per calunnia, con emissione di un mandato di cattura
che i carabinieri erano andati a eseguire al Tribunale di Milano, dove il
legale stava sostenendo una causa”. Anche questo provvedimento era stato poi
revocato dal Tribunale della libertà, ma la vicenda è istruttiva. Sempre più
spesso, quando qualcuno le attacca, le nostre toghe corrono a chiedere la
protezione dell’intero Csm. E il meccanismo delle cosiddette “delibere a
tutela”. Spiega De Nardi: “A partire dalla metà degli anni settanta sono stati
davvero numerosi i pronunciamenti con cui il consiglio superiore è
pubblicamente intervenuto per tutelare vuoi singoli magistrati vuoi interi
uffici giudiziari E.. .1 da attacchi denigratori e calunniosi E...] le
deliberazioni in parola. hanno subìto una vera e propria impennata nell’ultimo
quindicennio. Alla luce della scrupolosa ricognizione che abbiamo tentato di
effettuare, pare che le deliberazioni a tutela approvate dal 1976 e sino ai
nostri giorni siano le seguenti”. L’elenco occupa 25 pagine, fitte. Il tenore è
questo: “Gli atti dei magistrati possono certamente essere discussi e
criticati, le soluzioni giuridiche da essi adottate possono essere contestate,
le loro ipotesi accusatorie possono risultare infondate, ma, comunque, non
possono essere mai adoperate, sotto il pretesto della libertà di critica,
espressioni oltraggiose verso il singolo magistrato o vilipendiose dell’intero
ordine giudiziario”. Non sia mai.
UNA
CARRIERA A PROVA DI ASINO
I
magistrati sono l’ultima corporazione rimasta intatta. Hanno conservato tutti i
poteri e i privilegi. Formano la lobby più forte nel paese. Giampaolo Pansa, 14
dicembre 2008 Nel mondo dorato di Sua Eccellenza Le paghe più alte d’Europa. Le
pensioni d’oro. E 51 giorni di ferie l’anno. Sono i privilegi di un sistema
unico al mondo. Dove si avanza in base alla sola anzianità. E dopo 28 anni
tutti raggiungono lo status di magistrato di cassazione con funzioni direttive.
Anche i brocchi rimasti sempre in un tribunale di provincia. “Tratto
caratteristico che emerge dalla lettura dei tremila elaborati è, invero, la
palese inettitudine della maggioranza dei candidati al componimento scritto,
riscontrabile anche in parecchi di coloro che hanno ottenuto l’ammissione. I candidati
non sanno esprimersi in modo chiaro e in forma passabile E...] Buona parte dei
temi sono così poveri da stentare a credere che gli autori legittimamente si
fregino del titolo di dottore in giurisprudenza. Di fronte a parecchi di essi
si sarebbe tentati di interdire in perpetuo ai redattori l’accesso ai pubblici
concorsi.” Lo spietato giudizio è contenuto nella relazione del presidente
della commissione d’esami per l’ingresso nella magistratura indetto nel marzo
del 1986. E passato quasi un quarto di secolo, ma la situazione è cambiata solo
in peggio. L’ultima selezione, nel novembre del 2008, ha trasformato i locali
della Fiera di Rho in una casbah dove sono state sequestrate decine di codici
non consentiti, ma regolarmente timbrati dal ministero, e per 65 candidati è
scattata l’espulsione. Stesso provvedimento, come si legge nelle Otto pagine
della relazione inviata al ministero dal presidente Maurizio Fumo, anche “per
un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta
tra la biancheria intima”. Il Csm ha archiviato la pratica. Tutto regolare. Era
un concorso truffa ma il Csm non l’annulla, ha titolato “il Riformista”,
Un’indignazione sacrosanta, ma fin troppo ingenua. L’esame d’accesso alla
professione delle toghe è da sempre poco più che una pagliacciata. L’ha
dimostrato, anni fa, il solito Di Federico, dio lo protegga, ché se un giorno
lo beccano a passare con il semaforo rosso i magistrati gli danno direttamente
l’ergastolo. Il diabolico professore bolognese ha scovato 500 candidati che, in
attesa di conoscere i risultati, del primo concorso al quale avevano
partecipato, si sono sobbarcati anche la fatica del successivo. Ebbene, il 60%
di coloro che in seguito sarebbero stati dichiarati vincitori della prima
prova, e quindi accolti nella casta della magistratura, non ha superato gli
scritti della seconda. “Si può quindi dire con tutta sicurezza che E...] il
concorso non è adatto a distinguere i candidati che hanno le qualificazioni
volute da quelli che non le hanno,” ha concluso il professore emerito. Un esame
in cui la maggioranza dei promossi debba la sua performance al caso, proprio
come in una lotteria, non è una cosa seria. Ma c’è, in questo, una coerenza.
Perché il concorso è solo il primo gradino di un’intera carriera che negli anni
i magistrati sono riusciti a rendere davvero a prova di asino. Un giorno una
leggina ad hoc, quello dopo una circolare furbetta del Csm, alla fine hanno
messo a punto un sistema praticamente infallibile. Dove, bandita di fatto ogni
forma di controllo e abolita qualunque meritocrazia, si sale gradino dopo
gradino la scala gerarchica grazie al mero scorrere del tempo, in base alla
semplice anzianità di servizio, arrivando al vertice (magistrato di corte di
cassazione con funzioni direttive superiori) esattamente (e immancabilmente)
dopo 28 anni. E dove, nella scelta dei dirigenti, se un candidato ha 6 anni in
magistratura più di un altro deve essere prescelto a meno che non sia
“inadeguato”, o che quello meno esperto abbia “spiccatissime doti
professionali”, quindi sia una specie di genio. Ha detto Sabino Cassese a
proposito del pubblico impiego in generale: “Chi vuole, lavora; chi no, se ne
astiene”. E una fotografia che ben s’adatta al mondo delle toghe. Ci si può dar
da fare, sgomitare, magari ottenere la raccomandazione giusta e guadagnare
incarichi di sempre maggior impegno e prestigio. Oppure limitarsi a scaldare la
sedia, già con ciò facendo danni; ma, e questo è l’aspetto davvero incredibile,
comunque con la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di
status e di busta paga. Si tratta, con ogni probabilità, di un caso unico al
mondo. Il giudice italiano, o il pubblico ministero, sa con certezza che, se
non prende un abbaglio madornale o non si fa sbattere in galera, finirà la sua
carriera con il rango di magistrato di cassazione con funzioni direttive e
tutti in coro a chiamarlo Eccellenza. Anche se è un brocco ed è rimasto tutta
la vita a scartabellare fascicoli nel tribunale di un paesino sperduto, dove il
reato più grave è il furto di pecore. Sarebbe come se tutti i giornalisti
iniziassero il loro mestiere in cronaca nera sapendo che forse resteranno per
sempre inchiodati a leggere i mattinali delle questure, ma comunque chiuderanno
in bellezza, con la posizione, lo stipendio e la pensione di direttore del
“Corriere della Sera”. Alzi la mano chi non ci metterebbe la firma. In sede di
Costituente ci si pose il problema se inserire nella carta un espresso
riferimento al trattamento economico delle toghe. Prevalse l’orientamento
contrario, ma fu comunque approvato un ordine del giorno: “L’assemblea,
convinta che l’indipendenza della magistratura non potrà essere conseguita se
non si assicuri al magistrato anche l’indipendenza economica, che gli consenta
completa serenità di lavoro, ritenendo che, data la delicatezza e l’importanza
sociale della sua funzione, sia giusto che ciò non venga dimenticato mentre si
prepara la Costituzione dello stato, indica alla camera legislativa la
necessità di una concreta soluzione”. Il parlamento ha preso il tutto in
parola. O, meglio, è stato costretto. Sempre più spaventato dal potere delle
toghe, infiltrate fin dentro le sue stanze, e incessantemente lavorato ai
fianchi, ha ceduto negli anni praticamente a tutte le loro richieste e ai veti sempre
più insistenti. E le rare volte che ha cercato di resistere è stato indotto ad
assai più miti consigli. Oggi i magistrati italiani guadagnano un pozzo di
denaro. Le loro paghe, le più alte di tutta l’Europa continentale (quelli al
vertice prendono il doppio dei colleghi francesi), sono blindate da un sistema
di scala mobile che non esiste altrove. Con buona pace delle sentenze in
perenne ritardo, le toghe possono facilmente arrotondare il già pingue
stipendio con gli incarichi extragiudiziari. Se lo vogliono, hanno diritto a
ritardare l’età della pensione fino a 75 anni, dieci in più che in Francia e in
Germania (con il risultato che già nel 2002 l’assegno medio di quiescenza era
pari a 6000 euro per 13 mensilità e la liquidazione arrivava a 330.226 euro).
Quanto a ferie, detengono un vero record: 51 giorni l’anno, che erano
addirittura 60 fino al 1979. Hanno, insomma, tutti i migliori motivi per
raggiungere quella serenità che tanto stava a cuore ai costituenti. Il problema
è che dei manager hanno solo lo stipendio e i benefit: affidato alle cure dei
magistrati, il sistema giustizia è andato a rotoli. Mentre loro continuavano a
piagnucolare per ottenere ancora qualcosa in più. “Non bisogna cadere nel
rischio che si possa ingenerare l’erronea convinzione della sussistenza di
privilegi, che potrebbe arrecare discredito all’immagine della magistratura,”
ha scritto, il 23 gennaio del 2007, con penna non proprio scorrevole e
involontario umorismo, la allora segretaria generale del Csm Donatella Ferranti
(ora capogruppo del Pd alla commissione giustizia di Montecitorio). Un tempo
quella delle toghe era una carriera tosta per davvero. Nel 1965 erano in tutto
6882. Il 65,7% di loro, pari a 4523, stava nelle due fasce più basse della
scala gerarchica, quelle che raggruppavano magistrati di tribunale, aggiunti
giudiziari e uditori. Solo 1780 erano in appello. E ad appena 493 era riuscito
di arrivare a sedere in cassazione. La selezione era dunque durissima. Nelle
commissioni di concorso per i liveffi più elevati gli esaminatori venivano
scelti nel top della categoria e giudicavano soprattutto sulla base degli atti
giudiziari dei candidati. Raramente si passava al primo turno. Comunque, i
bocciati rischiavano addirittura di essere buttati fuori. E quelli che passavano
l’esame finivano in una graduatoria: se i posti disponibili erano 100 e
risultavano idonei in 1000, allora per gli ultimi 900 di loro si era trattato
solo di fatica sprecata. Dovevano ripresentarsi al concorso successivo. E
incrociare le dita. Quanto la scrematura fosse efficace lo dimostrano i dati
raccolti da Di Federico: tra il 1952 e il 1962, il 52,2% dei magistrati è
andato in pensione avendo (spesso da poco) raggiunto il grado di appello.
Addirittura il 2,2% ha appeso la toga al chiodo quando era ancora fermo al
primo scalino, quello del tribunale. 1125,6% è riuscito a chiudere la carriera
in cassazione. E appena 1 magistrato su è arrivato alle funzioni direttive
superiori della suprema corte (come tuttora accade negli altri paesi
dell’Europa continentale).
Todos
Caballeros
La
farsa del tirocinio, al termine del quale nessuno viene mai bocciato da dieci
anni. E quella degli esami per gli avanzamenti di carriera, dove si registra il
record mondiale dei promossi: il 99,6%. Ecco perché, mentre il ministro di
turno si voltava dall’altra parte, il 67% delle toghe ha conquistato un ruolo
superiore alle funzioni svolte. Poi, tra il 1966 e il 1973, il combinato
disposto di due leggi ben congegnate, note come Breganze e Breganzone e
relative alle promozioni all’appello e alla cassazione, ha assestato un colpo
mortale al sistema. Entrambe, riaffermando ovviamente la necessità di
valutazioni di professionalità sempre più rigorose, hanno fatto fuori le
commissioni d’esame composte dagli alti gradi della magistratura e affidato il
compito direttamente al Csm. E introdotto, in base a una logica davvero
stringente, il cosiddetto “ruolo aperto”. Vuol dire che, se si liberano 100
posti di magistrato d’appello e alla valutazione vengono promossi in 1000, gli
ultimi 900 in graduatoria, quelli che non ottengono la poltrona, in attesa che
si liberino altri posti continuano sì a esercitare le funzioni che già
svolgevano, ma con un rango, e uno stipendio, più alti. Uno schema, quello
ideato da Uberto Breganze, avvocato vicentino e parlamentare Dc, molto più che
semplicemente demenziale. Dove, a quel punto, diventava ancor più decisivo il
baluardo di una selezione a maglie strette. Ma, se già prima era stato lecito
nutrire più che seri dubbi sull’opportunità di affidare il delicato compito
all’organo di governo della stessa magistratura, tanto più il discorso vale a
partire dal 1967, anno della seconda riforma del sistema elettorale del
consiglio. Fino a quel momento, i magistrati dei diversi livelli di carriera
avevano eletto separatamente i loro rappresentanti al Csm e quelli di grado più
elevato erano stati nettamente sovrarappresentati, con l’assegnazione di 10
seggi su 14 (le toghe dei tribunali, pur costituendo il 68% dell’intero corpo
elettorale, ne detenevano solo 4). Insomma, a comandare erano i vertici della
piramide. Punto e basta. Con la riforma del 1967, che eliminò il voto separato
per gradi, la base (cioè le toghe di rango più basso) si ritrovò in mano un
grande potere: senza il suo consenso, quelli dei gradi più alti non sarebbero
mai stati eletti. Non ci fu troppo da attendere per poter cogliere i primi
riflessi del processo di democratizzazione del Csm sulle sue prese di
posizione. Una prima piroetta destinata ad avere effetti devastanti si registrò
nell’arco di un solo anno. Nel 1967 il consiglio aveva stabilito, con un voto
quasi plebiscitario (è l’unanimità dei membri supertogati), che gli esami di
professionalità dovessero necessariamente basarsi sugli atti giudiziari dei
candidati (il che aveva anche l’effetto di impedire progressioni di carriera a
quelli fuori ruolo perché impegnati in altre attività, come per esempio quella
parlamentare). La base non aveva proprio digerito la decisione. E si prese la
rivincita dodici mesi dopo, quando il consiglio eletto con la nuova legge
capovolse le sue convinzioni, arrivando a sostenere, con il voto di nuovo
compatto ma di segno diametralmente opposto dei magnifici dieci, che l’analisi
di sentenze e requisitorie fosse addirittura lesiva dell’indipendenza della
magistratura. Un passaggio storico, che aprirà la strada alle valutazioni
complessive, basate su capacità, preparazione e diligenza delle toghe. Cioè
alla piena discrezionalità. E a un omertoso spirito di casta. Quando, in un
convegno milanese del 1988, Falcone ebbe l’ardire di inserire le carenze di
professionalità dei magistrati tra le cause della crisi della giustizia, nel
successivo comitato direttivo centrale dell’Anm venne presentata una mozione
che chiedeva di applicargli la censura (non fu approvata solo perché
formalmente non prevista a termini di statuto). Peggio andò, l’anno dopo,
all’ammazzasentenze Corrado Carnevale, che avanzò le stesse perplessità dalla
tribuna di una manifestazione pubblica ad Agrigento. Il procuratore della
città, che evidentemente non aveva troppo d’altro da fare, aprì contro l’allora
presidente di sezione della corte di cassazione addirittura un procedimento
penale per “vilipendio della magistratura”. La strada dell’aspirante magistrato
(un tempo doveva godere di “moralità incensurabile”, ora è sufficiente che
questa non sia “dubbia”: e c’è una bella differenza) è in discesa fin
dall’inizio, Chi si presenta davanti alla commissione d’esame, nominata
naturalmente dal Csm e composta in grandissima parte da magistrati (compreso il
presidente, sono 21 su 29), sa che se verrà bocciato non dovrà dire addio per
sempre al sogno di indossare la toga. “Non hai vinto, ritenta” diceva il
bigliettino dei gratta e vinci di un tempo. Vale anche per loro. C’è una
seconda chance. E poi anche una terza. Alla fine, chi la sfanga diventa
magistrato ordinario e deve affrontare un periodo di tirocinio lungo un anno e
mezzo, sotto la supervisione, indovinate un po’..., del Csm. Lo stage è diviso
in due periodi e al termine di ciascuno bisogna affrontare una nuova
valutazione del consiglio. Che, se non è soddisfatto, può ordinare un
prolungamento del tirocinio. E se pure al termine dei tempi supplementari
mantiene un’impressione negativa, può “disporre la cessazione del magistrato
dal servizio”. Detta così sembra una cosa seria. Non lo è affatto. “Dalla
lettura dei verbali del Csm degli ultimi dieci anni non risulta [...] vi siano
casi di valutazioni negative dei magistrati in tirocinio che abbiano
determinato la dispensa dal servizio o le ripetizioni di parte del tirocinio
stesso,” annota Di Federico. Superato lo scoglio, si fa per dire,
dell’apprendistato la nostra toga sa esattamente, come nessun altro essere
umano al mondo, cosa l’aspetta. E cioè: a 2 anni dal decreto di nomina sarà
magistrato di tribunale, a 13 consigliere d’appello, a 20 in cassazione e a 28
idoneo alle funzioni direttive superiori della suprema corte. In teoria, tutti
questi passaggi, e i relativi aumenti di stipendio, non sono affatto
automatici. Sì, perché bisogna superare la valutazione espressa dal Csm sulla
base delle indicazioni dei consigli giudiziari, che sono poi le sue succursali
locali, dove a votare sono solo i magistrati (e non anche i rappresentanti
degli avvocati). Ma i pareri che vengono dalla periferia sono sempre generosi. Anzi,
di più. “Normalmente sono del tutto appiattiti in generici contenuti elogiativi
che non forniscono alcuna indicazione sulle reali attitudini professionali del
magistrato,” scrivono Fantacchiotti e Fiandanese. Come mai l’ha spiegato con la
consueta franchezza il giudice Lima: “Da una mail inviata da un componente del
consiglio romano a una mailing list ho appreso (con indicibile stupore) che
solo da poco sarebbe stata interrotta nella capitale la prassi per la quale
l’incarico di redigere i pareri per la progressione in carriera dei magistrati
veniva assegnato di volta in volta a un collega appartenente alla stessa
corrente di quello da valutare. E inutile dire con quali conseguenze sul
sistema”. Di Federico ha pensato invece che fosse utile documentane, queste
conseguenze. “Tra il maggio del 1979 e il giugno del 1981 il Csm ha effettuato
4034 valutazioni di professionalità riguardanti i quattro livelli, dal
magistrato di tribunale a quello di cassazione con funzioni direttive
superiori: i promossi sono stati 4019 (cioè il 99,6% del totale). Solo 15 hanno
avuto valutazioni negative, tutte motivate da gravi condanne disciplinani o da
procedimenti penali pendenti. L’orientamento a effettuare le promozioni sulla
sola base dei requisiti minimi di anzianità emerge anche dall’analisi delle
9656 valutazioni effettuate negli 11 anni che vanno dal 1993 al 2003: solo 117
sono state quelle negative e 94 magistrati avevano una o più sanzioni
disciplinari o provvedimenti penali.” I dati sono più analiticamente riportati in
Recruitment, professional evaluation, career and discipline ofjudges and
prosecutors in Italy. Lo studio (sempre di Di Federico) dice che su 3307
pratiche per la promozione a magistrato di tribunale presentate nello stesso
decennio il pollice verso è scattato 3 volte. Fa lo 0,09%. Il tragico risultato
di tanto buonismo è sintetizzato nelle parole di Mellini (La fabbrica degli
errori): “Un esame delle motivazioni di una quantità sempre crescente di
provvedimenti giudiziari E.. .1 consente di constatare una sconfortante
mancanza di qualità di coloro che ne sono autori [...] il linguaggio stesso
denuncia un assai basso livello culturale [...] la grammatica è spesso
zoppicante e la sintassi alquanto vaga. I ragionamenti appaiono spesso
sconnessi, sconcertanti, addirittura grotteschi.” Secondo un’inchiesta
pubblicata su “Panorama” del 9 aprile 2009, dal 2005 il consiglio ha stoppato
solo 39 avanzamenti di carriera (ma in genere i respinti vengono promossi 2 o3
anni dopo e alla fine arrivano comunque al vertice della carriera). Tutti gli
altri candidati hanno regolarmente passato l’esame. Anche quelli che s’erano
beccati una delle rare condanne della sezione disciplinare. Come, per esempio,
G.B., magistrato d’appello in un tribunale marchigiano: “Censurata perché da
pubblico ministero aveva dimenticato di denunciare la sua incompatibilità in
procedure di aggiudicazione che potevano interessare una società di costruzioni
di cui era socia con marito e fratello,” racconta il settimanale, “ha ottenuto
ugualmente la nomina in cassazione”. Affinché scatti il semaforo rosso del
consiglio bisogna che la toga si sia messa nei guai con la giustizia. È il caso
di G.D., giudice in Liguria, cui sono stati fatali per l’accesso alla corte
d’appello due procedimenti disciplinari (con la perdita di un biennio di
anzianità), dopo altrettanti processi penali, uno dei quali l’ha condannato a
un anno e quattro mesi di carcere: “Si occupava di fallimenti,” dice
“Panorama”, “ed era stato accusato di aver fatto una nomina in cambio di 27 mffioni
di lire e della promessa di ulteriori 50. La corruzione non è stata provata, ma
diverse anomalie sì, compresa la falsificazione di un atto giudiziario”. Stesso
discorso per P.C., giudice per i minori in Basilicata, che per un banale
diverbio aveva aggredito una signora sul molo di un porto e, già che c’era,
riempito di botte il di lei marito. In un sussulto di dignità, il Csm gli ha
negato il passaggio alla cassazione: “Solo una personalità priva del
necessario, minimo equilibrio,” si legge negli atti, “può manifestarsi in una
reazione così arrogante e sproporzionata”. Una riprova di come funzionino le
valutazioni si è avuta 1115 aprile del 2009, quando 21 mafiosi del clan barese
degli Strisciuglio sono stati scarcerati perché non era mai stata depositata la
motivazione della sentenza di primo grado, emessa il 16 gennaio del 2008. Tutta
colpa di R.A.P., che tre mesi prima, sbaragliando 32 concorrenti, era stata
promossa a presidente di un tribunale per i minorenni sulla base dei seguenti
giudizi: “elevata laboriosità”, “grande attaccamento al lavoro”, “particolari”
doti organizzative. Nel gennaio del 2006 R.A.P. era arrivata all’apice della
carriera — e dello stipendio — con il riconoscimento delle funzioni direttive
superiori della corte di cassazione. Riletti oggi, i verbali dell’assemblea del
Csm che aveva dato il via libera suonano come una beffa: “I pareri in atto
confermano il giudizio di elevata capacità professionale del magistrato che,
specie nei processi di maggiore complessità come quelli in materia di
criminalità organizzata, ha assicurato una rapida celebrazione dei giudizi e un
elevato livello qualitativo del lavoro”. S’è visto. Ha ammesso il presidente
della corte d’appello di Milano, Giuseppe Grechi, in un’intervista al”
Giornale” dell’il luglio 2008: “Veniamo promossi tutti, in blocco, a plotoni
interi. Invece di una selezione effettiva, c’è una valutazione generale di
idoneità per cui alla fine 1199% quando arriva il suo turno viene promosso.” Un
dato che non può certo passare inosservato. E infatti in via Arenula sanno
benissimo come stanno le cose. Ma il ministro, che dai magistrati è di fatto
dipendente e ne è letteralmente circondato, è costretto a fare finta di nulla.
Ha scritto Di Federico in La drammatica testimonianza degli avvocati penalisti
sui diritti della difesa e le difficili prospettive di riforma: “Tali
orientamenti [del Csm] non hanno trovato sulla loro strada quei contrappesi che
la legge pur prevede e che in via principale fanno capo al ministro della
giustizia. Questi infatti deve ricevere copia di tutte le valutazioni compiute
dai consigli giudiziari sui singoli magistrati. Ha anche il potere di formulare
le sue osservazioni al Csm, che ne deve tenere conto in sede di delibera. Di
fatto, il ministro non ha mai esercitato questo suo potere. Egli infatti
potrebbe farlo solo per il tramite di un costante, accurato impegno dei
magistrati che prestano servizio presso il ministero. Non può quindi destare
meraviglia che ciò non sia avvenuto. Pretendere da chicchessia che eserciti in
tutta efficienza i propri compiti in contrasto con i propri personali interessi
non è e non può essere un efficace modello per il funzionamento di quei pesi e
contrappesi su cui si reggono le istituzioni democratiche”. Lo schema Breganze
ha fatto più danni di quello ideato nel 1925 dal finanziere italoamericano
Charles Ponzi e riproposto in chiave moderna da Bernard Madoff. Con la regolare
promozione in massa di tutte le toghe in base al solo raggiungimento del
requisito minimo di anzianità previsto dalla legge per il passaggio da un
livello di carriera all’altro, la piramide gerarchica ha finito presto per
rovesciarsi. E il numero di coloro che hanno guadagnato un grado superiore alle
funzioni realmente esercitate è diventato imbarazzante. Nel 2002 si trovavano
in questa condizione 1471 dei 1560 magistrati d’appello (pari al 94,3 % del
totale), 1509 dei 1533 di cassazione (98,4%) e 1047 dei 1137 delle funzioni
direttive superiori della suprema corte (92,1%). Un esercito di soli generali.
E la situazione non è poi di molto migliorata negli anni più recenti. Si legge
nel Libro verde sulla spesa pubblica del settembre 2007: “Nell’ambito degli
uffici giudiziari con funzioni giudicanti (corte di cassazione esclusa)
attualmente ben il 67% dei magistrati ha un ruolo, e una corrispondente
retribuzione, superiore alle funzioni svolte.” Due su tre delle tante toghe che
tutte le sante mattine dal palco di questo o quel convegno ci bombardano con
richieste di maggiori finanziamenti per una giustizia che ha le casse vuote
sono dunque pagati più di quanto sarebbe necessario. Una percentuale che sale
addirittura a quattro su cinque (e oltre) in alcuni distretti di corte
d’appello come Milano, Firenze, Trento e Genova. Non è dunque colpa del destino
cinico e baro se in Italia il 69% del budget della giustizia se ne va in
stipendi, contro il 57 % della Germania e il 47 % della Francia.
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