Accadde su una nave della
marina militare nel 1958
ASSASSINATO IL COMANDANTE
Il marinaio si scagliò sull'ufficiale addormentato
colpendolo con una sbarra di ferro ad uncino –
La tragedia a bordo
della corvetta "Pomona,, attraccata nel porto di Napoli.
L’assassino è il sottocapo segnalatore Giovanni Spaziano,
di 22 anni, da Marzano Appio in provincia di Caserta –
Condannato
all’ergastolo - pena confermata anche dalla Cassazione –
Ridotta a 30 anni in Appello
Dalla cassaforte
mancavano quattro milioni e mezzo –
La madre del nobile
ufficiale perdona il marinaio assassino
IL DELITTO
Il
cadavere del tenente di vascello marchese Cambiaso-Doria, da Genova fu trovato nella
sua cabina, con il capo squarciato da una orrenda ferita. Dalla
cassaforte mancavano quattro milioni e
mezzo. Immediate scattarono le
inchieste da parte del Comando della Marina Militare e da parte della
Procura della Repubblica del Tribunale di Napoli. La nave fu circondata da
sentinelle e all’equipaggio, consegnato, e furono prelevate le impronte
digitali. Il ministro della Difesa dell’epoca, Paolo
Emilio Taviani, incaricò un ammiraglio di accertare se il delitto era stato compiuto a scopo di rapina o di
spionaggio: nel forziere vi erano, infatti, cifrari e ordini operativi.
Il fatto, mai accaduto a memoria d’uomo nella storia
della Marina militare Italiana, si era
verificato all’alba del 24 febbraio del 1958, a bordo della corvetta Pomona, il cui comandante, tenente di
vascello era stato assassinato nel suo
alloggio a scopo di rapina. Bettino
Negrotto Cambiaso Doria, uno dei nomi più illustri della aristocrazia
genovese, aveva 36 anni. Egli stava compiendo uno speciale corso di
addestramento prescritto per tutti gli ufficiali del “ruolo di
vascello”, per questo motivo aveva ricevuto il comando della corvetta,
della stazza di 800 tonnellate, in forza alla Scuola Comando di Augusta,
dipendente dallo Stato Maggiore della Marina era giunta in rada venerdì mattina, assieme ad
altre navi, che avevano attraccato
parte al molo Pisacane nell’area
della base militare, e parte fuori al
molo del Carmine, dove appunto si trovava
la Pomona.
La scoperta del delitto avvenne la mattina alle 10. Poiché verso le 11 gli
equipaggi dovevano trovarsi radunati alla base per la celebrazione della Messa
officiata da un cappellano militare, il comandante in seconda, non vedendo
giungere nel quadrato ufficiali il tenente di vascello Negrotto-Doria,
preoccupato chiedeva al marinaio addetto all’alloggio se avesse visto il
comandante. Il marinaio precisava che il comandante non lo aveva chiamato, e
manifestava inoltre la sua perplessità per questo fatto, del tutto insolito. L’ufficiale,
allora, allarmato, si recava all’alloggio bussando più volte. Non avendo
ricevuto risposta, dopo essersi consigliato con gli altri colleghi, decideva di
fare sfondare la porta dal fabbro di bordo.
Appena aperto l’uscio, uno spettacolo
orribile si presentava: il tenente di vascello, che indossava il pigiama, giaceva
di traverso sul letto insanguinato. Sulla sua fronte vi era un orribile
squarcio che giungeva fino all’orecchio sinistro, quasi staccato. I colpi che
avevano ucciso il comandante della nave erano stati vibrati con tale selvaggia
violenza che brandelli di materia cerebrale erano schizzati intorno, macchiando
la parete a sinistra del letto. Uno sguardo nella stanza faceva capire senza
possibilità di dubbi il movente. Infatti,
nell’alloggio del comandante - come
prescritto – vi era la cassaforte blindata, un modello speciale caratterizzato
da particolari doti. La stessa
conteneva, oltre al denaro, codici cifrati e altri documenti segreti
militari. Chi aveva compiuto il barbaro omicidio doveva essere ben
pratico dell’ambiente, perché sapeva dove il comandante teneva le chiavi della
cassaforte, che apparivano infilate nella serratura: lo sportello era aperto e
data la confusione nell’interno era chiaro che qualcuno vi aveva frugato in gran
fretta. Appena constatato l’atroce fatto, il comandante in seconda ordinava che
nessuno scendesse da bordo ed informava il comandante della formazione,
capitano di vascello Eugenio Henke,
il quale immediatamente, in sicurezza, dovendo custodire la base ai poteri
conferitigli dal Regolamento, iniziava
le prime indagini, comunicando al tempo stesso l’accaduto all'Ammiragliato.
Poco dopo giungevano a bordo il maggiore
generale Bernardo Pacella, capo
della Procura Militare, insieme al sostituto colonnello Ugo Foscolo; il capitano dei carabinieri Vittorio Dolzani, comandante
lo speciale nucleo di polizia dell’Ammiragliato; il Procuratore della
Repubblica Nicola Ranieri; il medico
legale Alberto Dente e il
commissario dirigente il servizio di polizia segnaletica della Questura, Vincenzo Carfora. Le prime indagini
accertarono che la notte precedente il
comandante si era trattenuto a cena fino
alle 22 con alcuni ufficiali di altre unità in un elegante ristorante di S.
Lucia. Quando era rientrato, aveva fatto un giro sul ponte ed era stato visto
dalle tre sentinelle della Pomona
disposte due a poppa e due a prua.
Un’ispezione amministrativa, compiuta,
subito dal colonnello Ugo Pesce, del
Corpo di commissariato, accertava la mancanza nella cassaforte di circa 5
milioni di lire. La cosa strana però era
che, mentre tutte le tasche dell’uniforme del comandante ucciso apparivano rovesciate,
v’era intatta in un cassetto una borsa contenente gioielli da donna di ingente
valore, di proprietà dell’ufficiale che viveva separato dalla moglie.
La morte, secondo il medico legale,
risaliva a cinque ore prima, il che significava che il delitto era accaduto alle 5 del mattino di domenica. In
base agli ordini del capitano di vascello Eugenio
Henke che per legge, essendo il crimine accaduto a bordo, aveva i pieni poteri di ufficiale di polizia
giudiziaria, tutto l’equipaggio -
composto di 50 persone rimase consegnato. Due marinai che erano scesi alle 7 dalla corvetta per un
breve permesso erano rientrati
regolarmente. Alcune sentinelle erano state poste sulla nave, per impedire che
qualcuno scendesse e altre a terra, mentre vari motoscafi con carabinieri sostavano
sottobordo in modo da isolare completamente l’unità.
Mentre il cadavere dell’ufficiale era stato trasportato all’ospedale di Marina di
Fuorigrotta. Il capitano di vascello Henke ordinava la presa delle impronte digitali di tutti i componenti l’equipaggio
della Pomona senza distinzione di
grado.
L’ASSASSINO
IDENTIFICATO E ARRESTATO
Secondo una primo dispaccio dell’Ansa, l’assassino del tenente di vascello era un
sottufficiale arrestato nella notte. Il denaro scomparso dalla cassaforte era
stato recuperato nella casa del colpevole, che dopo il delitto era sceso a
terra in permesso. Secondo l’agenzia Ansa si trattava del sottocapo segnalatore
Giovanni Spaziano, da Marzano Appio,
in Provincia di Caserta. Da un rapido esame del registro matricolare, risultava
che nella stessa mattinata di domenica due marinai avevano lasciato la nave per
recarsi in permesso, a terra. Tra questi, il sottocapo segnalatore Giovanni
Spaziano. I carabinieri si recarono nel Comune, di Marzano Appio, nei pressi di
Caianello, dove risiedeva la sua
famiglia per perquisire la casa dello Spaziano. I militi ricercavano il denaro,
circa 4 milioni e mezzo di lire, che risultava scomparso dalla cassaforte posta
nella cabina del tenente di vascello ucciso. Questa prima perquisizione non
dava alcun risultato, tuttavia il sottocapo segnalatore veniva fatto tornare a
bordo dove nel frattempo tutto l’equipaggio era sottoposto ad un serrato
interrogatorio. Nel pomeriggio i carabinieri si riportarono nuovamente nella sua abitazione e dopo un altro
sopraluogo ritrovarono l’intera
refurtiva.
E mentre lo Spaziano accusato di omicidio a
scopo di rapina veniva trasferito nel carcere di S. Eframo, giungevano a Napoli
alcuni familiari del tenente di vascello Bettino
Negrotto Cambiaso: la madre marchesa Fiammetta
Doria, il fratello Giorgio, lo
zio Ambrogio, la marchesa Rosetta Bombrini e la signora Dora Pellegrinelli. Essi, accompagnati
dal capo di Stato Maggiore dell’Ammiragliato, capitano di vascello Fernando Goretti, si recarono all’ospedale di Marina a Fuorigrotta, dove la
salma dell’ufficiale, poi rivestita dell’uniforme scura dalla stessa madre, era
vegliata nella camera ardente da un picchetto
d’onore.
Dopo la funzione religiosa, la bara
partì diretta a La Spezia, per essere tumulata nel recinto di quel cimitero
riservato agli appartenenti alla Marina Militare. In segno di lutto tutte le
navi da guerra italiane che erano nel
Porto di Napoli tennero per un giorno la
bandiera a mezz’asta.
L’AGGHIACCIANTE
CONFESSIONE DELL’ASSASSINO DEL TENENTE
I cronisti di nera che seguivano il caso
avevano notato che alle tre di quella notte,
due velocissime auto scure erano ritornate alla caserma “Pastrengo”, in piazza Monteoliveto: dentro v’erano un ufficiale del
carabinieri, il magg. Mario De Maria,
comandante del gruppo interno; il maresciallo Aniello Belluomo, dirigente la squadra speciale investigativa e
vari sottufficiali e militi della Benemerita. Ritornavano da Marzano Appio, in
provincia di Caserta, dopo aver compiuto
una lunga perquisizione nella casa di Giovanni Spaziano. La piena
e spontanea confessione dell’assassino si ebbe poco dopo le due di quella
notte, in un ufficio della Base navale, in via ammiraglio Acton.
“Il comandante stava
dormendo: pensai di ucciderlo prima che aprisse gli occhi lo colpii con la
sbarra... Aprii piano la porta dell’alloggio. L’oblò era chiuso e coperto dalla
tenda, ma dentro la cabina v’era un chiarore fioco. Avanzai piano verso la
giacca e presi le chiavi, fra cui v’era quella della cassaforte. Fu a questo
punto che il comandante ebbe come un
gemito e si mosse. Lo guardai. Era sempre col viso girato verso la parete a
destra. Ancora un istante, però, e forse si sarebbe svegliato. Allora mi
avrebbe visto. Così, prese dallo spavento, pensai di ucciderlo prima che
aprisse gli occhi. Avevo portato con me una sbarra di ferro. Con quella lo colpii,
non ricordo quante volte...”.
La
perizia del medici legali Alberto Dente
e Vincenzo Maria Palmieri era stata precisa
su tutto: “Ben dieci colpi vibrati con selvaggia violenza sul capo del comandante
della corvetta”. Poi il “graduato”
illustrò il piano che aveva preparato per compiere il delitto. In settimana
chiese e ottenne un permesso per la giornata di domenica. La mattina del giorno
festivo, alle 5,30, dopo avere ucciso il comandante, lasciò la nave. Aveva gli
abiti spruzzati di sangue e per nascondere le macchie si pose addosso
l’impermeabile d’ordinanza, e a quell’ora, ancora col buio, nessuno lo notò. Si
recò a casa sua a Marzano Appio, in provincia di Caserta, con sotto il braccio
un fagotto. Sembrava biancheria, ma dentro c’erano 4 milioni e 600 mila lire
presi dalla cassaforte. A casa, si cambiò e all’insaputa di tutti lavò la
camicia inzuppata di sangue, lasciandola quindi in una bacinella. Nascose il
pacco di banconote nella cappa del
camino, sapendo che non lo si usava. Nella stessa giornata, alle ore 19,
ritornò a Napoli sulla corvetta. “Volevo migliorare per sempre la mia
posizione”. Questa la paradossale risposta del sottocapo Giovanni Spaziano
alla commissione istruttoria che lo interrogava chiedendogli perché avesse
ucciso il suo comandante. Il graduato ha aggiunto che, desiderando sposarsi,
aveva pensato che il colpo alla cassaforte avrebbe potuto risolvere tutte le
sue difficoltà. .
L’assassino aveva appena finito di
confessare allorquando i carabinieri si
recavano a Marzano Appio, irrompendo nella casa dello Spaziano, ove dormivano i
suoi unici parenti, il padre Alberto,
falegname specializzato nella costruzione delle botti, e la madre Emilia. Essi ignoravano tutto. Svegliati
di soprassalto, seguirono stupiti i
carabinieri che, senza esitare, frugando con un bastone nella cappa del camino,
avevano fatto cadere un involto. Apertolo, ne uscivano biglietti e biglietti di
banca di vari tagli, in tutto per 4 milioni e 600 mila lire. Poi i carabinieri,
dopo avere interrogato i due vecchi, se ne andarono via lasciandoli, là, come
inebetiti.
Nel
contempo la Procura militare della Repubblica aveva escluso la celebrazione del “processo per direttissima”, ma aveva confermato che essendo ormai tutto ben chiaro,
data l’efferatezza del crimine e l’enorme impressione che esso aveva prodotto
nell’opinione pubblica, il giudizio sarebbe stato fatto a breve, innanzi al Tribunale Militare territoriale di
Napoli. Lo Spaziano, rintracciato al suo paese,
Marzano Appio, in provincia di Caserta, quando vide giungere la macchina si
dominò molto bene, salutò il padre Alberto, che fa il falegname, e la madre
Emilia e durante il percorso fu persino gaio e loquace. Nel frattempo i
carabinieri di Marzano Appio, telefonicamente avvisati da Napoli, si recarono
dai genitori dello Spaziano e domandarono ad essi se il figlio non avesse per
caso lasciato una certa somma. I due risposero negativamente. Poiché lo
Spaziano era fidanzato con una giovinetta, Teresa
Di Bella, di anni 15, figliola di un ex-appuntato della Benemerita, si
ritenne che una domanda rivolta al vecchio carabiniere avrebbe forse avuto
maggior successo. E così fu in realtà. Il futuro suocero dello Spaziano disse
di avere saputo una strana cosa: il fidanzato della figlia aveva lasciato in
consegna a Teresa 150 mila lire,
pregandola di nascondere la somma.
Era già un indizio. Un secondo indizio fu
appreso indagando come lo Spaziano era venuto in paese, giacché di domenica le
corriere non funzionavano. Si seppe che da Napoli aveva successivamente
noleggiato due auto pagando ognuno degli autisti con un biglietto da 10 mila
lire senza prendere il resto. Come se tutto ciò non bastasse furono anche sue
le impronte rilevate nell’alloggio dell’ufficiale.
Quando il graduato tornò sulla corvetta gli si
chiese a bruciapelo quanto avesse in tasca. Rispose: “Nove mila lire”. Una perquisizione immediata permise di accertare
che nel portafogli teneva invece 32 mila lire. E ben 18 mila erano in biglietti
da 500 nuovi, tenuti fermi con una fascettina di quelle che usano gli uffici
della Tesoreria del Commissariato. Allora fu fermato. Anche per evitare reazioni
dei suoi compagni sdegnati dall’atroce crimine, si ordinò che scendesse dalla
corvetta e fu rinchiuso nella camera di sicurezza della base navale dove
proseguirono gli interrogatori.
Rivelò
tutti i particolari del piano premeditato e attuato. Egli sapeva che il
comandante la notte non chiudeva la porta del suo alloggio, tenendo le chiavi
nella serratura. Infilati i guanti d’ordinanza di pelle nera, avendo ai piedi
solo delle calze di lana per non lasciare impronte neanche sul pavimento ed
evitare ogni rumore, si armò di una pesante sbarra di ferro con punta unghiata
e ricurva usata per aprire i boccaporti incastrati dalla salsedine. Girò la
maniglia ed entrò. Nella cabina vi era un lieve chiarore proveniente dalle
mille luci del porto - globi delle banchine, fanali dei piroscafi - attraverso
il vetro dell’oblò pur chiuso e velato dalla tendina di tulio. All'improvviso,
udendo uno scricchiolio, il comandante della corvetta emise un flebile gemito e
si girò. Lo Spaziano, che s’era chiusa alle spalle la porta, vibrò il primo
colpo. L’ufficiale ebbe un sussulto, ma non potè reagire. I colpi si
susseguirono a ritmo selvaggio. Dopo un po' l’assassino si fermò ansante ed
accese la luce. Il sangue, spruzzato sulle lenzuola, lungo le pareti, sopra i
suoi stessi abiti era tanto che egli si lordò tutti i guanti. Così se li tolse
e per aprire la cassaforte senza lasciare tracce mise quelli bianchi dell’ufficiale.
Poi prese il mazzo di chiavi, le provò una ad una, trovò la buona e frugò nella
celletta blindata. V'era anche una borsa con dei gioielli. Ma preferì lasciarli
al loro posto pensando che ognuno di essi avrebbe costituito una pista. Quindi
spalancò l’oblò, gettò a mare la sbarra, i guanti, aprì la porta, la rinchiuse
e lanciò nel discarico d’un servizio igienico le chiavi.
Il resto è noto. I genitori dell’omicida,
che fino al pomeriggio ignoravano la verità - come non la conosceva ancora il
fratello Antonio, sergente carrista
a Bolzano – rimasero schiantati dal dolore.
La madre, in un momento d’angoscia, tentò di suicidarsi, lanciandosi a capofitto da un
balcone. Circa i gioielli, è stato chiarito che essi appartengono alla moglie
del comandante in seconda, il sottotenente di vascello Massimo Pirozzi. La signora, trasferendosi da Augusta li aveva
consegnati al marito perché li custodisse e questi, a sua volta, aveva chiesto
al comandante Negrotto Cambiaso di porli nella cassaforte.
LA
MADRE DELL'UFFICIALE PERDONA IL MARINAIO ASSASSINO
La
marchesa Fiammetta Doria Cambiaso,
madre dell’ufficiale, dì marina ucciso dal sottocapo Giovanni Spaziano, ha
inviato a Marzano Appio, in provincia di Caserta, una lettera di perdono per l’assassino
del figlio, diretta all’altra madre, quella dell’omicida. Il processo al
graduato non potrà svolgersi in marzo innanzi tutto perché la difesa chiederà
certamente una perizia psichiatrica d’ufficio, oltre a quella di parte. In
secondo luogo si deve risolvere un delicato problema procedurale. La legge ha modificato l’art. 264 del Codice penale
militare di pace, stabilendo che qualora una persona venga imputata per due
reati, uno di competenza della magistratura militare e l’altro di quella ordinaria, è questa che dovrà giudicare
per entrambi. La stessa legge stabilisce però che in taluni casi si può
chiedere la separazione dei processi. E poi c'è l'art. 281 del Codice penale
militare di pace, il quale precisa che se una persona viene incriminata per due
delitti, dei quali uno di competenza del Tribunale militare di bordo e l’altro
della Magistratura ordinaria, allora è il Tribunale militare territoriale che
diventa competente per entrambi. La Procura militare di Napoli ha chiesto che
il sottocapo Giovanni Spaziano venga giudicato due volte, una per insubordinazione
con omicidio davanti al Tribunale
militare competente per territorio, e una seconda per rapina dai giudici ordinari.
Si attende ora la risposta che sarà data dalla Cassazione a sezioni riunite.
RISOLTO
IL CONFLITTO DI COMPETENZA L'ASSASSINO
DEL "POMONA,, PROCESSATO IN CORTE D'ASSISE
La Cassazione ha confermato la priorità della
magistratura ordinaria su quella militare il sottocapo segnalatore verrà giudicato dalla Corte d’Assise e non
dal Tribunale militare. I magistrati delle Sezioni Unite penali della
Cassazione hanno confermato il principio - già sancito recentemente da una
decisione della Corte Costituzionale - per cui qualora vi sia connessione fra
un reato militare ed uno comune, competente a giudicare può essere soltanto l’autorità
giudiziaria ordinaria. Il problema è stato sollevato dal Procuratore militare
presso il Tribunale militare di Napoli una settimana dopo il delitto e la
identificazione del colpevole.
Giovanni Spaziano venne accusato di
insubordinazione con violenza nei confronti di un superiore (reato che è punito
dal codice penale militare con l’ergastolo e la degradazione), con l’aggravante
di essere un graduato e di aver compiuto il delitto a bordo di una nave
militare, e di rapina. Se non che i magistrati della Cassazione non sono stati
del medesimo avviso ed hanno stabilito che Giovanni Spaziano venga giudicato da
una normale Corte d’Assise competente per territorio (e cioè quella di Napoli)
perché - hanno sostanzialmente spiegato - la competenza per i procedimenti
relativi a reati comuni connessi a procedimenti relativi a reati militari
commessi da appartenenti alle forze armate è, in tempo di pace, dell'autorità
giudiziaria ordinaria.
UN
PICCOLO DEBITO TRASFORMÒ IN ASSASSINO IL MARINAIO CHE UCCISE IL SUO COMANDANTE
– IL PRIMO PROCESSO
Giovanni Spaziano sbagliò i calcoli della
spesa per il “miglioramento rancio” e
da quel momento fu tormentato dalla
necessità di restituire un centinaio di migliaia di lire.
L’otto dicembre del 1958 – dopo otto mesi
dal delitto, in Castelcapuano,
la cupa Reggia di Aragona, oggi
palazzo di Giustizia, il ventitreenne sottocapo-segnalatore, Giovanni Spaziano,
comparve dinanzi alla Corte d’Assise per
rispondere di un atroce delitto: l’’uccisione del suo comandante. Aveva
spiegato in precedenza che l’unico
movente era stato la rapina. In questo modo cadde l’ipotesi che attribuiva a un affare di spionaggio il
delitto sulla corvetta. Una ispezione ordinata dal Ministero della difesa, ed
eseguita da un tenente colonnello dei carabinieri addetto al servizio
informazioni permise di accertare che lo speciale reparto blindato della
cassaforte, contenente cifrari e ordini di operazione, era del tutto intatto.
L’istruttoria giudiziaria, compiuta dal
giudice Ugo Del Matto, della Procura
della Repubblica - come risultava dalla sentenza di rinviò a giudizio - chiarì anche il motivo per il quale Giovanni
Spaziano era assillato da un urgente bisogno di denaro. Uno dei servizi svolti
sulle navi militari è quello di capogamella.
Consiste nel vigilare su tutto l’andamento dei viveri e sulla confezione del
vitto. La gamella o gamellino,
nella terminologia marittima, è appunto la somma di denaro che va in dotazione alla Cassa di bordo. Spaziano – svolgendo il suo ruolo - si ritrovò un ammanco (una somma abbastanza notevole per la sua
paga) di centodiecimila lire. Una ispezione, constatando l’ammanco, poteva
procurargli dei guai con la denuncia per avere speso più del consentito. E cosi
egli scrive al padre, Alberto, che
al suo paese, Marzano Appio, in provincia di Caserta, fa il mestiere del
bottaio.
Il vecchio provvedeva a inviare al figlio
un vaglia telegrafico di ottantamila
lire. Se non che la nave salpava da Augusta ed il vaglia non poteva essere
riscosso. Il figlio scriveva allora una seconda volta a casa ed il padre
provvedeva ad inviargli tutto ciò che poteva racimolare: altre ottanta mila lire.
Negli interrogatori l’assassino tenterà di
sostenere, una dopo l’altra, tre tesi. La prima: ha preso il denaro lasciato
cadere da un altro compagno. La seconda, dopo la confessione: egli vide che il
comandante si svegliava ed allora, per impedirgli di gridare, lo colpì senza
però avere l’intenzione di ucciderlo. E infine, dirà che l’ufficiale,
svegliatosi, lo aveva afferrato e che egli nella colluttazione, aveva reagito.
La difesa affidata a tre valorosi
avvocati: Vittorio e Michele Verzillo di
Santa Maria Capua Vetere e Federico De Pandis di Riardo - si batterà
innanzitutto sull’assenza della premeditazione. Ma poiché lo Spaziano viene
giudicato da una Corte d’Assise, ma in
base al Codice militare, per il suo maggiore delitto, l’insubordinazione
con omicidio, peraltro aggravato
dalla rapina, si applica invece il Codice
comune è ovvio che importerà assai poco se l’omicidio fu premeditato o no. Il
Codice penale militare infatti e chiarissimo: l’omicidio verso il superiore sia
volontario o preterintenzionale, o anche solo tentato, comporta sempre la pena
dell’ergastolo.
Ecco perché la difesa ha una sola via:
ottenere il vizio parziale di mente. La pubblica accusa, però, aveva rincarato
la dose ed aveva presentato un documento col quale asseriva che lo Spaziano era un semi-alcoolizzato, soleva
dedicarsi a danze frenetiche fino a rimanere senza forze . Il processo - che
si prevede durerà tre giorni - dovrebbe vedere sfilare vari testimoni. Primo
fra tutti la vedova del tenente di
vascello Bottino Negrotto Cambiaso, la signora Camilla Salvago Raggi, figlia di un facoltoso industriale di
Alessandria, che viveva divisa dal marito in attesa di una sentenza di
annullamento di matrimonio, chiesto alla Sacra Romana Rota. E, successivamente,
la madre, marchesa Fiammetta Doria,
e il fratello Giorgio, costituitosi
Parte Civile e rappresentato nel giudizio dagli avvocati Luca Ciurlo del Foro di Genova e Nicola Vitale di quello napoletano.
La difesa aveva chiesto la lettura delle deposizioni di Alberto e Emilia Spaziano, genitori dell’imputato, di Teresa Di Bello, la giovanissima
fidanzata del marinaio, e di sua madre, Carmela.
Giovanni Spaziano, dal forte di Sant’Elmo, dove venne imprigionato in un primo
tempo, è stato trasferito al carcere giudiziario di Poggioreale, nel padiglione
Milano
.
Giovanni Spaziano entrò in aula alle 11,15
fra un forte nerbo di carabinieri. Vestiva e un elegante, attillato abito color
vinaccia. Sotto la giacca a un petto, appariva uno spesso panciotto di lana blu. Il nodo
della cravatta, le scarpe lucidissime, rivelavano la cura con cui si era abbigliato, prima di venire in udienza. Il
presidente lo chiamò e, nel silenzio dei presenti, egli rievocò nei minimi
particolari come uccise quella notte. Una folla enorme gremiva Castelcapuano. Solo un centinaio di persone,
però, potettero entrare in aula. Il marinaio assassino negò di avere
premeditato il delitto e mantenne un cinico contegno dichiarando sfacciatamente di essere profondamente onesto:
“Non so come ebbi l’impulso di uccidere:
quando il comandante si svegliò e mi vide, mi si rizzarono i capelli sulla
testa”. In mezzo alla calca vi era
pure il padre dell’imputato, il falegname Alberto
Spaziano. Per tutta la durata dell’udienza egli è rimasto in un angolo con
il bavero del cappotto alzato, fissando ostinatamente lo sguardo a terra. Gli
stava vicino l’altro figlio, Antonio,
sergente di fanteria, venuto da Bolzano. Emilia,
la madre dell'imputato, sofferente di cuore, è rimasta al paese, a Marzano
Appio. Anche la madre della vittima, la marchesa Fiammetta Doria mancava. Citata quale testimone aveva scritto ima
lettera al presidente della Corte, Luigi
Peluso, chiedendogli di evitarle, un tale strazio: “Non riuscirei a guardare in faccia l’assassino di mio figlio”. Era
venuto, invece, Giorgio Negrotto Cambiaso, fratello dell’ufficiale
assassinato. Alto, magro, gli somiglia in modo impressionante.
Giovanni Spaziano era entrato in aula con i polsi serrati nelle manette. Al posto
della tuta grigio-blu, normale abbigliamento dei militari in stato di arresto,
egli aveva indossato un elegante abito color vinaccia. La cravatta a tinte
vivaci ben annodata, i mocassini, la camicia candida, rivelavano il desiderio
ingenuo, quasi impudente, di staccarsi dalla massa, di figurare favorevolmente.
Il marinaio assassino è di media statura, la fronte alta, lo sguardo pensoso.
Il viso, pallidissimo, si direbbe quello di un giovane intellettuale. Guardando
quelle mani lunghe, affusolate, con le unghie curate, si stenta a credere che
abbiano potuto, impugnare il micidiale arnese e abbassarlo più volte con furia
selvaggia sul capo del povero comandante.
All’appello del presidente l’imputato uscì
dalla gabbia, con passo lieve, si inchinò e sedette. La sua voce era calma,
nitida, fredda, senza una sola inflessione che rivelasse un qualsiasi
turbamento. E per l’aula passò un brivido allorché disse: ”Non ho mai fatto nulla di male. Mai profittato di nessuno, sono
profondamente onesto”. Poi aggiunse: “Non
so io stesso come sia nato in me quell'impulso”.
Terminata la lunga deposizione, in cui lo
Spaziano si era fra l’altro confessato, responsabile di un ammanco di novantamila lire, avvenuto durante la
sua gestione di capogamella», addetto al miglioramento rancio, la difesa compì un
unico disperato tentativo. Gli avvocati Vittorio
Verzillo e Federico De Pandis
chiedevano una perizia psichiatrica. Il
Pubblico Ministero e la parte civile si
opposero, non essendovi, a loro parere, gli elementi previsti dalla legge. Il
presidente si riservava di interpellare la Corte dopo avere udito tutte le
testimonianze.
Poi nella la seconda udienza del processo la
Corte (di cui fanno parte come giudici popolari tre donne: Caterina Ferro, Annunziata Viglione e Maria Ferrise: una casalinga, una
professoressa e un’impiegata) sentì la testimonianza di un ufficiale, il
tenente Franco Agrimi, e di tre
sottufficiali, i marescialli Vincenzo
Auriemma, Giuseppe Quarto e Francesco
Belluomo Aniello, appartenenti tutti all’Arma dei carabinieri e in servizio
presso il nucleo della polizia militare addetto all'Ammiragliato. Sono state poi lette le testimonianze dei
genitori del marinaio, Alberto ed Emilia Spaziano, della fidanzata, Teresa Di Bello, e della madre di
costei, Carmela.
L’avv. Vittorio Verzillo, a difesa del
marinaio - ha citato il classico
caso di Nicola Misdea - da cui è derivato il termine misdeismo
il triste eroe di Pizzofalconce,
come lo chiamava Filippo Saporito in
un suo famoso studio Sulla delinquenza e
sulla pazzia dei militari pubblicato nel 1903. Ma Misdea, che nella caserma
napoletana di Pizzofalcone uccise cinque persone, venendo poi fucilato, nonostante
la diagnosi di pazzia fatta da tre celebrità psichiatriche (Leonardo Bianchi, Cesare Lombroso e Biagio
Miraglia), era pazzo davvero, mentre Giovanni Spaziano - come provò egli stesso nella lucida e fredda deposizione
durata tre ore - è nel pieno possesso della sua ragione.
CONTRO
IL MARINAIO ASSASSINO PARLA IL PUBBLICO ACCUSATORE
La
quarta giornata del processo vide
impegnato un avvocato della difesa, Michele
Verzillo (figlio del penalista Vittorio,
del Foro di Santa Maria Capua Vetere), uno della Parte Civile, Luca Ciurlo, del Foro di Genova, e il
rappresentante della Pubblica Accusa, Nicolò
Brayda. Tutti protesi nel duello per quella che, caduta la possibilità d’una
perizia psichiatrica, è ormai l’ultima carta su cui disperatamente, puntano: la
concessione delle attenuanti, sia le comuni
che le generiche, nella sempre più debole speranza di strappare
l’imputato, dall’ergastolo.
CONDANNATO
ALL'ERGASTOLO IL MARINAIO CHE UCCISE NEL SONNO IL SUO COMANDANTE
All’inizio dell'udienza l’ultimo difensore
del marinaio, l’avv. Vittorio Verzillo, prese la parola: “Sappiamo di non poter pronunciare
la parola pietà e di avere innanzi a noi la terribile legge
militare, il cui rigore dice al giudice che l’omicidio ai danni di un
superiore, anche se solo tentato, va punito con l’ergastolo in sostituzione
dell’abolita pena di morte. E
pertanto chiedo una pena che non superi i trent’anni, chiedendo la concessione
delle attenuanti generiche e quelle specifiche per la giovane età, per il passato incensurato, per la buona
condotta militare e per avere egli contribuito a far recuperare la somma presa”.
A
chiusura il presidente chiese al
marinaio: Avete nulla da aggiungere? A vostra
discolpa? Giovanni Spaziano uscì
dalla gabbia calmo e, postosi al centro
dell’aula, con una voce rotta da pause studiate, disse: “Si è detto ieri che non ho versato una sola lacrima nella rievocazione
del fatto. Però io ho un cuore e affermo che ho sofferto: e continuo a soffrire.
Non mi si crede se dico, che non ho volato uccidere anche se poi ho ucciso.
Ebbene, se per essere creduto merito l’ergastolo, sono io che chiedo questa
pena”.
Tre
ore dopo, nel silenzio assoluto il presidente lesse la condanna inflitta al
marinaio: ergastolo più quindici anni per
la rapina aggravata, degradazione militare e pubblicazione della sentenza,
oltre che su due quotidiani locali, anche su “La Nuova stampa”. Nell’udire
la decisione, Giovanni Spaziano rimase immobile come una statua. Negli anni
successivi, dopo due giudizi, la pena fu ridotta e l’ergastolo ridotto a 30 anni. Pena definitiva confermata
anche dalla Corte di Cassazione.
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