1974: CESA,
AVERSA, LUSCIANO, ROCCARAINOLA, CAMPOBASSO,
CHIETI…
UNA SCIA DI SANGUE CON SETTE OMICIDI
"il mostro di Lusciano"
Fu arrestato nel
cimitero del suo paese, dove aveva trovato rifugio in una nicchia. Quando fu
catturato, vi dormiva nudo.
Lusciano - Sette persone uccise, e tutte per motivi
che i verbali delle forze di polizia sono soliti definire “futili” quando il movente è di una banalità che rasenta
l’inconsistenza. Sette persone freddate a colpi di pistola, cinque delle quali
durante un breve periodo di latitanza seguito a una licenza premio. E’
sconcertante la ricostruzione dei delitti commessi dal “Mostro di Lusciano”, al secolo Carlo
Panfilla, nato nel 1945,
senza occupazione. Giudicato infermo di mente dopo il primo, duplice omicidio,
commesso all’età di 29 anni, fu condannato a 10 anni di manicomio giudiziario.
Lasciato uscire, uccise altre 5 persone
in due giorni, in due diverse circostanze.
Nuovamente arrestato, fu condannato al
carcere a vita, ma senza procedere a perizia psichiatrica: un’altra lacuna
procedurale che, impugnata dalla difesa,
portò all’annullamento della sentenza. Tutto iniziò
il 6 ottobre I974, quando Carlo Panfilla, uccise due giovani ad
Aversa, Giovanni Improta, di 27
anni, detto “Garibaldi”, e Francesco De Lucia, di 23 , detto “Ciccio ‘a posta”. I motivi di questo
duplice omicidio non furono mai stati completamente chiariti.
Il Panfilla, che doveva essere certamente
affetto da schizofrenia con carattere “borderline”,
era anche sofferente, a quanto
sembra, di frustrazioni sessuali, oltre
che di “tic” nervosi a un occhio e al
mento, li avrebbe uccisi colto da un raptus
omicida dopo una violenta lite. All’origine, il difficile rapporto avuto
con una donna, contesagli dagli altri due. Pare che Panfilla intendesse avviare
una giovinetta alla prostituzione, e altrettanto tentassero di fare i suoi
rivali. Siamo giunti, così, al 22 agosto 1981. “Il mostro”, dopo averli uccisi, fuggì e dopo
una breve latitanza fu arrestato nel cimitero del suo paese natio, Lusciano,
dove aveva trovato rifugio in una nicchia.
Quando fu catturato, vi dormiva nudo.
Ritenuto incapace di intendere e di volere, fu rinchiuso nel manicomio
giudiziario di Aversa, dove compì violenze nei confronti di altri reclusi e di un
funzionario del manicomio. Trasferito a Montelupo Fiorentino, nell’estate
del 1980 il Panfilla ottenne una licenza
di 5 giorni per recarsi a trovare i
familiari a Lusciano. Ma al termine della licenza, il giorno dopo Ferragosto,
una domenica, non fece ritorno nell’ ospedale psichiatrico. Pochi giorni dopo,
venerdì 21 agosto, compì un altro omicidio plurimo. Lo ricordano con barba e
capelli lunghi, l’aspetto trasandato e un comportamento definito “strano” da quanti si imbattevano in
lui, girava in motorino tra la Campania e il Molise.
Quella sera, un venerdì, fu deriso da un
gruppo di giovani che erano su un’auto a Cesa, nell’Aversano. Una frase di
scherno suggerita dall’aspetto dell’uomo, e favorita dall’esuberanza dell’età e
dal fatto di sentirsi al sicuro nel “gruppo”
di amici, tutti dello stesso paese. Mai avrebbero immaginato che cosa quella
frase avrebbe potuto scatenare. La
reazione di Panfilla fu immediata e tremenda: estratta una pistola, una “Smith&Wesson”, a tamburo calibro 22, che aveva rimediato chissà come, l’uomo si
diresse verso l’auto, dove i quattro giovani stavano ascoltando musica dallo
stereo, e li fece bersaglio dei suoi colpi.
Due raggiunsero alla testa Cesario Mangiacapra, di 18 anni, un
altro, alla gola, Fausto Errico, di
22, uccidendoli. Un altro proiettile ferì gravemente al capo Francesco Belardo, 21 anni, poi morto
in ospedale. L’unico superstite della strage fu Fernando Scarano, ventunenne, che riuscì a fuggire mentre gli amici
cadevano sotto i colpi esplosi da Panfilla.
Il giorno dopo, sabato 22 agosto, altre due vittime innocenti finirono
sul cammino del “serial-killer”.
Altre due persone mai viste prima e incontrate casualmente, freddate a colpi di
pistola, senza battere ciglio. Panfilla aveva posto il suo bivacco notturno a
Roccarainola, un piccolo centro in provincia di Campobasso. Due persone a bordo
di un’auto, transitando nei pressi, gli fecero notare che aveva acceso il fuoco
troppo vicino al bosco, e che c’era il pericolo di un incendio.
L’uomo,
per il quale il rimprovero equivaleva a una provocazione, per tutta risposta
estrasse nuovamente la pistola e colpì a morte Angelo Marcantonio, 32 anni e Mario
Antenucci, di 28, ambedue operai di Roccarainola. I loro corpi furono trovati
nell’auto con il motore ancora acceso e il finestrino laterale abbassato.
Ricercato in lungo e in largo, l’assassino
fu catturato dai carabinieri il giorno dopo a Lanciano (Chieti) mentre
viaggiava sul motorino; in una tasca della sua giacca aveva ancora la pistola
con la quale aveva seminato di morti il suo percorso. In un’altra tasca gli fu
trovata un’agendina sulla quale aveva persino annotato i suoi “colpi”: ucciso due persone il 21 agosto
a Caserta ... e il 22 agosto Roccavivara etc. … vi aveva
scritto altre cose indecifrabili che però portarono alla sua devianza sessuale
e paranoica.
Subito dopo l’arresto, l’uomo appariva in
uno stato confusionale e pronunciava solo frasi sconnesse. Poi, in un momento
di lucidità confessò i delitti, attribuendoseli con freddezza e noncuranza. “Mi avevano guardato storto”. Questa,
pare l’affermazione emblematica di Panfilla per spiegare il perché dei suoi
delitti, compiuti senza un motivo apparente, secondo un copione dell’omicida
seriale di cui le cronache ci riportano numerosi esempi.
Secondo alcuni studiosi Carlo Panfilla è
un serial killer da manuale, che uccide senza alcuna causa diretta, rispondendo
a un impulso a cui spesso non sa dare un significato. Nei suoi omicidi mancano
completamente motivazioni relazionabili alla sfera sessuale che, come è noto,
costituiscono una delle principali fonti di innesco delle crisi omicidiarie. Secondo altri, invece, il mostro
di Lusciano era pazzo a giorni alterni, oggi si direbbe “borderline”, ed era “incapace di
intendere e volere” . Questa lucida precisazione di Mario Galzigna, autore de “La
malattia morale”, ci pare costituisca una buona occasione di riflessione
quando, anche da semplici spettatori, ci si trova davanti a casi come quello
qui descritto.
Per chi non è addetto ai lavori la
definizione “incapace di intendere e
volere” è una sorta di salva ergastoli: uno strumento destinato a porre il
colpevole di crimini efferati, oppure assurdi e immotivati, come quelli di
Panfilla, in una dimensione “altra”,
esterna alla procedura penale, chiusi in una specie di bozzolo entro il quale
il criminale è “meno criminale”, ma
un malato mentale. Davanti a casi di monomania omicida come quello di
Carlo Panfilla, ognuno di noi avverte,
oggi, un profondo senso di impotenza, una devastante incapacità di comprendere
con nitidezza quali siano le barriere della ragione.
Oggi, in casi come quello di Carlo
Panfilla nessuno chiama più in causa il diavolo, anche se nella follia che pare
devastare la ragione, qualcosa di misterioso, una piccola parte di
impenetrabilità, continua ad avvolgere i crimini senza cause apparenti,
lasciando in ognuno un senso di smarrimento che ci rende esuli in questa nostra
esistenza in cui il male spesso prevale sul bene.
Dopo il permesso dal manicomio e gli altri
delitti, l’Ufficio istruzione del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aprì un procedimento penale per omicidio
colposo a carico di ignoti, al fine di accertare se vi fossero responsabilità a
carico di coloro che avevano concesso a
Panfilla il permesso per uscire dal manicomio di Montelupo Fiorentino. È evidente che la sua personalità era
fortemente squilibrata e le modalità con cui ha commesso tutti i suoi delitti
delineano una figura molto pericolosa. Ma dal punto di vista psichiatrico non
ne sappiamo quasi nulla dopo gli omicidi commessi nell’estate del 1981, i
giudici negarono la perizia psichiatrica richiesta dagli avvocati difensori,
scoprendo così il fianco a un ricorso in Cassazione per vizio procedurale.
Possibilità che i legali di Carlo Panfilla non si fecero sfuggire, ottenendo
dalla Suprema corte l’annullamento della sentenza del gennaio 1985. Il processo
dovette pertanto essere ripetuto.
LA CASSAZIONE DECISE UN ALTRO PROCESSO E ORDINO’ LA
PERIZIA PSICHIATRICA
Ritenuto incapace di intendere e di volere, fu rinchiuso nei
manicomi giudiziari di Aversa e Montelupo Fiorentino. Condannato prima all’ergastolo e poi 30 anni. Ha
scontato la sua pena nel carcere di
Carinola.
Per tutti era diventato il mostro di
Lusciano. In nove anni, dal 1974 al 1983,
aveva commesso sette delitti. La prima volta che venne condannato (dieci anni
di manicomio criminale per due assassinii) fu giudicato totalmente infermo di
mente. Poi però ebbe una licenza premio. Lui se ne servì per compiere ben altri
cinque omicidi. Finché non venne catturato, nei comuni dell’ entroterra
casertano regnò il terrore. Questo clima finì con l’arresto e la condanna all’ergastolo.
Ma nel 1987 scoppiò
il caso giudiziario: la Corte di
Cassazione annullò la sentenza e ordinò che il processo venisse ripetuto. Motivo: l’ imputato pluriomicida non era stato sottoposto a una nuova perizia psichiatrica, la seconda, così come era stato
richiesto dai difensori durante il processo di appello. Le famiglie delle numerose
vittime protestarono a vuoto contro le autorità. Anche negli ambienti della
Corte di Assise di Napoli ci fu una reazione di sdegno. “Qui siamo di fronte a un caso di eccesso di garantismo”, si disse .
Ma nelle polemiche e nel dibattito intervennero anche voci autorevoli che difesero l’operato della Cassazione.
“Il
suo compito è quello di stabilire qual è l’esatta funzione della legge”,
affermò il magistrato Corrado
Guglielmucci. “Tutte le regole della giustizia civile e penale debbono
essere rispettate fino in fondo”, aggiunse l’avvocato Gerardo Vitiello che faceva parte del sindacato nazionale forense. La
sconvolgente vicenda di Carlo Panfilla,
nel 1987 quarantaduenne, rinchiuso nel
carcere di Carinola in provincia di Caserta, incominciò, come detto, nel
lontano 1974. Con la sua famiglia abitava a Lusciano. Era un uomo irascibile e violento. Ad Aversa uccise
due persone. Nei rapporti dei carabinieri si legge che lo fece per futilissimi motivi. Dopo una breve
latitanza venne preso. Non spiegò cosa
lo avesse spinto ad uccidere. Il suo sguardo appariva sempre più perso nel vuoto. Al processo i
difensori chiesero la perizia psichiatrica.
Fu nominato un collegio con due esperti
psichiatri dell’epoca. Due personaggi famosi e discussi, entrambi legati da un tragico destino. Per i quali, poi, si occuperanno le cronache
italiane. Uno era Aldo Semerari, il
criminologo che venne orrendamente decapitato dalla camorra; un altro il
professor Domenico Ragozzino, che si tolse la vita (era direttore del
carcere di Sant’Efremo quando fu accusato di pesanti collusioni con la malavita
organizzata).
Il 26 marzo del 1982, Aldo Semerari
scomparve misteriosamente dall’hotel Royal di Napoli, e venne trovato a Ottaviano in una Fiat 128,
in una busta di plastica insanguinata vi era la testa mozzata del criminologo, tagliata con
una sega, mentre invece il suo corpo fu rinvenuto nel bagagliaio posteriore
dell’auto.
Nel 1978, Domenico Ragozzino, invece, condannato a 4
anni di reclusione dal Tribunale di S. Maria C.V., per maltrattamenti agli
internati del Manicomio di Aversa, di cui era direttore, si impiccò per la vergogna.
I
periti dichiarano Panfilla totalmente infermo di mente. Scattarono dieci anni di manicomio criminale a Montelupo
Fiorentino. Dopo un certo tempo il Panfilla ebbe una licenza premio. Se ne servì per uccidere
altre cinque persone nei comuni di Cesa e Roccavivara in provincia di
Campobasso. Ripreso, venne condannato
all’ ergastolo. Ma la seconda perizia psichiatrica non venne concessa. Quindi
la Cassazione decretò che quello era un
motivo valido per far ripetere il processo.
Il 25 gennaio 1985 Carlo Panfilla fu
condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere, perché ritenuto responsabile di
cinque omicidi compiuti “per motivi abietti e futili”. La
Corte, inoltre, gli inflisse 30
anni di reclusione per i tre omicidi di Cesa e 28 anni per i due omicidi di
Roccavivara.
C'è chi narra di Carlo Panfilla dopo averlo conosciuto personalmente. In qualche modo ha cercato di dargli un profilo più umano... ha mai sentito parlare di "Leoni e bocche di lupo"? E' stato scritto vent'anni fa.
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