Accadde a
Mondragone innanzi al caffè
Malaspina il
13 settembre del 1949.
Salvatore Prisco uccise uccise
con due coltellate
Antonio Pappa.
Alla base del barbaro
delitto un innocente gioco tra
fratellini che si lanciavano pugni di sabbia.
L’arretratezza culturale del substrato familiare ha giocato
un ruolo predominante.
“L’uomo è il prodotto del suo ambiente-
scrissero i giudici - la morale
corrente, in
quell’ambiante rustico ed
insolente – aveva
posto il giovane su di un piano di disparità che
lo indicava
al sarcasmo ed al lazzo.
La sera del 13 settembre del
1949, in Mondragone i locali carabinieri vennero informati che tale Salvatore Prisco, contadino, di anni
22, aveva vibrato due colpi fi coltello al giovane Antonio Pappa, attingendolo al terzo superiore intercostale a due
centimetri dallo sterno. Il Pappa decedeva all’istante e successivamente si accertò che il
decesso ara avvenuto “per
lacerazione del tratto inteopricardico dell’aorta e per lesione a carico del
lobo superiore del polmone sinistro”, cui seguì imponente emorragia interna
ed anemia acutissima. Consumato il delitto il Prisco si dileguava
costituendosi, però, alla locale stazione dei carabinieri il mattino successivo
14 settembre. Prontamente interrogato
dal magistrato inquirente l’omicida dichiarava a sua discolpa “di aver vibrato i due colpi di coltello al
suo avversario, per sottrarsi alle
violenze di costui, che, dopo averlo
atterrato e picchiato di santa ragione – separato dal litigante da un
volontario – mostrò di voler trascendere
dalla contesa facendo ricorso all’arma. Il Pappa, infatti – sempre stante
alle dichiarazioni dell’assassino – portò la mano alla tasca posteriore dei
pantaloni come per cavarne una pistola. Avvertito il grave pericolo esso Prisco
precedette il Pappa nell’azione colpendolo due volte col coltello del quale era
in possesso in ragione del suo mestiere. Dichiarava, inoltre, che da anni, i
suoi rapporti col Pappa erano tesi per via di un litigio nel quale il Prisco
riportò anche una lesione alla fronte (o
mierco nfronte) uno sfregio permanente, testimoniato da una visibile
cicatrice, che condizionò psicologicamente non poco il giovane. Da quell’epoca,
infatti, il Pappa si era andato vantando in paese dell’episodio con un gesto
che ritornava in suo onore. Infastidito
dalle vanterie dell’avversario egli, il Prisco, lo aveva diffidato a desistere da
quell’odioso comportamento, tuttavia, senza risultato. La sera del 13
settembre, transitando con alcuni amici (Armando
Pacifico, Luigi e Davide Bianchini)
dinanzi al caffè “Malaspina”, vide suo cugino Vincenzo
Prisco, ed il Pappa seduti a discorrere nel locale medesimo. Egli si avvicinò ai due per salutare il cugino.
Il
Pappa - sempre secondo il suo fantasioso racconto – interloquì dichiarandosi
disposto a sostenere un confronto con quello che aveva dichiarato di aver
riferito a Salvatore Prisco di “pulsante”
vanteria del primo nel confronti del secondo. Il Prisco si era quindi
allontanato dopo aver rassicurato l’altro che avrebbe provocato l’incontro
richiestogli. Egli si trattene circa una mezz’ora con i propri amici nel salone
di barbiere gestito da Antonio Greco,
si dispose, quindi, a rientrare nella
propria abitazione, percorrendo la
strada ove era sito il caffè Malaspina. Ma appena giunto all’altezza di tale
esercizio egli fu improvvisamente affrontato dal Pappa - che in quello
intervallo era ivi restato – ed apostrofato vivacemente con le parole. “Sono sempre a tua disposizione per il
confronto”. Ed egli di rimando: “Tu
non mi fai né impressione né paura”. A
questo punto il Pappa lo aggredì e lo percosse gettandolo a terra.
Intervennero a dividerli Vincenzo Prisco,
suo cugino, e gli altri, coi quali il Salvatore
Prisco si era accompagnato. Il Pappa, però, non soddisfatto della sopraffazione consumata tirò un calcio
al suo avversario e fece il gesto di mettere fuori una pistola. Il Prisco
dichiarò a questo punto che di non aver inteso cagionare la morte del Pappa
avendo diretto La sfida
col gesto sbagliato e il delitto la sua azione a lederlo soltanto. Indicava,
infine, il luogo in cui aveva
celato il coltello.
La sfida col gesto sbagliato e il delitto
Dalle
approfondite indagini dei militi della Fedelissima si accertava - in ordine
agli antecedenti remoti dell’ostilità dei due giovani – che un fratellino del
Pappa, Emilio, di nove anni, intorno
al 1945, giocando sul suo fondo, contiguo al terreno condotto dal genitore di
Salvatore Prisco, inavvertitamente investì costui con della sabbia con la quale
si scambiava i tiri con altro fratello. Il Prisco, nonostante Antonio Pappa
prontamente intervenuto avesse redarguito severamente il fratello, maltrattò il
fanciullo, determinando la reazione dell’Antonio. L’incidente fu sedato per
l’interposizione di Mario Pagliaro, un
giovane bracciante che lavorava alle dipendenze della famiglia Prisco. Alcuni
giorni dopo, vi fu un nuovo scontro tra il Pappa e il Prisco conclusasi con una
sassata ai danni del secondo. In relazione all’ultimo episodio, nel quale trovò
la morte il Pappa, i carabinieri accertarono che il primo incontro nel caffè Malaspina fu provocato dall’iniziativa
di Prisco che avvistava il suo nemico in quel locale, gli si avvicinò,
intavolando una accanita discussione sul tema delle millanterie addebitate al
Pappa. La discussione degenerò in un diverbio e poco mancò che non si
tramutasse in litigio violento. Il Prisco fu allontanato mentre il Pappa restò
nel caffè Malaspina. Poco dopo, al
ripassare del Prisco, il Pappa gli andò incontro per riaccendere la contesa.
Nuovo alterco, quindi la zuffa. Appena i due furono separati il Prisco vibrò i
due colpi e quindi l’omicidio. La perizia
medico legale affidata ai periti Dr. Giovanni Borrelli e Dr. Mario
Pugliese, eseguita presso il
cimitero alla presenza del Vice Pretore Avv. Matteo Martino confermò la dinamica del decesso.
Nei successivi interrogatori
l’imputato confermava che il primo incontro era stato fortuito con il Pappa al
quale apparteneva ogni iniziativa. Egli Prisco si era avvicinato a suo cugino
per salutarlo – senza aver inteso contestare alcunché al Pappa col quale aveva avuto modo di discutere
sull’oggetto del dissenso alcuni giorni prima. Insisteva ancora nell’affermare
di aver estratto il coltello e colpito l’avversario solo quando rimessosi in
piedi vide costui fare il gesto di mettere fuori una pistola, dopo averlo
attinto violentemente con un calcio al basso ventre.
Circa i rapporti con il
familiari del Pappa - rivelatosi di uno
stato d’animo insofferente ed
acrimonioso – deponeva la madre dell’ucciso Lucia Di Grazia la quale informava che alcuni mesi prima del delitto, il Prisco aveva
maltrattato suo figlio Antonio che si era recato, come d’abitudine, ad
attingere acqua nel fondo dell’altro. Essendo ella intervenuta per protestare
contro gli abusi del giovane il Prisco la minacciò con gravi parole offensive.
A sua volta l’imputato, pur negando di aver inveito contro la vecchia donna,
ammetteva d’aver avuto un diverbio con costei per via dell’acqua. Ancora un
approfondimento veniva fatto dagli inquirenti con l’escussione di Vincenzo Prisco, presente all’intero
svolgimento dell’azione. “Dopo la zuffa
- dichiarò il Prisco - il Pappa aveva aderito al suo invito ad allontanarsi
allorchè Salvatore Prisco vibrò di due colpi di coltello”.
Secondo gli inquirenti lo
stesso Prisco, per conferire attendibilità alle sue discolpe si vide costretto
a falsare le modalità dell’azione
cercando circostanze posticce. Il gesto intimidatorio del Pappa, premonitore di
più gravi violenze, è chiaramente frutto della fraudolenta e surrettizia
inventiva dell’imputato, intesa ad adombrare una situazione personale di
pericolo che nessuno degli astanti colse in quel riscontro. La falsità è
denunciata – ipotizzarono gli investigatori – sia dalle ulteriori precisazioni che
l’imputato ha voluto fornire in ordine al fatto; sia da un rilievo logico
elementare. Il Prisco nel corso del dibattimento ha ad un certo momento
dichiarato che il Pappa, dopo di avergli tirato un calcio fatto il gesto di
estrare una pistola, gli si lanciò novellamente contro percuotendolo. Fu in
questo punto che egli si vide costretto a reagire. In quest’ultima versione
della circostanza, l’atto di estrarre la pistola, non seguito da realizzazione,
prende rilievo ed importanza. Il Prisco si sarebbe determinato ad agire sotto
l’urto di una nuova concreta aggressione. La premeditazione del fatto in questi
termini – inaccettabile già per la tardività dell’assunzione – è contrastata
dalla sovrabbondante prova specifica, a mente della quale, dopo la separazione
dei contendenti caduti per terra, subitanea ed imprevedibile fu la reazione del
Prisco. In considerazione dell’ordine logico, infine, resiste l’assunto
dell’imputato, concernente il gesto minaccioso del Pappa. Costui che aveva già
conseguito con successo nei confronti dell’avversario, atterrandolo e
percuotendolo, non avrebbe avuto ragione di far ricorso ad un’arma inesistente
– disponendo con maggiore suo prestigio
della prevalenza fisica ove l’altro avesse inteso riprendere la lite. Esclusa
in definitiva che la reazione del Prisco si sia temporalmente inserita nell’azione
violenta del Pappa, per riconoscimento del Prisco medesimo esclusa, altresì, oggettivamente la
sussistenza di qualsiasi pericolo di nuova aggressione ad opera del Pappa
stante l’efficienza della mediazione dei terzi e la desistenza palese di lui
dalla violenza, come riferisce il Vincenzo Prisco, esula incontrovertibilmente
l’ipotesi della difesa legittima oggettiva.
Persiste
la volontà omicida e la reazione fu pari alla carica accumulata
Che il
Prisco in quella congiuntura abbia adoperato un linguaggio concitato e
aggressivo è presumibile e pare potersi ammettere sulla scorta delle
dichiarazioni di Vincenzo Prisco. “Dunque- insistettero gli avvocati difensori
nelle loro memorie - il fatto che
Salvatore Prisco prestando fede a talune dicerie sul suo conto propagandate dal
Pappa – accusato di menare vanto della bastonatura inflitta anni addietro all’avversario – abbia assunto la
sera del 13 settembre del 1949 un atteggiamento risentito e risoluto nei
confronti dell’altro nel caffè Malaspina
- non comporta l’esclusione del beneficio della provocazione, in quanto
esauritosi il primo episodio – in una sterile schermaglia – per l’intervento
dei pacieri – non avrebbe dovuto il Pappa senza fatti nuovi che ne
sollecitavano l’azione – riaprire l’incidente ed aggredire il Prisco”. Benché
motivata, forse, quell’azione dalla protervia del Prisco essa rivestita
per sempre i caratteri dello illecito, contro cui ed in rapporto al
quale la reazione è in ogni modo parzialmente giustificata. Il rinnovarsi di
violenze che già per il Prisco erano state motivo di umiliazioni nel suo
ambiante ed al riscatto delle quali era sostanzialmente improntata la sua
condotta – le intimazioni fatte al Pappa di desistere dal denigrarlo stanno a
provarlo – azionò il meccanismo reattivo esagerandone le oscillazioni. Ora,
tenuto conto dell’efficienza altamente
lesiva di un coltello a punta
acuminata con lama della
lunghezza di cm. 8,5 e larghezza 1,5 con manico da 10 cm. (la cosiddetta
molletta) appare evidente che il colpo vibrato in direzione del cuore non
potette non rappresentare al Prisco come micidiale per la vittima, secondo le
comuni nozioni di anatomia umana. L’aver scelto quella sede è sicuro indice di
una volontà fermamente diretta a cagionare la morte dell’odiato rivale. Il
motivo a delinquere conferma questo asserto. Un episodio non dimenticato di
violenza patita, il residuare di una ideatrice che quell’insuccesso
continuamente richiamava alla sua mente, il basso pettegolezzo d’un ambiante
insano, il malinteso sentimento dell’onore o del prestigio sociale, altrettanti
motivi in fermento che nella sfera inconscia mobilitavano quello spirito e ne
esasperavano la ribellione. Il perdurare dell’ostilità, lungo un arco di
quattro anni, dà la misura dell’intensità dell’odio concepito e della capacità
di elaborazione psichica dei fenomeni esterni del Prisco.
L’assassino fu condannato a 14 per omicidio
volontario e
porto abusivo di coltello di genere
proibito. In appello gli furono
riconosciute le
attenuanti dell’ira e della provocazione.
Il
Processo
Nella fase istruttoria
espletata col rito formale, l’indagine del giudice si soffermava diligentemente
su questa circostanza per stabilire in qual momento fosse intervenuta la
reazione cruenta del Prisco il quale assumeva di aver agito per legittima difesa.
I testi escussi, però, escludevano che il Pappa
avesse comunque manifestato il proposito di fare ricorso alle armi.
Nessun gesto fu colto che volesse o far temere, ad opera sua, una deviazione
del litigio in tal senso. I più notarono
di non aver notato l’estrazione del coltello ad opera del Prisco nelle cui mani
tale arma fu vista soltanto dopo la vibrazione dei colpi, per le frasi
sussurrate dal Pappa: “Disgraziato fai la
mossa col coltello”, e per l’abbattersi subitaneo della vittima.
Escludevano, altresì, che i colpi fossero vibrati mentre i due erano per terra,
l’uno sull’altro. La Sezione istruttoria, su conforme richiesta del Procuratore
Generale, disatteso l’assunto della difesa legittima – rinviava il Prisco
innanzi la locale Corte di Assise per omicidio volontario. Salvatore Prisco, arrestato il 14 settembre 1949, veniva quindi giudicato dalla Corte di Assise
di S. Maria Capua Vetere (Presidente Paolo De Lise, a latere Victor Ugo De Donato, pubblico
ministero Pasquale Allegretti).
Giudici popolari: Giovanni Pozzuoli,
Pasquale Tenga, Giuseppe De Chiara, Gaetano Papa, Vincenzo Fava e Oreste Foggia) difeso
dagli avvocati, Antonio
Simoncelli e Arturo Tucci;
mentre la parte civile Giovanni Pappa
e la vedova Lucia Di Grazia, madre della vittima, era difesa dall’ Avv. Ciro Maffuccini. La Corte di Assise di
Santa Maria Capua Vetere, fissò come pena base per l’omicidio anni 22 i
reclusione (per l’aggravante del ricorso all’erma bianca) con la diminuzione di
anni 5 di pena per la concessione dello stato d’ira (anni 17) ridotti a 14 con
le attenuanti generiche.
Rappresaglia dunque, non legittima difesa che
fu respinta dalla Corte con questa motivazione: ” Si consideri infatti, che segnatamente per le circostanze scriminanti
la prova deve essere rigorosamente raggiunta perché il giudice possa
affermarla; onde deve concludersi che la prima istanza della difesa
nell’interesse del Prisco non può
trovare accoglimento”. Dopo la discussione della parte civile il
pubblico ministero chiedeva affermarsi la colpevolezza del Prisco con il
beneficio delle attenuanti generiche. La difesa dell’imputato, invece, chiedeva
assolversi il Prisco dal delitto di omicidio per legittima difesa, in subordine
ed in via gradata l’ipotesi dell’eccesso colposo di legittima difesa,
l’omicidio preterintenzionale con le attenuanti generiche. Nella motivazione
della loro sentenza, i giudici di primo
grado, osservarono che andava disattesa
la tesi della legittima difesa, essendo palese che la reazione del Prisco
intervenne quando era cessata ogni violenza in suo danno e nessun pericolo più
incombeva, grazie allo intervento di pacieri che erano riusciti a ristabilite
la calma. Nel corso del dibattimento vennero escussi come testi: Giovanni Pappa, Lucia di Grazia, Carmine
Calcilome, Vincenzo Prisco, Davide Bianchini, Armando Pacifico, Luigi Pacifico,
Nicolina Pacifico, Giuseppe Felicetti e
Mario Pagliaro, tutti da Mondragone. Sulla concessione delle attenuanti
generiche i giudici scrissero infine: “L’uomo
è il prodotto del suo ambiente”. In Mondragone – nel suo ceto – il Prisco si
sentì menomato grandemente per quanto gli era occorso ed intorno a questa idea
centrale dovette costituirsi come un circuito ossessivo un complesso psichico.
La morale corrente, il criterio di valutazione per fatti consimili, in
quell’ambiante rustico ed insolente – aveva posto forse il giovane su di un
piano di disparità che lo indicava al sarcasmo ed al lazzo. Il fatto che alcuni
giovanetti si prendessero la briga di informare il Prisco da pretese vanterie
del Pappa e tutto ciò che abbiano innanzi al magistrato negato induce a
ritenere che quel remoto incidente fosse per celia utilizzato di frequente
dagli amici del Prisco divertiti dalla reazione di costui di mediocrissima
costituzione fisica però più sensibili ad ironie del genere. Il suo gesto
conclusivo del dramma è in definitiva la risultanza di tutti questi impulsi
operanti nella sua sfera ambientale”.
Giudicato in grado di appello dalla Corte di Assise di Appello ( Presidente
Pasquale Falciatore, a latere, Michele Greco, Procuratore Generale, Angelo Peluso) avverso la sentenza del
20 marzo 1952, veniva condannato ad anni
14 per omicidio volontario e porto abusivo di coltello di genere proibito.
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