A Caivano nel 1971 scena da
Chicago anni Trenta.
Due imprenditori si spararono tra la folla: un morto
ed un ferito. Dopo poco un altro delitto per vendetta trasversale
Salvatore Celiento, O’ sargentiello di Villa Literno, uccise il suo rivale ma fu ferito.
Poi la vendetta trasversale, uccise il fratello del suo feritore. Un telegramma dal carcere di Antonio Bardellino
all’avv. Giuseppe Garofalo per complimentarsi della assoluzione per legittima
difesa.
la vittima |
Alle ore 23,45 del 22 giugno del 1971, i carabinieri di
Caivano venivano telefonicamente avvertiti che poco prima, al Corso Umberto, all’altezza di Via
Matteotti, si era verificata una sparatoria nel corso della quale una persona
era rimasta ferita. Portatisi
prontamente sul posto, apprendevano che la sparatoria si era svolta poco
prima e che il ferito era stato trasportato all’Ospedale di Caserta e che il
responsabile del ferimento si era
allontanato a bordo di una Fiat 850, rincorso da un giovane che gli aveva
sparato contro l’intero caricatore della
sua pistola. Che, nonostante a quell’ora di calura, la piazza fosse gremita,
nessuno aveva riconosciuto i contendenti in quanto, ai primi spari tutti si
erano rifugiati all’interno dei
numerosi circoli sociali e bar (o almeno così fecero credere ai carabinieri
ma si trattava – come si appurerà in seguito - di pura omertà). Da una prima ispezione sulla scena
del crimine i carabinieri rinvennero due bossoli di pistola calibro 6,35 ed
una pallottola schiacciata da un lato. Intanto il ferito veniva identificato
per Antonio Esposito, di anni 35, da
Crispano di Napoli, imprenditore edile. Si appurò, inoltre, che ad uccidere
l’Esposito era stato tale Salvatore
Celiento, detto ò sargentiello,
di anni 21, celibe, da Villa Literno, pavimentista, e che il giovane che aveva inseguito
quest’ultimo, sparandogli contro era stato tale Pasquale Pepe, detto ò frate
e Giannettiello e papà, di anni 29, coniugato, residente in S. Cipriano
d’Aversa, pavimentista, cognato della vittima Esposito. Ricercati nelle
rispettive abitazioni non erano stato trovati. Nel pomeriggio del 23 giugno il
dr. Luigi Ferraiuolo, con studio
in Aversa, riferiva ai carabinieri che
verso le ore 14.00, aveva medicato il Celiento,
per una ferita di arma da fuoco, con solo forame di entrata alla regione
deltoidea del braccio sinistro, con ritenzione di proiettile nei tessuti
profondi, giudicandolo guaribile in 20 giorni. Che il predetto Celiento gli
aveva riferito di essere stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco
sparatogli verso le ore 24.00 del giorno precedente in Caivano da un certo
Pasquale, del quale non ricordava il
cognome, mentre egli stava salendo sulla propria autovettura. Fu accertato,
inoltre, nella circostanza, che l’Esposito ed il Papa erano giunti sul luogo
della sparatoria in compagnia di due
giovani della zona di Casal di Principe, Mario
Natale e Francesco Rossomanno, a bordo di un Fiat 1100.
I carabinieri riferivano poi –
secondo indiscrezioni raccolte in giro –
che l’Esposito, verso le 19 del
giorno 22, s’era recato nel Bar di Mario
Quarto, di Caivano, ed aveva chiesto a costui, in presenza di tale Andrea Marzano, di indicargli
l’abitazione del “sargentiello”. Tuttavia,
sia il Quarto che il Marzano, interrogati in proposito, avevano negato la
circostanza. Però, secondo le dichiarazioni rese ai carabinieri dal teste Vincenzo
Fusco, il Celiento, verso le 21 aveva scambiato, come già aveva fatto altre
volte, la propria autovettura Lancia Fulvia, con quella di esso Fusco, una Fiat
850 coupè, aveva stabilito, d’accordo con questi, di rivedersi nella tarda
serata al Bar Cortese, per restituirsi le macchine. Il Fusco s’era portato al luogo dell’appuntamento ed
aveva parcheggiato l’auto del Celiento un poco più avanti del Bar Cortese, sul
lato opposto della strada, in direzione di Caserta. Dopo essersi trattenuto per
circa mezz’ora a chiacchierare con tale Tonino
Natale, davanti al bar era giunto il Celiento che, dopo aver sistemato
l’auto del Fusco, sette, otto metri
dietro la sua, s’era unito a loro due per parlare del più e del meno. Ad un
tratto, chiamato da una persona, che il Fusco non sapeva indicare, il Celiento
s’era allontanata per un momento ma era subito ritornato.
Il primo omicidio
Dopo 10 minuti che il predetto
era giunto un individuo si era messo a gridare: “… Scappa, scappa… che ti vogliono ammazzare!”… ed il Celiento era
corso nella sua auto, e s’era posto alla guida. Appena chiuso lo
sportello, un individuo, sporto un
braccio fuori dal finestrino posteriore di una Fiat 1100, verde chiaro, giunta
all’altezza dell’auto del Celiento, gli esplodeva contro un colpo di pistola
mandando in frantumi il vetro del finestrino del posto di guida. Detta Fiat
1100, dopo aver percorso altri 5, 6 metri, si fermava e dai quattro sportelli
scendevano i 4 individui che
l’occupavano, dirigendosi, minacciosamente, verso l’auto del Celiento, che, a
marcia indietro, si stava spostando verso l’imbocco di via Matteotti, per
dirigersi, poi verso Napoli. Mentre si dirigevano verso l’auto del Celiento,
alcuni dei predetti gli sparavano contro dei colpi di pistola, mentre uno,
gridando come un ossesso agitava un grosso bastone che aveva tra le mani.
Giunto a breve distanza dal Celiento veniva da questi colpito ed abbattuto
dall’unico colpo di pistola sparatogli contro. Il Fusco precisò ai carabinieri
che il primo a sparare era stato Pasquale
Pepe, seduto sul lato destro del sedile posteriore della Fiat 1100, avendo
al lato sinistro l’Esposito. Si accertò, altresì, che l’auto era guidata da un
giovane bruno, alto e robusto, che aveva al suo fianco un altro giovane del quale aveva potuto
vedere solo la sagoma; che durante la sparatoria erano stati sparati non meno
di 15 colpi; che subito dopo il grave fatto di sangue, era andato ad avvisare i
parenti del Celiento ed aveva veduto la Fiat 1100 transitare per due volte per
via S. Barbara certamente alla ricerca del Celiento. Circa gli altri testi
escussi Antonio Natale confermava –
in linea di massima – le dichiarazioni del Fusco, limitatamente al momento in
cui era iniziata la sparatoria,
essendosi allora rifugiato nel Bar. Elio Frutta confermava che Mario Natale e Francesco Russomanno, si
erano avvicinati a lui che sostava davanti al Bar Cortese ed erano stati
invitati a sorbire un caffè; senonchè subito dopo era iniziata una sparatoria
che l’aveva costretto a rifugiarsi all’interno del bar. Domenico Romano, che
secondo le informazioni era stato colui che aveva avvertito il Celiento, che lo
stavano cercando per ammazzarlo, negava tale circostanza assumendo che era
andato a dormire fin dalle 22.
Il
secondo omicidio per vendetta trasversale
Il delitto avvenne in una agenzia di pompe funebri alla via Roma in Caivano. Era il 4 luglio del 1973. Salvatore Celiento, venne accusato di avere, con premeditazione, al fine di vendicarsi della precedente aggressione con arma da lui subita, ad opera di un fratello di Luigi Pepe, cagionato la morte di costui contro il quale esplodeva numerosi colpi di pistola attingendolo in più parti vitali. Inoltre il Celiento fu accusato per aver costretto, il 4 maggio del 1973, nel Bar “Rosso&Nero”, alla via Umberto I° di Caivano, alla presenza di più persone, Elio Frutta, che aveva deposto come teste contro di lui nel primo processo, sotto la minaccia di una pistola, ad inginocchiarsi ed a pronunciare ad alta voce la frase: ”Io sono un figlio di puttana e tengo pure le corna”. Per scagionare dalle sue eventuali responsabilità nel primo delitto la moglie del Pepe (sua seconda vittima), Antonietta Ponticelli, dichiarò: “Quando venne ucciso mio cognato Antonio Esposito, mio marito era detenuto a Poggioreale ed è uscito nel novembre del 1972. Poi andò per lavoro in Germania. E’ tornato a maggio di quest’anno. Con i fatti del cognato non c’entrava niente. Lui lavorava saltuariamente come lucidatore di pavimenti. Sull’episodio delle minacce con la pistola al teste Frutta i carabinieri Antonio D’Errico e Vincenzo Attanasio accertarono che – nella circostanza – il Frutta aveva replicato al Celiento asserendo di “non essere un cornuto”. E lui di rimando avrebbe replicato: “Non sei cornuto di moglie ma di azione”. Poi gli stessi carabinieri ascoltarono alcuni testimoni oculari del delitto. Domenico Buonfiglio, che si trovava nel locale delle pompe funebri raccontò: ”Il Pepe venne freddato mentre era ancora seduto su un divano di fronte a quello nel quale avevo preso posto io, cadde riverso in terra senza avere il tempo di fare alcun gesto”. Domenico Ferrara, da Giugliano, titolare del negozio di pompe funebri raccontò: ”Non avrei mai potuto invitare il Celiento nel mio esercizio, essendo già presente il Pepe e sapendo che tra i due - a causa del precedente omicidio –non correva buon sangue. Il sargentiello giunse improvvisamente sulla soglia del mio negozio la cui porta di cristallo era aperta completamente e subito sparò. Il Pepe non ebbe il tempo di fare alcun gesto in quanto subito cadde a terra dal divano sul quale era seduto. Il Pepe non era armato. Poi, un tale, Luciano De Cicco da Aversa, amico di mio fratello, lui, accompagnato da altro giovane che non conosco si presentò nel mio esercizio – qualche giorno dopo l’omicidio - e premesso che “bisognava aiutare il vivo, più che il morto”… cercò di convincermi a falsamente testimoniare che il Pepe aveva nelle mani una pistola e che io avevo invitato il Celiento ad entrare nel mio negozio per consumare una birra: Gli stessi si recarono anche presso mio padre Raffaele Ferrara, in Contrada “Sericelle” e gli chiesero di convincermi a comportarmi secondo i loro suggerimenti”.
Per il primo delitto: legittima difesa; per la
vendetta 10 anni di manicomio criminale
Chiusa l’istruttoria formale il giudice istruttore
chiedeva il rinvio a giudizio di Salvatore
Celiento, Pasquale Pepe, Mario
Natale, di anni 28; e Francesco
Rossomanno, di anni 23 anni da S.
Cipriano d’Aversa; il primo per omicidio, il secondo, terzo e quarto, per avere
risposto al fuoco e ferito gravemente il Celiento. Su conforme richiesta della
Procura, il G.I. assolveva Mario Natale e Francesco Rossomanno, per insufficienza di prove ordinando il
rinvio al giudizio della Corte di Celiento e Pape.
La Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, (Presidente Luigi Gorini, a latere, Gennaro Esposito, pubblico ministero, Ettore Maresca, giudici popolari: Iside Vellucci, Tommaso Pisanti, Salvatore
Lauritano, Luciano Vigevano, Filippo Lautieri e Gerardo Parente) giudicò Salvatore
Celiento, di anni 20, all’epoca dei
fatti, da Villa Literno e Pasquale Pepe,
di anni 29, accusato, il primo per avere, con premeditazione,
esplodendogli contro vari colpi di
pistola a tamburo, cagionato la morte di
Antonio Esposito. Il secondo
per aver compiuto atti idonei diretti,
in modo non equivoco, a cagionare la morte di Salvatore Celiento esplodendogli contro numerosi colpi di pistola
uno dei quali attingeva il predetto Celiento alla spalla sinistra e non
verificandosi l’evento per cause indipendenti dalla sua volontà. Nel processo
furono impegnati – nei diversi gradi di giudizio - gli avvocati:
Vittorio e Massimo Botti, Giuseppe
Garofalo e Raffaele Petrillo, Ettore Stravino, Renato Orefice e Giuseppe Riccio. Nel 1973, la Corte di Assise,
dopo la richiesta del Pm 18 anni e dopo l’arringa di Giuseppe Garofalo, con sentenza del 5 aprile 1973, assolse il Celiento per legittima difesa. “Quanto
al delitto di omicidio volontario – scrissero i giudici nella loro
motivazione – ritiene la Corte –
contrariamente al convincimento del pubblico ministero che il predetto agì in
stato di legittima difesa giacchè la sua azione valutata sul contesto
dell’aggressione da lui subita venne dettata unicamente e sicuramente da un
intento difensivo avendo egli sparato un
solo colpo di pistola contro l’Esposito per esservi stato costretto dalla
necessità di difendersi contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta”.
La prima battaglia era vinta
ma non la guerra. Infatti Ettore Maresca,
il pubblico ministero che aveva chiesto una dura condanna per il sargentiello subito fece appello
all’assoluzione. “La ricostruzione dei
fatti prospettata nella motivazione – scrisse nei motivi di appello il pm – dell’impugnata sentenza per sostenere che il
Celiento, allorchè attinse l’Esposito, uccidendolo, con un colpo di rivoltella,
si trovava in stato di legittima difesa, appare in taluni aspetti non solo
inconsistente ma al limite fantasiosa. Durante tutto l’episodio vennero sparati
dodici tredici colpi di arma da fuoco”… disse il pubblico ministero negando la legittima difesa. Nel giudizio di Appello
il primo colpo di scena. La Corte ordinò una perizia psichiatrica in quanto
l’imputato era stato ricoverato per ben due volte in manicomio. Venne nominato
il prof. Giacomo Rosapepe per
sottoporre a perizia il Celiento. Alla
perizia di ufficio, ordinata dal giudice
istruttore Felice Di Persia,
(noto per essere stato poi negli anni Ottanta,
uno dei giudici che istruirono il processo a Enzo Tortora) venivano subito affiancate le perizie di parte, con
illustri consulenti del settore. Per la parte civile venivano nominato i proff.
Longo e Fiorilli, mentre per l’imputato, nel giugno del 1976, veniva nominato, quale consulente di parte il
prof. Aldo Semeraro. Nel frattempo,
il prof. Giacomo Rosapepe, disattendendo il parere dei consulenti di parte
delle parti civile Prof. Vito Longo
e Alessandro Fiorilli, (che avevano
dichiarato il Ceriello in perfette condizioni mentali) riteneva il Celiento “affetto
da deliroide persecutoria in personalità psicopatica mista” e quindi
incapace di intendere e volere. Nel contrasto sorto tra periti, sulla pazzia presunta o reale
dell’imputato, il G.U. affidò ad un
collegio di psichiatri una superperizia. Furono, infatti, nominati i professori
Mario Fontanesi, libero docente di
antropologia criminale dell’ Università di Roma; Antonio Jaria, Direttore del I° Ospedale Psichiatrico della Pietà
di Roma e Ferdinando Pariante,
Direttore del II° Ospedale Psichiatrico di Roma. Gli stessi accertarono: “Una sintomatologia caratterizzata dalla
presenza di un delirio di persecuzione”. La Corte di Assise del Tribunale
di Napoli, presieduta da Renato
Mastroncinque, con giudice a latere Achille
Scura e pubblico ministero Aldo Cerullo Avallone che doveva giudicare o’ sargentiello per il secondo delitto accertava che il Celiento si
era costituito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mentre andava gridando…”Me vonno accirere”… Nel corso della
sua detenzione fu ricoverato più volte al manicomio di Aversa. In quella
occasione – interrogato – riferiva che “appena
entrato nel locale aveva visto il Pepe tirare fuori una pistola e che lui
allora aveva tirato fuori la sua e lo aveva ucciso”. Dichiarò, inoltre, “che era rimasto soddisfatto perché così si
era tolto un pensiero che lo assillava giorno e notte; che la notte non dormiva
e che pensava sempre di poter essere ucciso da Luigi Pepe che lo vedeva sempre
dattorno e vicino e che lo spiava e che, infine, la sua unica preoccupazione
gli veniva ora dalla famiglia del morto che corrompeva tutti: guardie e
giudici. Che le guardie gli mettevano gli scorpiglioni (scarafaggi) ed i
pidocchi nelle minestre. Che i pidocchi gli camminavano in testa e non riusciva
a prenderli. Ogni mattina marcava visita, ma non lo visitava nessuna. Il
Giudice di suo pugno annotò che Celiento ripeteva sempre le stesse cose e si
dimostrava disorientato e dissociato. Nel 1974, il direttore del manicomio di
Aversa segnalò che l’imputato (più volte ricoverato dal carcere al manicomio)
era affetto da una sindrome depressiva con idea di rovina su base psicoartenica. La Corte, per il secondo delitto, con le attenuanti del vizio di mente, lo condannò a 10 anni di manicomio.
Una considerazione amara su
alcuni personaggi di questo processo. Domenico
Ragozzino, psichiatra, direttore del manicomio di Aversa, condannato a 4
anni di reclusione per abusi di mezzi di contenzione si impiccò per il rimorso.
Giacomo Rosapepe, direttore del
manicomio di Napoli, nel 1974, venne accusato di favorire alcuni internati, in
particolare i criminali Vincenzo
Tolomelli, Raffaele Cutolo e Carmelo
Marotta. Gli inquirenti accertarono che questi criminali avevano goduto di
privilegi inconsueti, in particolare avevano effettuato e ricevuto telefonate
interurbane in teleselezione e internazionali. Inoltre, essi avevano libero
accesso all’abitazione privata (interna al manicomio) del direttore. Rosapepe
per questi fatti venne condannato a quattro anni di reclusione e
all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Poco dopo Rosapepe tentò il
suicidio, ma venne salvato in tempo. In appello la sentenza venne annullata
perché, secondo i giudici, i privilegi dei tre criminali erano giustificati da
precise “finalità psico-terapeutiche”.
Rosapepe, nonostante l’assoluzione, si uccise nel 1978. Vi sono numerosi dubbi
però sul suo suicidio. Parte della
documentazione rivela un rapporto intimo con alcuni camorristi internati - tra
cui Raffaele Cutolo - alcuni ne
parlano come di un caso di “ordinaria
ingiustizia”. Verso la metà degli
anni settanta, parallelamente alla sua attività medico-forense, ricoprì un
ruolo di cerniera tra formazioni dell'eversione di destra, degli ambienti della
criminalità organizzata e di frange deviate degli apparati di sicurezza, con
l’obiettivo di compiere o far compiere atti di violenza strumentali
all'eversione e alla destabilizzazione dell'ordine democratico. Personaggio
ambiguo che ha legato il suo nome a diverse vicende oscure della storia
italiana durante gli anni di piombo e della strategia della tensione: dalla
strage di Bologna, al sequestro del politico democristiano Ciro Cirillo, fino al delitto del giornalista Mino Pecorelli. I suoi propositi ideologico-criminali, spesso
perseguiti avvalendosi del supporto di malavitosi comuni, beneficiati
attraverso perizie psichiatriche compiacenti, furono la causa del suo
assassinio: il 1º aprile 1982, Semerari fu ritrovato decapitato all'interno
della sua auto a Ottaviano.
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