Il
fratello più giovane confessò il delitto ma era innocente. Una rissa con falce,
zappe e una lupara caricata a pellettoni… l’attaccamento alle tradizioni
contadini di farsi giustizia da sé.
L’antefatto
Il mattino del 19 agosto del
1948, in agro Casaluce, il contadino
18enne Pasquale Giannino, venne
ucciso con un colpo di fucile da caccia esploso alla nuca a meno di un metro di
distanza ( a bruciapelo). Nella sera dello stesso giorno il capraio Armando Sannino, di Luigi, da Aversa,
si presentò ai locali carabinieri e si dichiarò autore del delitto consegnando,
tra l’altro anche, anche l’arma del delitto: un fucile a 2 canne cal. 16 con
retrocarica. Raccontò che il mattino precedente, assieme al fratello Nicola Sannino, mentre lavorava nel
fondo paterno, contiguo a quello di Antonio
Sannino e Filomena Corvino, genitori
dell’ucciso, allorquando la donna aveva
affrontato il fratello Nicola, accusandolo di averle rubato numerose piante di
granturco nei giorni precedenti. Ne era nata una lite ed in appoggio alla
Corvino erano intervenuti quattro suoi figli e cioè: Pasquale Giannino, un
fratello e due sorelle, queste ultime
con un falcetto avevano ferito suo fratello Nicola. Nel frattempo, il Pasquale
Giannino si era armato di un fucile da caccia,
prelevato dalla sua vicina abitazione, tornando minacciosamente sul
posto ed egli si era affrettato a cercare di disarmarlo; ma nella colluttazione
era partito accidentalmente un colpo, e
mentre il fucile era rimasto nelle sue mani,
il Giannino era caduto ucciso. Sembrava un racconto logico ed esatto sulla
dinamica del delitto, ma non era né
logico (come si accerterà in seguito) né esatto. Nella stessa serata, infatti,
si presentava ai carabinieri anche Nicola Sannino, il quale confermava le
dichiarazioni di suo fratello Armando e, sottoposto a visita medica, risultò
ferito di escoriazioni all’avanbraccio
destro e lesioni da taglio per colpi di
falcetto alla regione super scapolare destra con una guarigione di circa 10
giorni. La competenza delle indagini venne spostata per territorio in quel di
Casaluce e gli inquirenti – dopo diligenti indagini della Fedelissima –
accertarono (contrariamente al fantasioso racconto fatto ai colleghi di Aversa)
che autore del delitto non era stato Armando Sannino, così come aveva
confessato ai carabinieri di Aversa, bensì Nicola Sannino. In base alle
indagini si accertò che nella notte tra il 7 e 8 agosto e il 25 e 16 agosto del
1948, ignoti ladri avevano tagliato e asportato un migliaia di piante di
granturco dal terreno dei coniugi Antonio Giannino e Filomena Corvino, e il
comandante della stazione, alla denuncia del furto, aveva convocato in caserma
Luigi Sannino, vicino di fondo dei due coniugi, per chiederli se avesse visto o
saputo qualcosa e per esortarlo a domandare ai suoi figli – ritenuti
capacissimi di commettere furti del genere. Luigi Sannino, presentatosi in caserma per essere
interrogato, disse persino di ignorare
che i suoi vicini avessero subito dei furti e si impegnò a comunicare ai carabinieri ogni notizia che avesse
appreso inerenti i furti stessi e subito si allontanò, apparentemente
tranquillo.
Il
delitto
Un’ora dopo Luigi Sannino,
giunto in campagna e visti i due figli dei suoi vicini, i giovani Alfonso e Armando Giannino, fece chiamare la loro madre Filomena Corvino, e appena sopraggiunta
la donna, la investì con insulti,
ingiurie e minacce e lagnandosi che
- per colpa sua – i carabinieri lo avessero convocato in caserma e
siccome era accorso sul luogo il marito della Corvino, Antonio Giannino, cercando di calmarlo, pure contro di lui si
rivolse il Giannino con frasi di grave minacce, senza che l’altro – uomo di
estrema mitezza e remissività – si azzardasse a reagire. Indi, richiamato dal
fischio del padre dal vicino terreno era sbucato come un bolide il figlio
Nicola Giannino, armato di falcetto, lanciandosi contro la Corvino. Lo aveva affrontato una figlia ventenne della
Corvino, Natalina Giannino, afferrandolo
e stringendolo a sé per immobilizzarlo e dare tempo alla madre di fuggire, ma
quegli aveva colpito la ragazza con il manico del falcetto al dorso e le aveva
assestato vari schiaffi, riuscendo a
liberarsi della sua stretta e raggiunto la Corvino l’aveva gettata a terra
assieme al marito percuotendola – in ciò coadiuvato dal padre Luigi Sannino,
nonché dal fratello Armando e gli
altri fratelli Carlo e Luigi,
ugualmente accorsi sul posto. Nella zuffa la corvino era riuscita a
togliere il falcetto dalle mani del Sannino e Armando Sannino, a sua volta,
aveva tolto la zappa al ragazzo Alfonso Sannino e con essa aveva cercato di
colpire Natalina Giannino che, però, aggrappandosi al suo collo, aveva potuto in parte schivare il colpo. Intanto
erano pure accorsi Fiorinda Caterino, figlio
di primo letto della Corvino, e quindi il suo giovane fratellastro Pasquale
Giannino e contemporaneamente Nicola Sannino si era distaccato dal gruppo dei contendenti per
riapparire, poco dopo, armato di fucile
a due canne e von esso aveva esploso un colpo contro Pasquale Sannino
uccidendolo. Secondo gli inquirenti,
Nicola Sannino (come del resto tutti a quell’epoca ed in quella zona
dell’agro aversano) teneva il fucile
celato in una baracca, situata ad una
trentina di metri di distanza nel fondo di tale Nicola Perfetto, presso la
quale i carabinieri avevano rilevato sul terreno una impronta di piede che era
risultato corrispondente – anche per il segno di una leggera imperfezione al
piede sinistro di Nicola Sannino. Questi, in due diverse dichiarazioni rese ai
carabinieri di Casaluce, aveva finito con riconoscersi autore del delitto
scagionando il fratello Armando – accusatosi in sua vece – ma insisteva col
dire che la questione era sorta per iniziativa della Corvino, e dhe il fucile non era affatto suo bensì
della vittima Pasquale Giannino al quale – a suo dire – era riuscito a
toglierlo. In particolare sulla circostanza – in un primo momento – il Sannino
dichiarò che nel corso della zuffa aveva visto il Pasquale Giannino che correva verso la sua abitazione
e ne era ritornato subito portando un fucile in mano a due canne.
Il
falso racconto dell’assassino
“Allora
- raccontò falsamente l’assassino – appena giunto a lui vicino, con atto
fulmineo, mi sono impossessato del fucile e ho diretto l’arma alla sua nuca e
contemporaneamente l’ho sparato. Non avevo, tuttavia, volontà di ucciderlo
unicamente perché in quel momento avevo perduto i sensi e non sapevo ciò che
facevo”.
In una seconda deposizione volle
aggiustare, ai fini difensivi il
tiro, e
dichiarò: “Preciso che quando
corsi incontro al Pasquale Giannino per
togliergli il fucile gli diedi uno schiaffo, ma egli trattenne ancora l’arma
che tentò di dirigere contro di me – al che il padre Antonio Giannino gli
assestò un altro schiaffo in conseguenza del quale egli abbandonò l’arma in
mano e si girò verso la strada di San Lorenzo. Fu allora che puntai l’arma e
feci partire il colpo. Appena egli cadde a terra la madre Filomena Corvino si avventò contro di me per togliermi
il fucile e nella circostanza mi diede un colpo di falce allo avanbraccio
destro”.
Dal canto suo Antonio Sannino,
al fine evidente di salvare suo fratello
essendo lo stesso – essendo lo ste4sso coniugato e con prole ed egli celibe – insisteva ancora nel
dichiararsi autore del delitto ma, dopo la prima confessione del fratello a sua
volta confessava ma ripeteva che la Corvino aveva dato causa alla lite accusando dei furti lui e suo fratello e quindi
aggiungeva a maggiore chiarimento: “ Nicola
andò contro di lei ma ella si difesa con uno zoccolo. Io che tagliavo l’erba
accorsi con la falce in mano. Rincorremmo
la Corvino – che si era data alla fuga – e la raggiungemmo dopo breve
distanza. Ebbe luogo, allora, una colluttazione nella quale ella cadde a terra
e io e Nicola la colpimmo più volte con
le mani e io le assestai anche un colpo di falce dopo di che reagii con due
schiaffi anche contro il marito Antonio Giannino – accorso dopo – il quale
implorava di non usare violenza contro
di lor. Subito dopo – vedendo il figlio Alfonso Giannino con una zappa in mano
- gliela tolsi e l’alzai contro Natalina
Giannino la quale si fece a me sotto e mi cinse il collo con le sue braccia e
la zappa cadde. Nel frattempo mio fratello Nicola – vedendo che Pasquale
Giannino arrivava con un fucile in mano – gli corse incontro e, dopo avergli
assestato uno schiaffo gli tolse detto
fucile. Il Giannino, intimorito, si girò indietro e stava per scapparsene, ma
mio fratello Nicola gli puntò il fucile contro e lo sparò”. Ma
all’epoca non era molto conosciuto lo stub o il guanto di paraffina, (tecniche
investigative per sottoporre ad esame lo sparatore) per cui difficile era la
perizia per stabilire se l’arma che sparò nel corso del delitto era il fucile
esibito ai carabinieri e se era vero o meno che si appartenesse all’ucciso o all’uccisore. Come è noto la tecnica si basava sul
rilevamento di diverse componenti dell’innesco e delle polveri di lancio dei
proiettili di arma da fuoco (solfuro di antimonio, nitrato di bario, stifnato
di piombo, nitrocellulosa, ecc.) che si vaporizzano all’atto dello sparo,
risolidificano rapidamente e si depositano sulle mani (specie sulle prime due
dita della mano che impugna l’arma), sul viso e sugli abiti della persona che
ha sparato, sotto forma di particelle microscopiche. Queste possono essere
rilevate chimicamente anche dopo alcuni giorni. L’inconveniente principale, che
ha portato gradualmente all’abbandono di tale tecnica, risiede nel fatto che i
reagenti utilizzati nella prova si comportano allo stesso modo con una
molteplicità di altre sostanze (fertilizzanti, saponi, solventi, ecc etc...),
offrendo un troppo elevato rischio di rilevare un “falso positivo”, e quindi,
in pratica, di portare all’incriminazione per delitti gravissimi anche persone
che fossero venute in contatto con una di queste sostanze per ragioni diverse
da quelle delittuose. A causa di tali inconvenienti, questo metodo è stato
soppiantato da una tecnica più specifica per la raccolta dei residui,
denominata stub (tampone) che consiste in un particolare tampone (o in
alternativa delle strisce adesive fissate a un supporto metallico) che viene
passato sulle mani e sugli abiti del sospettato. Le particelle sensibili sopra
descritte ed eventualmente raccolte in questo modo vengono poi individuate in
laboratori specializzati con l’ausilio di microscopi elettronici (associati a
microspettrofotometri), o mediante attivazione neutronica ed altre metodiche.
La Corte di Assise di Santa Matia Capua Vetere con la
concessione delle attenuanti generiche e della provocazione lo condannava ad
anni 14 di reclusione.
Al termine delle indagini i
carabinieri, con un loro rapporto,
denunciarono i fratelli Nicola
e Antonio Sannino, il padre Luigi, e gli altri fratelli, Carlo
e Luigi per concorso in omicidio e
rissa aggravata ed inoltre denunciarono anche Filomena Corvino, e i figli Alfonso
e Natalina e la figlia di primo
letto, Fiorinda Caterino. Intanto
l’autopsia aveva accertato che la morte di Pasquale
Giannino era avvenuta con un unico colpo di arma da fuoco a canna lunga
cal.16, caricato a pallettoni, ( la
cosiddetta “lupara” molto usata dalla mafia),
esploso a distanza ravvicinata a meno di un metro e mezzo e leggermente
dal basso verso l’alto e da tergo per il quale la vittima aveva riportato una
grossa ferita del diametro di 5 cm. all’occipite e alla base del cranio, con
spappolamento e fuoriuscita di sostanza celebrale. Si accertava, inoltre, che
Nicola Sannino era guarito in giorni 30, dalle sue lesioni e la Corvino e la figlia in giorni venti; l’una per una
ferita lacero-contusa e da varie escoriazioni ed ecchimosi e l’altra da una
contusione escoriata. La sezione istruttoria della Corte di Appello di Napoli
con sentenza del 4 maggio 1950, rinviava al giudizio della Corte di Assise del
Tribunale di S. Maria C.V. i fratelli Nicola e Armando Sannino e il loro padre Luigi, per rispondere il Nicola di omicidio
volontario, omessa denuncia e porto abuso di arma; tutti di lesioni con arma in
danno della Corvino e della Fiorinda Caterino. Nicola e Luigi Sannino,
inoltre, di ricettazione di effetti e oggetti dell’amministrazione militare;
(refurtiva rinvenuta in casa di Luigi dai carabinieri). Con la stessa sentenza
la sezione istruttoria proscioglieva Armando e il padre Luigi dall’addebito di
concorso in omicidio per insufficienza di prove. Proscioglieva la Corvino ed il marito Antonio Giannino, e i figli
Alfonso, Natalina e Fiorinda Caterino, per la rissa per non aver commesso il
fatto e per ingiurie e minacce perché il fatto non sussisteva. Infine
proscioglieva la Filomena Corvino da lesioni con arma in danno di Nicola
Sannino per aver agito in stato di legittima difesa.
La Corte di Assise di Santa Matia Capua
Vetere, composta da: Presidente Giuliano
La Marca, giudice a latere, Domenico
Musiccò, pubblico ministero, Filippo
D’Errico, ufficiale giudiziario Luigi
D’Isa, giudici popolari: Fabrizio
Zarone, Domenico Barbato, Francesco Balsamo, Renato Bova e Andrea Gentile, cancelliere Domenico Aniello condannò Nicola
Sannino per omicidio con la concessione delle attenuanti della provocazione e
quelle generiche ad anni 14 di reclusione.
Del verdetto – come è ovvio – nessuno fu contento e pubblico ministero e
parti si appellarono. L’imputato invocava la mancata concessione del motivo della legittima difesa ed in subordine
il beneficio dell’eccesso colposo di legittima difesa, l’esclusione della
volontà omicida e il minimo della
pena. La Corte di Assise di Appello di
Napoli, (Presidente Pasquale Falciatore, giudice a latere, Mario Sabelli, procuratore generale, Filippo D’Errico), giudicando Nicola
Sannino, di anni 23 all’epoca dei
fatti, accusato di omicidio premeditato
aggravato in danno Pasquale Giannino, appellante, contro la sentenza della
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del 24 aprile 1951, con la quale era stato condannato con la
concessione delle attenuanti generiche e della provocazione lo condannava ad
anni 14 di reclusione. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Biagio D’Angelo, Enrico Altavilla, Alberto Narni Mancinelli, Cesare Di
Benedetto e Ciro Maffuccini. La
Corte di Cassazione, intervenuta a
decidere sul ricorso, dopo
l’appello, acclarò che il conteggio della pena inflitta dalla Corte di
Assise di Santa Maria Capua Vetere era pianamente aderente alla realtà dei fatti anche se non
aveva indicato in modo esplicito le
ragioni che imponevano di limitare a quattro e a tre anni rispettivamente la
riduzione di pena per la provocazione e per le attenuanti generiche, tuttavia,
non ha mancato di giustificare la sua
decisione attraverso tutta la
motivazione della sentenza sicché l’imputato a nulla si può dolere.
Il primo
giudice – dissero i magistrati in ermellino – ha valutato con indulgenza anche
eccessiva la posizione dell’imputato in rapporto alle attenuanti”. Quanto alla
provocazione, infatti, l’attenuante risulta concessa perchè l’imputato nel
commettere il suo delitto – avrebbe agito in stato d‘ira - dovuto al duplice fatto ingiusto altrui; in
quanto egli già sarebbe stato ferito e
in quanto avrebbe avuto torto il giovane Pasquale Giannino ad intervenire e
armato in una lite che si svolgeva “a parole e con violenza di lieve entità”.
La Corte di Cassazione confermò in toto la sentenza.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Nessun commento:
Posta un commento