Accadde il 26 luglio del 1949 tra S. Maria a
Vico e S. Felice a Cancello
UCCISE IL
VICINO CHE INSIDIAVA LA GIOVANE NUORA
“L’ho
ucciso – dichiarò ai giudici - con lo
stesso coltello che scannavo i maiali, perché lui era un maiale e tale destino
meritava”.
La
mano omicida del contadino guidata dalla seconda moglie? In paese la chiamavano
“la strega” –
S. Maria a Vico – Con rapporto del
26 luglio del 1949, i carabinieri di
Santa Maria a Vico, denunciarono, in
stato di arresto, Sebastiano Jossa, di anni 49 e la moglie, Maria
Maddalena Jadaresta, di anni 54, il
primo per avere, con premeditazione cagionato,
mediante un colpo di coltello, la morte di Arcangelo Ferraro; la seconda per concorso nel delitto di omicidio
volontario, avvenuto in agro di S. Felice a Cancello il 24 luglio del 1949. I
carabinieri riferivano inoltre che lo
Jossa, rimasto vedovo con un figlio aveva,
in seconde nozze nel 1931, sposato Maria Maddalena Jadaresta la quale
era una donna di carattere malevole e
litigioso da tutti, in paese additata come “la
strega”, la quale oltre a rendere la vita impossibile al figliastro Michele Jossa, per i maltrattamenti continui
gli alienò pure l’affetto del padre con continue odiose calunnie. Il giovane esasperato
dalle vessazioni della matrigna, nel 1947, fu costretto a lasciare la casa
paterna e si recò a fare il garzone ad Acerra, sposandosi poi – senza il
consenso paterno – con certa Giovannina
Papa e tanto fece esasperare la malevolenza
della matrigna, pur essendo la novella sposa sua lontana parente e ciò acuì
ancora di più il dissenso perché mal vedeva il celebrato matrimonio.
A
te la mala Pasqua!
Nelle festività della Pasqua del
1949, Michele Jossa – che aveva vivissimo il desiderio di riconciliarsi con il
padre - andò a casa di lui con la moglie chiedendogli il perdono di quanto era
avvenuto e il padre finì col riconciliarsi col figlio anche – per lo intervento
del vicino di casa – tale Arcangelo Ferraro. Questa pacificazione non fu
gradita dalla matrigna la quale fu
capace di montare di nuovo il marito
contro il figlio in modo che quest’ultimo – quando si presentò dal padre –
alcuni giorni dopo – venne di nuovo cacciato con epiteti volgari ed
irripetibili e con argomentazioni
calunniose e sibilline (si adombrava una passione morbosa del vicino con
la nuora e l’accondiscendenza pacifica del giovane marito) ma, come poi accerterà
il processo, era una mistificazione inventata dalla strega, una semplice, evidente calunnia, che aveva lo scopo di
mettere il padre contro il figlio. Il tutto dispiacque molto al paciere, Arcangelo Ferraro (che in paese era ritenuto
uomo che non si faceva passare la mosca per il naso)perché avendo egli voluto
il riavvicinamento considerava l’operato di Sebastiano Jossa come un affronto
fatto a lui. La sera del 23 luglio del 1949, sorse una animata discussione tra
i coniugi Jossa-Jadaresta, da una parte, e il Ferrara dall’altra, sempre sull’opportunità
di una pacificazione dello stesso con il figlio – ed il Ferrara – ad un certo
momento – uscì con la frase. “Se voi non
la finite col mio nome vi faccio uscire il sangue dai denti a schiaffi”.
Il
racconto dell’assassino
Questa discussione non ebbe
ulteriore seguito, ma il giorno successivo, mentre il Ferraro si tratteneva nel suo fondo, col nipote Luigi Ferraro, giunse verso le 7,30 lo
Jossa il quale si fermò fuori il filo spinato che recingeva il podere. Il
Ferraro – nel notare la presenza dello Jossa – uscì con una frase con la quale
faceva intravedere che “non si
impressionava dell’altro e qualche giorno gli avrebbe fatto uscire il sangue dal
naso”. Nell’udire ciò lo Jossa entrò nel podere si lanciò sul Ferraro e gli
vibrò un tremendo colpo di coltello, a forma di pugnale, in una regione
vitalissima uccidendolo. Indi, dopo aver riferito alla moglie quello che aveva commesso si presentò ai carabinieri
e nel confessare il fatto – e la sua
ferma volontà di aver voluto uccidere il Ferraro – disse che la moglie era a
conoscenza della sua decisione e nulla aveva fatto per dissuaderlo, anzi, gli aveva raccomandato di non farsi
sopraffare dall’avversario. Secondo gli inquirenti una vera e propria chiamata di correità nell’efferato
delitto. Tale evenienza, però, nel corso del dibattimento venne totalmente
esclusa. Infatti fu la stessa Jadaresta,
come era prevedibile, davanti alla probabile condanna per concorso in omicidio,
con lo scettro di un ergastolo, negò di aver determinato il marito ad uccidere
il Ferraro e negò addirittura di essere a conoscenza di tale proponimento.
Nel
prosieguo delle indagini si accertò che il Ferraro riportò ferita al secondo
spazio intercostale sinistro, ad un dito circa dal margine sternale, prodotta
da arma da punta e taglio che ledendo l’arco aortico produsse imponente emorragia causa unica
della morte. Lo Jossa, interrogato dal Giudice Istruttore confessò di avere
volontariamente ucciso il Ferraro, colpendolo al petto con un coltello, anzi,
precisò al magistrato che rimase basito:“L’ho
ucciso con lo stesso coltello che scannavo i maiali, perché lui era un maiale e
tale destino meritava”. Precisò, inoltre, che fu spinto al delitto per le
minacce pronunciate la sera precedente dal Ferraro, all’indirizzo suo e di sua
moglie, onde temendo che il Ferraro potesse attuare la minaccia stessa, la
mattina del delitto, prima di uscire di casa si era armato del coltello.
Dovendo recarsi da un suo cognato passò da una stradetta sulla quale dà il
podere del Ferraro.
Propositi illeciti verso la giovane nuora
Il Ferraro – che si intratteneva
con un nipote, nel vederlo, lo invitò a fermarsi, egli allora estrasse senz’altro lo
scannatoio – e poiché il Ferraro gli si avvicinò con l’evidente intenzione
di disarmarlo – e percuoterlo, egli lo aveva colpito. Ammise, tra l’altro, che una certa animosità
esisteva tra la moglie e il Ferrara perché costui riteneva che la Jadaresta era
colei che ostacolava la pacificazione tra lo Jossa ed il figlio ma negò – in
modo reciso – che la moglie lo aveva istigato comunque determinando il delitto.
Spiegò infine che, secondo la sua convinzione,
l’intervento del Ferraro per la pacificazione col figlio nascondeva reconditi
propositi illeciti verso la giovane nuora. E’ questa allora la chiave di
lettura del barbaro omicidio? E’ questo il movente del delitto? Se è vero -
come affermò il grande penalista Alfredo
De Marsico – che il movente è il caleidoscopio del delitto
qui abbiamo la prova che quel motivo spinse il contadino all’omicidio. Ma
questa tetra pagina della vita dei personaggi non emerse dal chiaroscuro del processo.
Dal canto suo la Jadaresta, negò
comunque di aver istigato il marito a commettere il delitto, anzi dopo l’uscita
di casa di costui – avendo notato che si dirigeva verso il fondo del Ferraro –
invitò Domenico Ferraro, a seguirlo
per impedirgli eventuali litigi. Il tutto confermato dai testi: Luigi Ferraro, Antonietta Ferraro,
Crescenzo Esposito, (notarono che dopo il delitto lo Jossa aveva la camicia
intrisa di sangue);Vincenzo
Giglio,Antonietta Giglio,Giovanni Sgambato; (a loro disse, passandogli
accanto, dopo il delitto: “Andate a piangere Arcangelo Ferraro, perché io l’ho
ucciso e adesso vado a costituirmi dai carabinieri”. La frase che i giudici
ritennero – ai fini della esclusione della premeditazione – precisa, certa,
imponente, sicura.
Nel corso della lunga e complessa istruttoria col rito formale, furono escussi numerosi testimoni ed il
Procuratore Generale a chiusura della stessa chiese il rinvio a giudizio per lo
Jossa ed il proscioglimento della Jadaresta dalla imputazione di concorso in
omicidio per insufficienza di prove.
Ma la Sezione Istruttoria della Corte di Appello la pensò diversamente e in
parziale difformità della richiesta della Procura , con sentenza del 21 luglio
del 1950, ordinò il rinvio a giudizio di entrambi gli imputati pur escludendo
la premeditazione. Gli inquirenti ci
tennero a precisare che l’imputato non
aveva alcun motivi per armarsi quel giorno – scrissero – di uno scannatoio
usato per uccidere i maiali: ci tenne a portarlo nascosto lungo la via nel
mentre si recava davanti a dove lavorava il Ferraro senza alcuna ragione si
fermò davanti a tale fondo assumendo un atteggiamento che fu ritenuto
minaccioso dal Ferraro, il quale, lontano dall’intuire le effettive intenzioni,
lo parodiò dicendo: “Quello fa sempre il baone con la bocca”, determinando
l’immediata reazione dello Jossa”.
LA CONDANNA FU A 16
ANNI DI CARCERE. LA MOGLIE VENNE ASSOLTA PER INSUFFICIENZA DI PROVE DAL
CONCORSO IN OMICIDIO
Sebastiano
Jossa, difeso dagli avvocati Enrico
Altavilla e Vittorio Verzillo,
venne condannato ad anni 16 di reclusione dalla Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere (Presidente Giulio La Marca,
giudice a latere Domenico Musicco;
giuria popolare composta da: Giulio
Canzanella, Gaspare Caliendo, Guido Iaselli, Domenico Renga e Antonio La Milza.
La parte civile, in persona dalla moglie della vittima e dal figlio Giovanni, fu rappresentata dagli
avvocati Giuseppe Fusco, Cesare Di Benedetto e Francesco Gesuè, che a conclusione delle loro arringhe, chiesero l’affermazione della responsabilità
per entrambi gli imputati ed il risarcimento del danno.
La pubblica accusa, al termine della requisitoria chiese una
condanna a 16 anni di reclusione per il solo Jossa – con la esclusione delle
aggravanti della premeditazione e con la concessione delle attenuanti generiche
- e l’assoluzione della Jadaresta, per non aver commesso il fatto. Il difensore
della Jaderesta, (dopo la richiesta di
proscioglimento)si associava alla istanza del pubblico ministero; mentre la
difesa dello Jossa chiedeva la
concessione delle attenuanti generiche, quelle della provocazione ed il minimo
della pena.
La Corte ritenne che il
comportamento dello Jossa post delictum, era stato meritevole
di attenuanti per avere egli dichiarato che in contrada Limatola aveva
deliberatamente ucciso il Ferraro. Ravvisarono, inoltre un comportamento
univoco con le stesse dichiarazioni sia ai carabinieri, al giudice istruttore
ed in dibattimento dissero i giudici che si trattava di confessioni libere,
spontanee e piene di fede.
“Lo Jossa – scrissero ancora i
giudici di primo grado – dopo il delitto – con la cosciente volontarietà
dell’azione delittuosa compiuta – riferì a quanti incontrava - lungo il suo percorso a ritrosa dalla scena
del delitto di ave ucciso il Ferraro. La Corte negò la premeditazione e
sentenziò: “E’ fuori dubbio che la discussione avvenuta la sera prima,
attraverso un lavorìo mentale di rimuginazione, attivato dalle blaterazioni
della moglie – dovè far sorgere – nello Jossa
l’idea del delitto - ma non è dato indurre se tale idea avesse raggiunto
la fase della risoluzione prima del mattino”.
“Se egli si fosse dovuto procurare
l’arma – scrisse ancora la Corte – e ciò avesse fatto durante la notte –
sarebbe stato agevole sostenere la premeditazione, ma il coltello egli l’aveva
già in casa e non fu necessario neppure una preparazione per renderlo atto
all’uso (gli era servito per scannare i maiali della sua fattoria). “Ora non
sembra che questo particolare fare abbia raggiunto la risoluzione criminosa
dello Jossa nel breve periodo di tempo in cui egli si armò e si recò presso il
fondo del Ferraro per compiere la sua vendetta”.
La difesa aveva chiesto che – oltre
ala esclusione della aggravante della premeditazione – anche il beneficio della
provocazione e delle attenuanti generiche. I giudici rigettarono la richiesta
della difesa relativamente alla provocazione. Non vi era il fatto ingiusto del
soggetto passivo atto a provocare lo stato d’ira che abbia dato impulso a
commettere il reato. Mentre concessero le attenuanti generiche. Per
l’assoluzione della moglie dell’assassino (restava comunque un concorso morale)
“certo non è da escludersi – scrissero i giudici - ed anzi può senz’altro ritenersi che l’opera
sobillatrice di questa donna la quale dopo la pacificazione del marito col
figlio era riuscita a mettere di nuovo il marito contro il figlio – dovette
influire notevolmente sullo spirito dello Jossa ispirandogli quei sentimenti di
odio e di vendetta in cui concepì ed attuò il delitto. Ma da questo alla
istigazione - sia nella forma primaria della determinazione che in quella
secondaria dell’eccitamento e del rafforzamento di una risoluzione già presa ci
corre”. La donna fu assolta “per non aver commesso il fatto”. La condanna
definitiva fu di anni 21, meno 5 per le attenuanti, e quindi a 16 anni e a 2
mesi di arresto per il coltello. Fu sottoposto a misura di sicurezza
(sorveglianza speciale) per 3 anni a pena espiata.
In grado di appello, il 15 febbraio del 1952, giudicato dalla Corte di Assise della Corte di Appello
(Presidente Nicandro Siravo, giudice a latere Gennaro Guadagno, procuratore
generale, Francesco Ventriglia) la
sentenza venne confermata.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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