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giovedì 12 ottobre 2023

 LA GUERRA A ISRAELE 

QUARTA PAGINA
«Dio non sta
con gli assassini»
Muhammad Alì
Preparazione
Due anni Il Diluvio al Aqsa, iniziato alle 6.30 di sabato con una pioggia di razzi sulle postazioni israeliane al confine con Gaza, era del tutto inaspettato. Hamas lo stava preparando da due anni. A rivelarlo è il dirigente di Hamas, Ali Baraka, intervistato l’8 ottobre dall’emittente Russia Today.

Resistenza «Negli ultimi due anni abbiamo adottato un approccio razionale, non ci siamo fatti coinvolgere in alcuna guerra e non ci siamo uniti alla Jihad islamica nelle sue ultime battaglie, e questo faceva parte di una strategia. Volevamo dimostrare che eravamo solo impegnati a governare, anzi che avevamo abbandonato del tutto la resistenza» (Ali Baraka)

Permessi Lo scopo era quello di far credere agli israeliani che fosse possibile dialogare con l’organizzazione terroristica che governa la Striscia, che addirittura si sarebbe anche potuto aumentare il numero di permessi per i palestinesi che da Gaza ogni giorno andavano in Israele a lavorare [Ventura, Mess].

Made in Gaza In questi due anni «l’Iran ha aiutato Hamas a fabbricarsi le armi da sé, all’interno della Striscia. Si sono creati degli arsenali. Abbiamo fabbriche locali per tutto: razzi con gittata superiore ai 250 chilometri, 160, 80 e 100. Costruiamo tutto a Gaza» (Ali Baraka).

Proiettili Poi una rivelazione che illumina il rapporto tra questa guerra terroristica e l’altro terrorismo che opera in Ucraina. «Fabbrichiamo i proiettili su licenza dei russi. Loro simpatizzano con noi». Una scelta che peserà, o già pesa, sull’approccio di Israele al conflitto russo-ucraino. Ufficialmente Putin finora ha tenuto una linea di equidistanza, mantenendosi pericolosamente in bilico sul crinale tra Hamas e Israele, con un invito generico a cessare le ostilità al più presto e a non colpire i civili. Ma sui canali Telegram la verità è esplosa in tutta la sua evidenza e violenza. Perché i canali legati al fronte nazionalista russo e agli ex Wagner rivelano che stanno dalla parte di Hamas, in chiave anti-americana e anti-occidentale [Ventura, cit.].

Islamici «Le popolazioni arabe islamiche sono dalla nostra parte» (Ali Baraka).

Qatar È ormai chiaro che l’aiuto finanziario e politico del Qatar (dove vive la leadership del gruppo) e quello ancor più decisivo, militare e tecnologico, dell’Iran sono stati fondamentali per consentire ad Hamas di compiere la storica operazione di sabato scorso. Ma Hamas può contare su un esteso sistema di supporto anche in Occidente, dove network legati a filo più o meno stretto con il gruppo operano dagli anni Novanta tramite le Ong [Vidino, Rep].

Zero «Né i nostri amici all’estero né le altre formazioni palestinesi conoscevano l’ora zero. È stata tenuta completamente segreta. Il numero di chi la conosceva si può contare sulle dita di una mano» (Ali Baraka).

Soldato Un soldato ha raccontato al sito “The hottest place in the hell”: «Mi ero appena svegliato quando è iniziato l’attacco, non sapevamo cosa fare». I miliziani di Nuvka, reparto scelto di Hamas, hanno accecato i sistemi di sorveglianza centrandoli con i cecchini mentre le torri dotate di mitragliatrici guidate in remoto sono state distrutte dai droni. C’è chi dice che abbiano fatto ricorso anche a mezzi elettronici, particolare da confermare [Olimpio, CdS].

Intelligence Pochi gli elementi esperti, tra i primi a morire, come un plotone della Brigata Golani spazzato via. Eppure l’intelligence israeliana aveva rilevato, nella notte, movimenti inusuali. E li aveva comunicati con dei dispacci. Ma «o non sono stati presi in considerazione, o nessuno ha letto i dispacci», sottolinea Baraka.

Allarme L’esercito e lo Shin Bet hanno deciso di non innalzare il livello d’allarme. Lo schieramento difensivo, così, è rimasto debole. Per diversi motivi: la fiducia nel muro e nei sensori; i battaglioni impegnati in Cisgiordania a tutela delle colonie; l’idea che il nemico non sarebbe stato in grado di portare azioni estese; la concomitanza della festività (il sabato) [Olimpio, CdS].

Droni Hamas ha lanciato droni per disattivare le stazioni di comunicazioni cellulari e alcune torri di sorveglianza lungo il confine, in modo da accecare i sensori e le telecamere che erano il fiore all’occhiello degli israeliani, e distruggere anche i mitragliatori, pure quelli privi di operatore in presenza, manovrati da lontano. A quel punto è stato l’inferno nei villaggi e nei kibbutz [Ventura, Mess].

Abilità I rapporti – ancora sommari – forniscono delle tracce: alcuni invasori erano travestiti da soldati israeliani e sono riusciti a ingannare le sentinelle, a sorprendere gli automobilisti che credevano invece di aver trovato un soccorso; altri sono stati aiutati da qualche operaio palestinese che ha fatto da guida; sui cadaveri dei miliziani sono state recuperate schede con i punti deboli dei tank israeliani, foto di mappe satellitari con i target. A questo si è aggiunta l’abilità di far passare le esercitazioni con deltaplani, esplosivi e battelli come routine [Olimpio, CdS].

Esfiltrazione Sempre a detta di Baraka (ma possiamo credergli?), dagli Hezbollah libanesi all’Iran, fino ai Paesi che ostentano una ostinata equidistanza tra Israele e palestinesi, tutti sarebbero stati informati dell’operazione solo a esfiltrazione completata. E soltanto mezz’ora dopo, una mezz’ora cruciale, «abbiamo contattato tutte le fazioni della resistenza, come pure i nostri alleati Hezbollah, e l’Iran, e i turchi». Alle 9 si sarebbe quindi tenuto un meeting. «Anche i russi ci hanno mandato un messaggio e li abbiamo aggiornati sulla situazione e sui nostri obiettivi di guerra» [Ventura, Mess].

Mujaheddin Qualunque resistenza si è dissolta davanti all’urto di oltre mille mujaheddin, loro stessi sorpresi dalla rapidità dell’avanzata. Lo ha confermato Salah al Aruri, numero due del politburo: in tre ore avevamo raggiunto il pieno controllo del territorio [Olimpio, CdS].

Ore Una ricostruzione del New York Times ha calcolato quanto tempo è passato dal momento dell’attacco alla liberazione di alcune località. Nir Oz: 8,5 ore. Raduno rave: 8 ore. Kfar Aza: 20 ore. Be’eri: 7,5 ore. Una «finestra» lunghissima, la cronaca di un’agonia [ibid.].

Rimorso Dal governo escono le prime parole di rimorso: «Tutto è successo mentre noi eravamo al potere, saremo ritenuti responsabili», ammette Yoav Kisch, il ministro dell’Educazione. Anche Herzi Halevi, il capo di Stato maggiore, riconosce che «sabato mattina abbiamo mancato al nostro dovere di proteggere lo Stato e i suoi cittadini. Ci saranno inchieste, impareremo dagli errori commessi. Ma adesso è il momento della guerra» [Frattini, Rep].

Colpe Un sondaggio del Dialog Center, pubblicato ieri e rilanciato dal Jerusalem Post, rivela che quattro israeliani su cinque ritengono il governo e Netanyahu responsabili dell’infiltrazione di massa dei terroristi di Hamas. L’86% ritiene che l’attacco sia un fallimento della leadership. Il 56% pensa che Netanyahu dovrà dimettersi dopo la fine della guerra [Avvenire].

Liberazione Ieri l’esercito di Israele ha pubblicato un video su X (ex Twitter) in cui mostra la liberazione di «250 ostaggi» dalla postazione militare di Sufa a Gaza. Il filmato si riferisce al 7 ottobre scorso. Nell’operazione 60 terroristi sono morti e 26 sono stati arrestati [Open].

Ostaggi Gerusalemme ha dovuto comprendere cosa era avvenuto, mettere insieme i rinforzi, dare la caccia ai fedayn. Intanto il nemico portava via oltre cento ostaggi lasciandosi dietro i corpi ammassati delle vittime e un Paese traumatizzato [Olimpio, CdS].

Scambio Nel video si accenna, poi, alla possibilità di uno scambio di prigionieri tra gli ostaggi civili, che si trovano a Gaza, un centinaio già identificati, e i detenuti palestinesi non solo nelle carceri di Israele, ma degli Stati Uniti. «Li vogliamo. Naturalmente» [Ventura, Mess].
Jde
Tunnel
di Gianluca Di Feo
la Repubblica
La guerra non si deciderà nell’alto dei cieli, dove l’aviazione israeliana continua a bombardare Gaza, ma nel profondo degli inferi: nella rete di cunicoli costruiti dai jihadisti sotto la Striscia e sotto il confine libanese. Vere fortezze sotterranee, che si ramificano su più livelli per decine di chilometri, dove sono asserragliati i combattenti più esperti e le armi migliori. Ma se nel passato queste catacombe avevano soprattutto una funzione difensiva, adesso sono state trasformate in basi d’assalto.
I maestri in queste opere ingegneristiche sono gli hezbollah libanesi, che hanno ricevuto il supporto di tecnici iraniani e nordcoreani. Il movimento sciita nell’ultimo decennio ha moltiplicato le sue capacità militari: l’intervento nel conflitto in Siria gli ha permesso di perfezionare le tattiche di combattimento. All’ombra di Damasco si sono forgiate intese inedite tra fondamentalisti sciiti e sunniti di tutto il mondo arabo: probabilmente anche il piano per l’attacco di Hamas è stato concepito in questo crogiolo del terrore, fornendo competenze e addestramento ai palestinesi che sabato hanno aggredito Israele e che ora attendono l’irruzione dei tank a Gaza.
Hezbollah ha una legione di veterani che da anni si prepara a colpire Israele: l’“Unità Radwan”,dal nome di battaglia di Imad Mughniyeh, il numero due del movimento ucciso dal Mossad nel 2008. Si tratta di 2.500 uomini, con equipaggiamenti moderni, che sanno muoversi alla perfezione nell’oscurità e conoscono a memoria la ragnatela creata sotto il confine libanese. Un rapporto del centro studi Alma sostiene che abbiano realizzato una linea Maginot lunga 45 chilometri. I castelli scavati nella roccia dispongono di gruppi elettrogeni, riserve d’acqua e prese d’aria con filtri a prova di gas. Custodiscono le scorte di ordigni per bersagliare le città israeliane, con postazioni per lanciare i razzi chiuse da portelli che nascondono il calore ai visori infrarossi. Da tempo i tentacoli invisibili si sono spinti oltre la frontiera: grazie a unarete di sismografi e sensori acustici, nel 2018 i genieri delle Israel Defense Forces hanno individuato otto cantieri. Quello che si è visto a Gaza però fa ipotizzare che l’operazione non abbia fermato il lavoro delle talpe ma le abbia soltanto spinte ancora più in basso.
Il sottosuolo infatti è teatro di un duello silenzioso per cogliere i rumori dell’avversario. La stessa sfida che ha spesso deciso gli assedi dal Cinquecento alla Prima guerra mondiale, quando non solo intere trincee venivano inghiottite dall’esplosione delle gallerie ma persino le cime delle Alpi: nel 1918 gli austriaci hanno sbriciolato la vetta del Pasubio. Orrori del passato? No, molti analisti temono che questo possa essere un capitolo della nuova guerra. Due volte Hamas ha usato i cunicoli per far saltare in aria le torrette sul Muro. Ma gli israeliani potrebbero ribaltare lo scenario, perforando il ventre di Gaza per demolire con il tritolo gli antri jihadisti, seppellendo razzi e uomini. Dal 2013 il quartier generale considera i tunnel “una minaccia s trategica” e il battaglione del genio guastatori Yahalom è stato convertito alla nuova missione. La punta di lancia è la compagnia Samoor (donnole) che deve lottare nelle catacombe. Sono gli eredi dei fanti americani che penetravano nei labirinti vietcong, descritti da Michael Connelly ne La memoria del topo :i marines strisciavano armati di torcia e pistola, gli israeliani mandano avanti i robot. A Tel Aviv c’è un pool di scienziati, “the Brain”, che inventa sistemi innovativi, in gran parte top secret, per individuare ed espugnare i tunnel. L’ultimo è il minuscolo drone volante Lanius, dotato di intelligenza artificiale: un pipistrello capace di riconoscere nel buio i terroristi dai civili e se serve abbatterli. Queste macchine scambiano dati con altri automi, gestendo da soli i raid senza esporre gli umani alle trappole. Ma la convivenza tra robot e soldati non sempre è idilliaca e spesso gli incursori preferiscono fare di testa loro, come il generale Rafi Milo che nel 2018 fu punito per essere entrato in una galleria: «Comando dei combattenti – fu la sua risposta – non posso rinunciare a rischiare».
Gianluca Di Feo
Basile
di Massimo Gramellini
Corriere della Sera
Ogni guerra ha l’Orsini che si merita. A questo giro ci tocca l’ex ambasciatrice Elena Basile. Appena appare in tv, corro a indossare sciarpa e cappotto, tale è il gelo che emana dai suoi modi ma soprattutto dalle sue parole, rigorosamente a senso unico. L’algida signora riduce ogni vicenda umana a un mero calcolo di interessi e rapporti di forza. L’altra sera dalla Gruber è stata capace di far uscire dai gangheri persino il mite Cazzullo. Basile deprecava che Hamas avesse preso pochi ostaggi americani: se fossero stati di più, questo il ragionamento da premio Nobel per il cinismo, Biden sarebbe stato costretto a negoziare. L’idea che gli ostaggi siano da compatire tutti alla stessa maniera in quanto esseri umani, a prescindere dal fatto che la loro nazionalità li renda merce pregiata per una trattativa, deve apparirle una concessione al romanticismo (come «democrazia» e «libertà», cascami occidentali privi di significato che non le suscitano alcuna emozione). A meno che la ex ambasciatrice consideri gli americani un po’ meno umani degli altri. Ipotesi non scartabile a priori, dal momento che in ogni controversia, sia essa la terza guerra mondiale o un litigio di condominio, Basile si schiera immancabilmente dalla parte opposta a quella degli odiati anglosassoni. Ma ci sta: ciascuno è responsabile delle proprie opinioni e ha diritto di argomentarle dove e come meglio crede (in Occidente, almeno). Anche a rischio di trasformarsi in una macchietta.
Massimo Gramellini
Piccolo show ieri sera della dottoressa Basile a PiazzaPulita. Dopo aver esposto le sue idee ha interrotto più e più volte gli altri ospiti, anche quelli che le davano ragione. Ogni volta che Formigli dava la parola a uno di loro lei si lagnava («Se però non mi fa parlare...»). Infine, dopo aver dato dell’incapace al conduttore («Se lei non riconosce che sono la voce del dissenso allora non è un giornalista»), la signora s’è alzata e se ne è andata [Open].


QUINTA PAGINA
«Appena le donne
smetteranno di legge

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