"Se non mi dai i soldi ti lascio", il ricatto affettivo è reato,
rischi il carcere: nuova sentenza di Cassazione
Per la Cassazione,
minacciare la rottura di una relazione per ottenere denaro è una vera e propria
estorsione punita dal Codice Penale. Vediamo cosa ha detto la Corte
Minacciare il partner di lasciarlo se non
acconsente alle richieste di versamenti in denaro non è un semplice ricatto affettivo,
ma può costituire una vera e propria estorsione, prevista dall’art. 629 del c.p. e punita con la pena base della reclusione da cinque a dieci
anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.
L’estorsione consiste, secondo la norma appena citata, nel procurare a sé o ad
altri un ingiusto profitto con altrui danno mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a
fare o ad omettere qualche cosa.
Esaminiamo insieme i fatti che hanno dato origine alla pronuncia della Suprema
Corte, la n. 12633/2024.
A ricorrere in Cassazione è un uomo, condannato sia in primo che
in secondo grado per i delitti di estorsione (art. 629 c.p., appunto) e atti
persecutori (art. 612 bis c.p.), commessi in danno della compagna.
Tra i fatti oggetto dei capi di imputazione vi era anche, per il profilo che
qui specificamente affrontiamo, la minaccia di mettere fine alla
relazione se la donna non gli avesse versato determinate somme di
denaro.
Su cosa era basata la linea difensiva dell’imputato? Nel ricorso per cassazione, la difesa dell’uomo
sosteneva, in primo luogo, l’inutilizzabilità dei messaggi
WhatsApp in quanto acquisiti in assenza di un provvedimento motivato
dell’autorità giudiziaria.
Questo motivo di impugnazione è stato
sconfessato dalla Corte, la quale ha evidenziato che i messaggi WhatsApp non
erano stati acquisiti dalla polizia giudiziaria, bensì prodotti
direttamente dalla persona offesa, che li aveva allegati
alla propria denuncia.
Pertanto, ha ribadito la Cassazione, i
messaggi WhatsApp vanno considerati alla stregua di prove documentali ex art. 234 c.p.p.: per questo motivo non si applica né la disciplina sulle
intercettazioni né quella sull’acquisizione di corrispondenza (art. 254 c.p.p.).
Ma veniamo all’oggetto specifico della nostra trattazione. Sempre secondo la
linea difensiva dell’imputato, infatti, la coppia era solita utilizzare nei
rapporti reciproci un linguaggio “forte”: tale tipo di comunicazione tra i due
partner doveva considerarsi - sempre secondo la tesi degli avvocati dell’uomo -
del tutto consensuale, accettato quindi di buon grado dalla donna.
Anche in questo le argomentazioni della difesa sono state rigettate dalla
Suprema Corte. Gli Ermellini, infatti, hanno affermato che anche la presenza di
un linguaggio dai toni spinti all’interno del ménage della
coppia non legittima certo “le pesanti offese, gli insulti,
le minacce di morte e il reiterato disprezzo” costantemente rivolti
dall’uomo nei confronti della moglie; moglie che si trovava, al contrario, in
una situazione di “prevaricazione e sudditanza psicologica”.
.
Sulla base di queste premesse, la Cassazione ha condiviso le motivazioni della
sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva escluso che i versamenti di
denaro richiesti alla donna dal partner fossero il frutto di una libera scelta
della vittima.
Invece, tali versamenti dovevano considerarsi effetto di una vera e
propria estorsione.
Al riguardo, la Suprema Corte sottolinea che la minaccia può essere esercitata
sia con toni apertamente aggressivi, sia in modo più subdolo, in
maniera comunque tale da incutere timore e “coartare”,
cioè costringere, forzare la volontà della vittima.
Il che può avvenire, precisa la sentenza in esame, anche per mezzo della
minaccia di rompere una relazione sentimentale, che assume i contorni di un
vero e proprio ricatto: o meglio, in termini giuridici, di una estorsione.
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