Paganini: il ‘’violinista del diavolo’’ era, in realtà, un altruista

Il “violinista del diavolo” era buono. Chissà se Niccolò Paganini avrebbe gradito questa rilettura della sua vita. Se davvero aveva stretto un patto con Satana, come dice la leggenda. Se la sua fama sia uno dei primi esempi di artista che, oltre al genio, ha mostrato talento nel coltivare l’immagine. E il look: capelli lunghi e basette che coprono d’ombra il suo viso come nel ritratto di Paul de Pommeyrac. Oppure se, come in tanti di noi, nel musicista genovese convivevano miserie e grandezze.
Di Paganini sono noti aneddoti fantasiosi che lo dipingono assassino di rivali d’amore o serial killer che ricavava le corde degli strumenti dalle viscere delle vittime. Ma anche episodi reali: nel 1815 finì in cella nel Palazzo Ducale di Genova per “ratto e seduzione” di Angiolina Cavanna, la sua amante.
A 243 anni dalla nascita (27 ottobre) il messaggio che conosciamo è affidato alle note. Al Trillo del diavolo, demoniaco nel nome come negli staccati e nei pizzicati composti per far impazzire i violinisti. Per metterli di fronte ai propri limiti.
Per capire Paganini, però, non bisogna affidarsi soltanto alla sua arte. L’occasione potrebbe essere il concerto di beneficenza che si terrà domenica al Carlo Felice di Genova. Il vincitore appena proclamato del Premio Paganini suonerà il Cannone (un Guarnieri del Gesù) che appartenne a Niccolò per i bimbi dell’ospedale Gaslini. Direte voi: un evento benefico in nome del violinista del diavolo cui il vescovo di Nizza negò la sepoltura in terra sacra? La risposta va cercata nella corrispondenza del musicista. “Darò un concerto al gran teatro a beneffizio dei malati. Il ministro ha gradito sensibilmente la mia offerta, ed ordinò che fosse messo il teatro a mia disposizione. Rossini è fuggito dalla paura. Io, al contrario, nulla temo dal desiderio di essere utile all’umanità”, scrive Paganini nel 1831 a Parigi. Parla del concerto che ha organizzato per i malati di colera. Uno dei tanti. Nel 1835 visita l’ospedale di Genova, dona una fortuna ai ricoverati.
È questo il violinista del diavolo? Ma leggete la lettera che nel 1838 scrisse a Hector Berlioz che non navigava in buone acque: “Mio Caro Amico, Beethoven spento, non c’era che Berlioz che potesse farlo rivivere; ed io che ho gustato le vostre divine composizioni, degne di un genio qual siete, credo mio dovere di pregarvi a voler accettare, in segno del mio omaggio, 20 mila franchi”.
Niccolò era (anche) questo. Chissà se lo sanno i ragazzi che in questi giorni si cimentano al Carlo Felice nei suoi equilibrismi musicali per aggiudicarsi, appunto, il Premio Paganini, uno dei più prestigiosi al mondo. Lo spettacolo è sul palco e dietro le quinte: giovani di tutto il mondo che magari si presentano a teatro vestiti da punk. Adolescenti che nelle mani portano segni delle ore spese ogni giorno a far vibrare le corde. Sembra di vedere racchiusi sogni e speranze nelle custodie che portano in giro per i continenti. Quella confezione che racchiude foto, amuleti e l’inseparabile violino: “Non so se l’ho scelto io o se lui ha scelto me”, racconta Tianyou, concorrente cinese. “Nel piano non c’è questo rapporto unico con lo strumento che ti porti ovunque”. Sì, il violino come compagno nella vita zingara dei musicisti.
Ragazzi uguali a quelli che camminano appena fuori, nelle strade di Genova. Arrivano qui, tolgono gli anfibi per indossare scarpe di vernice, abiti da concerto. E salgono sul palco. Di fronte a loro la giuria. Alcuni tra i violinisti più affermati, come il presidente Uto Ughi. Uto che a 6 anni suonava la Ciaccona di Bach mentre i compagni tiravano sassi nel fiume. Non ha un rimpianto degli anni spesi a lottare con il violino? “No”, sorride guardandosi le mani perfette da musicista, “anch’io di sassi ne ho tirati tanti. È stato fondamentale per me. Così come la natura, la montagna”. E, però, poi c’è la disciplina: “Se non suono per un giorno”, parafrasa Paganini, “me ne accorgo io, se non suono due giorni se ne accorge il pubblico”. Il violino reclama dedizione e fedeltà. “Uno strumento sadomasochistico”, lo definisce Ughi. Intanto sfilano i concorrenti, nell’espressione dei volti cogli insieme rapimento e sofferenza. La finale sarà domani. Alle semifinali sono arrivati in sei, tutti asiatici. Perché? “C’è chi ha cominciato a suonare a tre anni. In Italia finora non c’è stata cultura musicale nelle scuole. Noi crediamo che la musica sia solo Sanremo”. Ma come fare per spingere i giovani a suonare? “Non possiamo obbligarli con la frusta. Dobbiamo farla ascoltare, la musica. Deve diventare una presenza nella nostra vita. Così nasce la passione”, conclude Ughi.
Il concorso Paganini è il grande salto: “Vincendo si raggiunge una carriera internazionale con inviti dalle istituzioni musicali più importanti del mondo”, racconta il direttore artistico Nicola Bruzzo.
Li osservi ancora questi giovani. In un’ora si giocano tutto, il concerto racchiude anni e anni di fatiche e speranze. Ti chiedi se tra loro si nasconda un Salvatore Accardo (il primo vincitore nel 1958) o un Paganini. Ma il segreto, come insegna il violinista genovese, non è soltanto nel virtuosismo. Nei picchi vertiginosi dei trilli e nelle pause si esprimono luci e ombre della nostra vita.
Nessun commento:
Posta un commento