Accadde a Cancello Arnone il 2 agosto del
1954
LA
STORIA
Questa è la storia di Concetta Rea 23enne, che il
2 agosto del 1954, in agro di Cancello e Arnone, con una rivoltella, uccise la suocera Filomena Lanzella, di 53 anni, il
cognato Giovanni Purcaro, di 24 anni
e ferì al braccio un altro cognato Vincenzo
Purcaro di anni 30, nel Podere
dell’O.N.C. Ma per capire meglio il movente e la dinamica del duplice delitto
facciamo un passo indietro. Due anni prima Mauro
Purcaro ( il più giovane dei tre
figli maschi di Luigi Purcaro,
assegnatario del Podere n° 654 dell’O.N.C., sito in via Diaz in località “La
Riccia”) si imbatteva ad Acerra in Concetta
Rea, una avvenente ragazza del luogo. Fu un vero e proprio colpo di fulmine
per il giovane contadino. Mauro si invaghi perdutamente della bella femmina e
di conseguenza lasciò il lavoro, trascurò la famiglia, gli amici per fare la
spola tra Cancello Arnone ed Acerra.
La
relazione, però, non ebbe l’appoggio incondizionato della famiglia – vuoi per
motivi di interesse - vuoi per la
presunta incapacità della promessa sposa per i pesanti e gravosi lavori di
campagna. Mauro, però, 5 mesi prima del delitto sposò Concetta e nella
impossibilità – almeno temporanea di crearsi una propria casa – la coppia andò
a vivere presso i genitori nel Podere dei Purcaro. I Purcaro – come del resto
tutti i contadini delle nostre parti – erano legati alla terra sia da vincoli
di egoismo che di proprietà, e gli eredi legittimi erano Vincenzo e Giovanni
Purcaro ( alle donne in genere si lasciano soldi con tanti e non beni immobili
) gli altri due fratelli di Mauro. E’ inutile sottolineare che i fratelli dello
sposo non accettarono di buon grado la nuova coppia.
Per i primi tempi però – per il buon senso dei vecchi genitori – tutto
filò liscio come l’olio. La giovane si adattò al lavoro dei campi, con grande
sacrificio anche se fisicamente non era
dotata per tale attività pur tuttavia collaborava per quanto possibile. Ma
sotto le ceneri covava il più arduo dei fuochi, la più accesa avversità. Ed il
viscido “serpentello” del disaccordo
non doveva tardare ad avvelenare l’ambiante con l’aggravante di una impossibile
coabitazione. Bastava un nonnulla, una frase qualsiasi per accendere le
ostilità.
E
su tale fertile terreno l’odio più acceso ed implacabile maturò e sconvolse anche
i più cari e sacri affetti. Negli ultimi tempi la situazione si era resa ancora
più impossibile tale da consigliare
Mauro e Concetta sul da farsi. Ma per uscire da quel ginepraio di odi e
ostilità non vi era - per la giovane coppia – che una sola via di
uscita – quella che parlava di abbandonare il podere 654.
Una strada, però, da dover affrontare senza
correre rischi. Magari con un discreto
gruzzolo in saccoccia realizzabile attraverso le revisione dei beni di
famiglia. Mauro non indugiò ad esternare ai suoi fratelli i suoi propositi. Il che avvenne esattamente il
pomeriggio del giorno del delitto. Quando tutta la famiglia – dopo il lavoro
nei campi – si trovava riunita intorno al rustico e comune desco.
Una
prima versione dei fatti così ricostruì l’accaduto. Mauro fu di poche ma secche parole: Espose la difficile
situazione di vita creatasi intorno al
suo matrimonio e chiese al vecchio genitore la prematura divisione dei beni di
famiglia. La proposta – come era logico
attendersi – doveva suscitare un
pandemonio con conseguente lite fra i vari fratelli e relativo passaggio a via
di fatto. La lite, appunto, stava per
degenerare in rissa – dalla quale Mauro non poteva – perché solo di fronte ai
due fratelli – che uscirne a mal partito.
Fu
allora che Concetta Rea mise in atto il suo sanguinoso disegno. Mentre i tre
fratelli se le davano di santa ragione, la giovane, corse difilata in camera
sua dove - in un vecchio cassettone - si
trovava custodita una vecchia rivoltella Cal. 38. Concetta impugnò l’arma e
senza pensarci su due volte ridiscese decisa a tutto – nella sottostante camera
da pranzo dove i tre fratelli continuavano a lottare avvinghiati da una stratta
selvaggia.
LA
FUGA
Spianare l’arma e far fuoco sui cognati fu
questione di un minuto. Uno, due, tre, quattro
colpi Filomena Lanzella - la vecchia suocera che aveva visto e
compreso il gesto della nuora – che aveva provato con un balzo felino di ergersi
a scudo degli inermi figlioli – fu la prima a cadere senza vita, colpita alla gola ed al torace, da due proiettili. Sul suo corpo si accasciò – subito dopo – il
figlio Giovanni, anch’egli colpito alla
fronte da altre due pallottole. Poi Concetta – continuando nella sua furia
omicida – rivolse l’arma contro Vincenzo – che intanto era riuscito a
guadagnare la via dei campi ma che
veniva raggiunto ma sfiorato al braccio dal quinto proiettile.
Compiuta la strage Concetta
obbligava cinicamente il marito a seguirla. Prima di allontanarsi però,
Concetta risaliva ancora nelle camere superiori. Quivi si impossessava del
denaro e degli oggetti d’oro dei suoceri e se la dava a gambe seguita dal
marito e dal fratellino Aniello di 6 anni appena, che trascorreva alcuni giorni di vacanza
presso la sorella e che aveva da lontano assistito piangendo alla strage.
Dovette trascorrere quasi una mezz’ora
- dato che il podere era in zona
isolata - che sul posto giungessero i
carabinieri al comando del maresciallo Giovanni
Coviello. Ma ormai, oltre alle contestazioni di rito, non c’era nulla da
fare per le due vittime. Arduo, intanto, si presentava il compito degli
inquirenti per accertare il movente del duplice delitto. Le voci popolari
giunte ai carabinieri parlavano però non solo di interessi ma anche di onore e
di vendetta. Correva la voce che Giovanni Purcaro, fratello di Mauro, era stato fidanzato con la
Concetta Rea prima del matrimonio del fratello.
Alcuni
dubbi risaltarono subito alla mente dei carabinieri: Come mai
Mauro, a cui era stata uccisa la madre ed un fratello era fuggito, senza scarpe,
assieme alla moglie assassina? Era stato suo complice nel delitto? Aveva
commesso egli il matricida ed il fratricidio? Voleva far addossare la
responsabilità alla giovane moglie adombrando un delitto passionale? Una ridda
di ipotesi. Il ferito ed il vecchio agricoltore – come era nello stile dei
contadini “mazzonari”, risultarono “omertosi”. Alle domande degli inquirenti
si trincerarono dietro un incomprensibile mutismo. Intanto Concetta, dopo aver
percorso un certo tratto di campagna a piedi aveva noleggiato a Casal di
Principe un’auto con la quale si era fatta accompagnare alla periferia di
Acerra.
Tre giorni dopo il delitto la Rea venne
catturata, trovata accovacciata tra i
covoni di grano. Concetta Rea indossava una gonna rossa ed una camicetta bianca appariva pallida e smunta. Recava una
fasciatura ad un dito del piede sinistro ferita dal rimbalzo di un proiettile.
Un colpo - sostenne – sparato al suo indirizzo
dal cognato Giovanni, che aveva
scaturito una legittima difesa E così si
appresero altri particolari del delitto,
del movente e della rocambolesca fuga.
Ci furono anche versioni di testimoni oculari arrivati sul posto subito dopo
il duplice delitto, che era avvenuto a tre chilometri dall’abitato, nel podere n. 654, assegnato anni fa
dall'Opera Nazionale Combattenti, dopo la bonifica, alla famiglia napoletana
dei Purcaro.
“Quel tragico pomeriggio si udirono cinque
colpi d’arma da fuoco, seguiti da grida e pianti” – avevano riferito i contadini delle fattorie vicine - subito accorsi, ed avevano trovato nella camera a pianterreno due corpi
inanimati fra il sangue: la vecchia madre Filomena e il figlio Giovanni; un
altro figlio, Vincenzo, trascinatosi sull’aia, si appoggiava a un pagliaio con
la camicia arrossata per ferite alla spalla ed al braccio destro. Il malanimo era nato perchè i due vecchi
avevano diviso parte dei sedici ettari fra i figli e le figlie, ma continuavano
a coltivare il resto del terreno, assistiti da due di essi, Giovanni e Mauro,
che partecipavano con i genitori agli utili del raccolto. La giovane sposa di
Mauro vedeva male la simpatia dei suoceri per Orsolina, la moglie di Giovanni, e temeva che essi avessero fatto,
in segreto, un testamento più favorevole all’altro figlio.
Essa finì per suggestionare il marito, e
per creare una pericolosa tensione fra i due fratelli. Perciò nacque, fra Mauro
e Giovanni, una lite che, forse, non sarebbe andata oltre le parole irate se
all’improvviso Concetta, che era presente, non avesse aperto un cassetto
estraendo, fulminea, una grossa Colt, che puntava verso la suocera ed i
cognati, premendo più volte il grilletto. Nella furia, anzi, sbagliava e
colpiva di striscio anche il marito.
L’ennesima ricostruzione dei fatti
racconta che poi Concetta, armatasi di un fucile, d’una cartuccera e d’un pugnale
e sempre impugnando l’arma costringeva il marito Mauro a fuggire con lei per la
campagna. Secondo una voce, diffusasi nella serata fra i contadini della zona, la Concetta avrebbe poi ucciso anche il
marito. Intanto su fonogramma della stazione di Cancello Arnone, i carabinieri
di Acerra, il paese dell’omicida, fermarono Salvatore
e Raffaele Rea, padre e fratello
di Concetta, accusandoli di aver fornito essi la pistola ed il pugnale alla
donna, che più volte s’era lamentata con i suoi parenti dell’ostilità con cui
la trattava la famiglia del marito.
Passando tra una fitta folla, le salme della
madre e del figlio furono sepolte nel pomeriggio. Il morto, Giovanni, lascia,
con la moglie, tre bambini. Poiché si temeva che la Concetta - che in quelle campagne era tanto nota per il suo fiero carattere, da
esser denominata “la brigantessa” - potesse
spargere altro sangue, i carabinieri dei gruppi di Caserta e Napoli tesoro una fitta rete di controllo per costringerla ad arrendersi; tra l’altro
vietarono ai familiari degli uccisi di unirsi a loro nel tentativo di scoprire
il nascondiglio dell’assassina. I
carabinieri notarono che – nei giorni dei funerali – nessun congiunto aveva
seguito il feretro e che questo atto dimostrava che “neanche la morte cancella l’odio in certe zone dei mazzoni”.
Intanto, come detto, Concetta era
stata catturata fra i covoni in agro Acerra. La sua prima dichiarazione era stata quella di
avere sparato per difendere il marito. Suo marito Mauro, che era fuggito con
lei, era ancora latitante. Le indagini svolte dalla Procura della Repubblica del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e
dai carabinieri dei gruppi di Caserta e di Napoli, avevano accertato che, subito dopo la strage, la
donna, insieme al fratellino, Aniello, e al marito, si era buttata per i campi. Poiché il marito, al momento
della, tragica lite, si trovava in calzoncini, i tre si fermarono lungo il
Volturno dove acquistarono per mille lire da un pescatore un paio di pantaloni
lunghi, dirigendosi quindi attraverso i terreni coltivati, a Casal di Principe.
Là giunti noleggiarono un’auto, recandosi
nel paese natio dell’omicida, la contrada S. Giovanni, una frazione del comune
di Acerra. La donna chiese e ottenne ospitalità da un suo zio, Cuono Rea, nella fattoria Curti. Ma i
carabinieri erano stati informati del suo nascondiglio: nella nottata,
accerchiarono la zona, perlustrando pagliaio e fienile con lampadine e
lanterne. A un tratto, sollevando un covone, il brigadiere Ferdinando
Piccolo, scorse la assassina accovacciata. Le puntò contro il mitra, per
impedirle ogni reazione, poiché la sapeva armata e decisa a tutto. Ma la donna
non disse parola e seguì, docile, i militi.
Immediatamente veniva condotta nella
caserma di Capua, e di là trasferita al carcere di Santa Maria Capua Vetere,
dove fu medicata per una ferita d’arma da fuoco al piede. Già dopo la fuga la donna si era rivolta, per una
medicazione, a un medico di Acerra. Il dott. Giovanni Cuomo, però, avendo intuito che si trattava di una ferita
da arma da fuoco aveva poi inviato ai
carabinieri il referto. La notizia della cattura dell’assassina fu resa pubblica
con ritardo per misura precauzionale, volendosi evitare che i superstiti della
famiglia Purcaro compissero su lei la vendetta che avevano pubblicamente
minacciata.
Durante gli interrogatori, Concetta Rea - conosciuta
in paese col nomignolo di “brigantessa”
per il suo carattere fiero - negò d’aver agito per motivi d’interesse,
dando una versione diametralmente
opposta a quella ricostruita dagli inquirenti. “La terra non c’entra”, disse. Poi
spiegò che il cognato Giovanni, al quale era stata in passato fidanzata,
la insidiava da tempo. Più volte mentre era al lavoro in campagna, in assenza
del marito, aveva dovuto difendersi dai suoi tentativi di violenza, finché, un
giorno fu costretta a dirgli che in quella condizione non poteva più
vivere. “Domenica - continuò la donna -
mio marito Mauro ha affrontato suo fratello Giovanni; è stato quest’ultimo ad
impugnare la pistola e a sparare un primo colpo che certo avrebbe colpito mio
marito, se io, dandogli un urtone al braccio, non avessi fatto deviare il
proiettile, che mi ha ferita ad un piede. Allora gli ho strappato di mano
l’arma e, accecata dall’ira, ho premuto a mia volta il grilletto, senza sapere
che facessi. Poi sono fuggita buttando la pistola in un cespuglio”.
La pistola fu ritrovata nel luogo indicato
dall’omicida. Era una vecchia arma militare a tamburo, modello 89, calibro
10,35. Dei sei colpi, uno solo era ancora in canna. Due avevano raggiunto la suocera,
uccidendola, un terzo aveva ucciso il Giovanni e un altro aveva ferito Vincenzo
Purcaro. Il quinto era quello che aveva colpito al piede l’omicida.
Poi
seguirono i processi. La Corte Suprema
di Cassazione, ritenne che i 27 anni inflitti alla giovane sposa
casertana, dall’Assise di Appello di Napoli, in seguito alla prima condanna della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, per lo spietato
duplice omicidio era l’equa sanzione della sua colpa. Negata ancora una volta l’attenuante della
provocazione invocata dalla difesa per le mortificazioni inflitte all’imputata,
a cui la famiglia del marito rinfacciava la mancata “prova di illibatezza”.
Un
odio smisurato: questa la giustificazione che i giudici di merito diedero ai
due tremendi delitti compiuti da una donna, per un movente, sia pure grave, ma
mai proporzionato ad un crimine cosi aberrante. Ventisette anni di carcere per
un duplice omicidio sono un prezzo più che giusto e la Corte di Cassazione per
questo motivo la Corte di Cassazione respinse il ricorso dell’imputata,
confermando la pena.
“Quella di Concetta Rea è una vicenda che ha dell’inverosimile – ( emerse una terza e nuova versione dei fatti sostenuta dalla pubblica accusa nei
processi), la ragazza, appena ventitreenne, aveva sposato a Cancello Arnone, un
comune in provincia di Caserta che conta meno di 3000 abitanti, Mauro Purcaro. La suocera “non aveva potuto constatare l’integrità
della nuora”, come vuole una barbara usanza, che ancora vige in alcuni
paesi del Sud. Intanto era nato in Concetta un odio sordo nei confronti
della suocera e di tutti i familiari del marito con i quali era costretta a
vivere. Tale sentimento malevolo era poi inasprito dal fatto che la suocera
aveva mostrato maggiore simpatia per un’altra nuora, Orsola, moglie di Giovanni,
un fratello di suo marito, convivente anch’essa con la patriarcale famiglia.
Per cinque mesi i litigi si susseguirono incessantemente con reciproche accuse”.
“Poi, improvvisamente, scoppiò la
tragedia. Il 1° agosto 1954 Concetta Rea, per difendere il fratello, un
ragazzetto di 12 anni accusato ingiustamente dal cognato di immoralità, aveva
provocato l’intervento del marito che si era azzuffato con il fratello. Erano
intervenuti il suocero e altri cognati a dividere i due fratelli, ma Concetta
Rea era corsa in casa, si era armata di pistola e, ritenendo che il marito
fosse vittima di un’aggressione combinata da tutti i familiari, aveva sparato
sul cognato Giovanni che cadde morto”. .
Rinviata a giudizio per duplice omicidio e
tentato omicidio, la donna si difese, in Corte d’Assise a Santa Maria Capua
Vetere, prospettando - assistita dal
prof. Alfredo De Marsico - numerose tesi difensive; l’eccesso colposo in
legittima difesa, la provocazione e lo stato d’ira. La sentenza dei giudici di secondo grado di
Napoli, con la quale Concetta Rea fu condannata a 27 anni di reclusione, fece
giustizia di quelli che l’estensore definì “pretesti
difensivi”. I giudici si limitarono a concedere all’imputata le attenuanti
generiche, negando, peraltro, che essa fosse stata provocata e definendo “fantasie” ( la giovane sostenne che il
cognato Giovanni, approfittando dell’assenza di suo marito, l’aveva insidiata e
che il suo rifiuto aveva scavato fra di loro un odio insanabile), le insidie
delle quali sarebbe stata fatta oggetto da parte del cognato caduto sotto il
suo piombo.
Dello stesso parere furono i giudici della
Corte d’Assise di appello di Napoli ai quali la sciagurata si era rivolta con
la speranza di ottenere una riduzione della pena. La sentenza tuttavia fu
integralmente confermata. Concetta Rea – attraverso i suoi difensori – fece
ricorso in Cassazione sostenendo che fu provocata dal
comportamento della suocera, che la mortificò più volte, ricordandole la mancata riuscita della barbara prova della
purezza e da quello del cognato, che, nonostante lo stretto rapporto di
parentela, l’aveva insidiata, covando poi un profondo odio nei suoi riguardi
dopo il reciso rifiuto opposto alle sue
laide offerte. Ma anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione (I
Sezione, presidente Gianpaolo Vista) avevano ritenuto che la condanna a 27 anni
di reclusione era una pena giusta per il duplice delitto.
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