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lunedì 8 agosto 2022
domenica 31 luglio 2022
1957, Santa Maria a Vico – Pellegrino Arvonio uccise la fidanzata Maria Diglio – I giudici ritennero accidentale l’omicidio perché il colpo partì mentre entrambi maneggiavano l’arma – di Ferdinando Terlizzi
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1957, Santa Maria a Vico – Pellegrino Arvonio uccise la fidanzata Maria Diglio – I giudici ritennero accidentale l’omicidio perché il colpo partì mentre entrambi maneggiavano l’arma – di Ferdinando Terlizzi
La vicenda fu così ricostruita: alle ore 21:30 del 3 maggio del 1958 il giovane Pellegrino Arvonio, accompagnato dal fratello Augusto, si presentava i carabinieri di Santa Maria a Vico e riferiva che poco prima, mentre si intratteneva con la sua fidanzata Maria Diglio nell’abitazione della stessa, si era accinto ad esaminare la propria rivoltella tipo “Smith” a cinque colpi ma la ragazza, nonostante egli si opponesse, aveva tentato di prendere delle sue mani l’arma per esaminarla a sua volta ed all’improvviso era partito un colpo che aveva raggiunto la predetta al petto. Precisava l’Arvonio che al momento dello sparo lui e la Diglio erano seduti l’uno di fronte all’altra e che subito dopo il fatto egli aveva gettato l’arma nel giardino antistante l’abitazione, aveva adagiato la ragazza sul letto ed aveva chiamato aiuto facendo accorrere così delle persone del vicinato. Successivamente si era portato prima a casa sua – ove aveva raccontato l’accaduto ai familiari – e poi in caserma.
I carabinieri si recarono immediatamente nell’abitazione della Diglio e constatarono che la fanciulla giaceva cadavere sul letto, regolarmente vestita, presentava un’unica ferita da arma da fuoco “al secondo spazio intercostale sinistro sulla linea parasternale”. Nel giardino sito davanti alla casa, la quale era composta di un unico vano a pianterreno, fu rinvenuta l’arma omicida, una rivoltella calibro sette 65 del tipo Smith, a tamburo, a cinque colpi la quale conteneva nel tamburo una pallottola ed un bossolo. Sottoposto ad interrogatorio, l’Arvonio raccontò che si era fidanzato ufficialmente con la Diglio nel settembre del 1957 e dopo 2/3 mesi aveva incominciato ad avere con essa rapporti intimi superficiali. La sera poi del sabato santo del 58 la ragazza era stata da lui deflorata e da quell’epoca si erano congiunti carnalmente un paio di volte alla settimana. I congressi carnale avvenivano lungo il viottolo che dalla frazione “Figliarini” conduce alla strada ferrata. Dichiarò ancora l’Arvonio che i rapporti tra lui e la fanciulla erano in sostanza buoni benché egli fosse molto geloso tanto è vero che era giunto a dirle “che l’avrebbe uccisa se fosse stato da lei abbandonato” ed a mostrarle perfino – in tale circostanza evidentemente in segno di minaccia – “la propria rivoltella”, arma questa che trovavasi in suo possesso fin dal 57 e che egli portava sempre con sé. Qualche volta, però, vi erano stati degli screzi. Invero qualche mese prima egli, credendo che la Maria avesse pronunciato un’imprecazione verso i suoi morti si era risentito ed aveva dato la rivoltella scarica ad un bambino, figlio della sorella di Maria, Assunta “dicendogli di sparare contro la zia”. Redarguito poi dal padre del bambino, Antonio Perrotta, aveva ripresa la rivoltella ed aveva anche accompagnato la fidanzata in chiesa ad assistere alle funzioni serali. Senonché il giorno successivo, incontrata in strada Assunta Diglio le aveva mostrato dei proiettili, che aveva allora acquistati, dicendole: “Tieni portali a tua sorella e dille di mangiarseli, così sta bene”.
Ed inoltre il 2 maggio, cioè il giorno prima dell’omicidio, egli non aveva trovata la fidanzata in casa ed avendo saputo dalla di lei madre, Francesca De Lucia che essa era andata in casa del fratello Angelo Diglio, si era risentito, non gradendo che la fanciulla andasse in giro. Ma poi, vista tornare la Diglio in compagnia del fratello, si era rasserenato. Continuò a narrare l’Arvonio che infine la sera del 3 maggio egli giunge in casa della Diglio verso le 19:30 o verso le 20. E poco dopo il suo arrivo Francesca De Lucia, uscì per recarsi in chiesa cosicché lui e la fidanzata rimasero soli. Infatti nella casa abitavano solo la Diglio e la madre. La fanciulla lo invitò a partecipare alla sua cena (un piatto di patate e fagioli rinvenuti poi pressocché intatto), ma egli, avendo mangiato da poco declinò l’invito e disse di conservargli una porzione del cibo che avrebbe consumato più tardi prima di andare via. Presa tale precauzione, per celia, puntò l’arma contro la ragazza dicendo: “Ora ti sparo”. Tirò anche il grilletto provocando, come previsto, lo scatto a vuoto. A questo punto Maria lo esortò a desistere da quel gioco pericoloso. Ma egli continuò a tirare il grilletto e, poiché, purtroppo a seguito della rotazione del tamburo uno dei due colpi era ormai giunto in corrispondenza del percussore, partì il colpo che uccise la povera giovane. Dai familiari della vittima ( Francesca De Lucia, Angelo Diglio, Assunta Diglio, Antonio Perrotta) venne riferito che i due giovani si amavano ed andavano d’accordo. Che i due episodi di minacce narrati dall’Arvonio ( la consegna della rivoltella al bambino e la offerta dei proiettili alla Assunta Diglio) si erano verificati il 13 e il 14 aprile e che la frase detta alla Assunta Diglio suonava così: ”Portali a tua sorella e dille che si spara in bocca” . Che l’Arvonio era geloso fino al punto di vietare alla Diglio di recarsi ad attingere l’acqua alla fontana. Che il giovane era stato rimproverato da Angelo Diglio perché si recava in casa della sorella anche quando la madre era assente e da allora aveva proibito alla fidanzata perfino di recarsi dal fratello e che, infine, il giovane era solito andare armato della rivoltella.
In piedi l’avvocato Leucio Fusco
La morte della Diglio fu causata per errore e deve essere affermata la responsabilità dell’imputato non in ordine al delitto di omicidio volontario ma come omicidio colposo –
Risultò altresì dalle dichiarazioni rese dalle vicine della Diglio, Giuseppina De Lucia, Antonietta Papa e Michelina Calcagno, che dopo l’omicidio erano accorse in casa dell’uccisa, dapprima la Giuseppina De Lucia, per avere udito delle grida di un uomo provenienti da detta abitazione, e poi, nell’ordine, Papa, chiamata da Giuseppina De Lucia e la Calcagno, avvertita a sua volta dalla Papa. Le predette precisarono che avevano trovato la Diglio distesa supina sul letto come se fosse svenuta ed accanto al letto l’Arvonio che piangendo gridava: “Maria perdonami per quello che ti ho fatto, andate a chiamare un medico”. Delle ulteriori indagini praticate dall’arma dei carabinieri al fine di stabilire il dolo da parte di Arvonio Pellegrino nell’omicidio da lui commesso in persona della fidanzata Maria Diglio si è venuto a conoscenza che il detto Arvonio il giorno stesso dell’omicidio, verso le ore 12:00 circa, mentre faceva colazione dell’interno della cava di pietra sita in località “Appia Vecchia”, ove lavorava, si era espresso con la seguente frase: “Questa è l’ultima giornata di sole che prendo“, espressione questa alla quale gli altri operai non avevano dato alcuna importanza. Tale frase è stata rivolta direttamente ad Antonio Guadagno, da Santa Maria Vico e sentita anche da Armando Campagnuolo. Il giorno stesso Antonio Guadagno riferì poi al suo compagno di lavoro Sabatino De Lucia, tagliatufo, la frase pronunciata da Pellegrino Arvonio . Si iniziò pertanto procedimento penale, con il rito formale con mandato di cattura, a carico dell’Arvonio per il reato di omicidio volontario, detenzione e porta abusivo di rivoltella ed atti osceni continuati. L’indagine autopsica accertò che la Diglio era deceduta per l’emorragia in seguito alla rottura del cuore causa del proiettile; che il colpo era penetrato nella regione anteriore dell’emitorace sinistro, a livello del secondo spaccio intercostale, ed aveva seguito un percorso dall’alto in basso è un poco da sinistra verso destra. Che la Diglio era stata deflorata da vecchia data e non aveva avuto gravidanze. Innanzi all’istruttore l’imputato confermò l’interrogatorio reso ai carabinieri. Nel dibattimento l’imputato, la madre ed i fratelli della vittima costituitisi parte civile, e gli altri testi confermavano le dichiarazioni rese in istruttoria. Secondo i giudici era però da ritenere che l’Arvonio non abbia avuto intenzione di sparare e di uccidere la Diglio bensì abbia impugnato a rivoltella al solo scopo di minacciare la ragazza e premuto infine, anche a tal fine, il grilletto, nella persuasione che l’arma non fosse in condizione di sparo. Il racconto del prevenuto, come si è già visto – precisarono ancora una volta i giudici nella loro motivazione – è certamente mendace riguardo alla ricostruzione dell’inizio dell’episodio ed anche nella rimanente parte non è immune da sospetti. Ma non può in verità escludersi del tutto che corrisponda alla realtà l’affermazione “che il grilletto venne reiteratamente azionato nella convinzione che i due soli proiettili inseriti nel tamburo non fossero in corrispondenza del percussore e quindi non potesse avvenire lo sparo”. Di certo nella rivoltella al momento dello sparo vi erano solo due proiettili, proprio come dice l’imputato: l’arma fu repertata dai carabinieri nel corso del primo sopralluogo, fuori la casa della vittima, ed in una non fu trovato che un solo proiettile ed un bossolo. La morte della Diglio fu cioè causata per errore – nell’uso dei mezzi di esecuzione di una minaccia – e conseguentemente deve essere affermata la responsabilità dell’imputato non in ordine al delitto di omicidio volontario contestatogli ma in ordine alla ipotesi delittuosa prevista dagli artt. 586 e 589 del codice penale. Ovvero omicidio colposo.
I processi: la condanna ad anni 6 di reclusione (di cui 2 condonati) perché colpevole della morte come conseguenza non voluta.
La Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Prisco Palmiero, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Nicola Damiani pubblico ministero), giudicò Arvonio Pellegrino accusato di aver causato la morte della propria fidanzata contro la quale esplodeva – a distanza ravvicina – un colpo di pistola che attingeva la Diglio in pieno petto. Inoltre all’imputato venne anche contestato il reato di atti osceni in luogo pubblico per essersi più volte congiunto carnalmente in luogo pubblico con la propria fidanzata e lo condannò ad anni 6 di reclusione (di cui 2 condonati) perché colpevole della morte della sua fidanzata Maria Diglio come conseguenza non voluta. Ma non era dello stesso parere la pubblica accusa la quale nel corso della requisitoria scritta aveva evidenziato – tra l’altro – che “Si può dire quindi che è sufficientemente provato il rapporto di causalità materiale fra l’azione commessa dallo imputato e la morte della povera Diglio”. Ecco perché si parlava prima di una causale istantanea, sorta in un soggetto violento ed intollerante. Causale istantanea che si collega all’ultima “infrazione” agli ordini commesse la sera prima dalla Diglio, la quale si era ricavata presso il fratello e non era stata trovata in casa dal fidanzato. È caratteristico che questi non parli in presenza dei congiunti della ragazza, né quella sera né in quella del fatto; ma appena rimasto solo con lei non trovi di meglio da fare che por mano alla pistola. Ed avendone tirato il grilletto sapendo che era carica difficilmente appare credibile, lui così pronto alla minacce e all’invettiva, quando sostiene di averlo fatto per scherzo. Ma ad escludere l’ipotesi di una responsabilità a titolo di colpa sta anche il comportamento dell’imputato subito dopo il fatto. L’Arvonio deve rispondere quindi di omicidio volontario”. La sentenza emessa il 29 settembre del 1959 venne appellata dall’imputato e dal Procuratore Generale Armando De Nigris. In particolare la difesa sostenne che…”La Corte avrebbe dovuto ritenere Pellegrino Arbonio responsabile di omicidio colposo attesa la mancanza di una qualsiasi causale che avesse potuto comunque spingere esso Arvonio ad estrinsecare nei confronti della Diglio un qualsiasi atto, sia pure di minaccia. Da tutte le risultanze processuali si evince chiaramente l’assoluta mancanza di una qualsiasi causa di gelosia, di intolleranza di odio, onde la struttura e la sagoma del delitto non può essere che colposo e tale si appalesa con l’evidenza della ragione giuridica e comune. È stata una sventura: l’Arvonio è un innocente che si dibatte sotto una valanga di dolore estrinsecatasi sin dal primo momento dopo il verificarsi dell’evento involontario. A tanto si aggiunga la valutazione di tutta la condotta dell’imputato prima e dopo il fatto onde tutte le prove nella loro concatenazione e della loro unità additano il fatto chiaramente colposo. In linea subordina si fa presente che in considerazione dei precedenti dell’imputato, della atipicità dell’evento in relazione all’azione messa in essere dall’Arvonio, della sua condotta processuale, con la concessione delle attenuanti generiche, la pena può – in ogni caso e per qualunque definizione giuridica del fatto- essere ridotta in più modeste proporzioni”. Nonostante queste considerazioni in appello la pena venne confermata. Gli avvocati impegnati nei processi furono: Nicola Cariota Ferrara, Salvatore Nuzzo e Leucio Fusco.
martedì 26 luglio 2022
1957, Frignano. Tentò di uccidere con numerosi colpi di pistola il cognato per paura che gli sottraesse la casa già donata alla moglie in nuda proprietà di Ferdinando Terlizzi
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1957, Frignano. Tentò di uccidere con numerosi colpi di pistola il cognato per paura che gli sottraesse la casa già donata alla moglie in nuda proprietà di Ferdinando Terlizzi
A giugno del 1957 Giuseppe Ceneri di anni 33 da Frignano, fu accusato di tentato omicidio perché aveva tentato di cagionare la morte del cognato Luigi Manno esplodendogli contro vari colpi di pistola senza raggiungere l’intento per cause indipendenti dalla sua volontà e già l’11 settembre dello stesso anno Giuseppe Garofalo, suo difensore di fiducia, inviava una missiva al giudice istruttore chiarendo che “dall’istruzione compiuta da vostra signoria è certamente emerso che il Ceneri dell’esplodere i colpi di pistola, non era animato da intenzione omicida. La distanza ravvicinata e il numero dei colpi, qualora vi fosse stata tale intenzione, avrebbero reso inevitabile che le pallottole raggiungessero qualcuno. Il fatto stesso che sui muri vicini non si sia trovata traccia alcuna di proiettili, sta a significare che l’imputato esplose i colpi in aria o a terra, al solo scopo intimidatorio. Prego, pertanto, vostra signoria, perché degradi l’imputazione, e voglia scarcerare l’imputato o quantomeno concedergli il beneficio della libertà provvisoria”.
Ma per capire meglio il movente del mancato omicidio, i risvolti della vicenda, le incomprensioni che armarono la mente e la mano del mancato omicida è obbligatorio fare un passo indietro e andare al lontano 27 giugno del 1957 alle 5 di mattina mentre albeggiava nella terra dei fuochi, in Frignano, in località San Nicola allorquando i carabinieri di Frignano furono avvertiti che poco prima, tale Giuseppe Ceneri aveva esploso numerosi colpi di pistola contro il cognato Luigi Manno. Accorsi immediatamente sul posto, essi non rinvennero né il Manno né il Ceneri resisi entrambi irreperibili, ma tuttavia non tardarono ad accertare le modalità dell’accaduto.
Immacolata Loffredo e suo figlio Luigi Bellopede riferirono infatti alle ore 4:00 circa, mentre erano nel loro cortile – privo di portone sito in via San Nicola a preparare il carretto con cui recarsi al lavoro in campagna – avevano visto passare per la strada Luigi Manno che portava sulle spalle una rete da letto. All’altezza del loro cortile il Manno era stato affrontato dal Ceneri il quale gli chiese dove portassi la rete. Il Manno avevo risposto che portava la rete a casa della propria madre ed allora il Ceneri aveva estratto dalla tasca una pistola automatica ed alla distanza di 4, 5 metri aveva cominciato a sparare. Alla vista della pistola in Mann era fuggito nel cortile e, gettata a terra la rete aveva tentato di ripararsi dietro essa Loffredo, mentre il Ceneri continuava a far fuoco. I due testimoni precisarono che erano infine fuggiti nella loro casa e dopodiché la sparatoria aveva avuto termini e sia il Ceneri che il Manno si erano allontanati.
Risultò inoltre che certo Vincenzo Mastroianni e lo spazzino comunale Gennaro Bove, accorsi sul posto subito dopo gli spari, avevano trovato 13 bossoli ed una pallottola per pistola calibro 7,65 –in uno spazio di pochi metri quadrati, nel cortile.
In data 29 giugno il Manno che si era rifugiato in Napoli, fece ritorno in famiglia e, interrogato dei carabinieri, dichiarò che il 26 giugno il suo padrone di casa gli aveva intimato di lasciargli l’abitazione da lui occupata e pertanto, non avendo trovato altro alloggio egli aveva pregato la propria madre Ersilia Purgato di ospitarlo presso di sé per qualche tempo. La madre aveva acconsentito. Se non che il Ceneri, temendo che egli volesse stabilirsi definitivamente nell’abitazione della genitrice (che costei aveva già donato la nuda proprietà alla propria figlia, moglie di esso Ceneri ), lo aveva affrontato mentre effettuava il trasporto delle masserizie e fatto segno ai colpi di pistola, fortunatamente andati a vuoto, nelle circostanze già riferite dalla Loffredo e dal Bellopede. Precisò il Manno che forse il Ceneri – che egli aveva visto con entrambe le mani ingombrate, aveva fatto fuoco con due pistole e che inoltre egli si era rifugiato a Napoli in quanto temeva ulteriori aggressioni da parte del cognato.
Risultò, inoltre, che nella sparatoria era rimasto colpito un cane della Loffredo; ma non fu possibile constatare ove erano andate a finire le altre pallottole dei colpi esplosi nel cortile della Loffredo, che è ampio circa metri 10 × 10 ed era in gran parte incomprato di legna e di attrezzi agricoli. Iniziata l’istruttoria formale, veniva contestata dal Ceneri, con mandato di cattura, il delitto di tentato omicidio in persona del Manno e della Loffredo. Tratto in arresto e in data 13 luglio 1957, il Ceneri confermava i precedenti del fatto riferiti dal Manno e confermava che in casa della suocera, che si compone di appena due stanze, abitavano già, oltre al suocera, lui, la moglie ed i loro 6 bambini. Dichiarava ancora che la mattina del 27 giugno, egli si limitò a chiedere al cognato, che trasportava la branda in casa della madre, cosa intendesse fare, ma il Manno subito estrasse una pistola ed incominciò a sparare. Pertanto anche egli aveva estratta la propria pistola ed aveva fatto fuoco sette volte.
L’avvocato Giuseppe Garofalo
Manno subito estrasse una pistola ed incominciò a sparare. Pertanto anche egli aveva estratta la propria pistola ed aveva fatto fuoco sette volte.
La parte lesa ed i testi già sentiti dai carabinieri ripetevano in buona sostanza quanto già dichiarato nel corso dell’istruttoria e veniva espletata l’ispezione della località, nonché una perizia balistica, la quale accertava che i 13 bossoli repertati erano stati sparati da due distinte pistole automatiche, cioè sei bossoli da un’arma ed i rimanenti sette dall’altra e che inoltre la pallottola repertata, risultava lanciata da una pistola automatica del tipo Beretta e proveniva dalla stessa ditta fabbricante Fiocchi dei 13 bossoli repertati. Infine, il giudice istruttore, ritenendo che fossero venuti meno gli indizi relativi alla sussistenza del delitto di tentato omicidio, con sentenza del 18 novembre del 1957 rinviava l’imputato al giudizio del Pretore di Trentola per rispondere di minacce gravi in danno del Manno, così modificata l’imputazione di tentato omicidio; dichiarava, poi, non doversi procedere per il tentato omicidio in persona della Loffredo perché il fatto non sussiste. Il Pretore di Trentola, con ordinanza in data 23 marzo 58 sollevava conflitto di competenza sul presupposto che valutando le medesime risultanze istruttorie, il Ceneri dovesse essere chiamato a rispondere non già del delitto di minaccia con arma bensì del delitto di violenza privata aggravata di competenza del tribunale. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 4 dicembre 58, opinando che al Ceneri fosse addirittura da ascriversi il delitto di tentato omicidio in persona del Manno – di competenza della Corte di assise – annullava la sentenza di rinvio e rimetteva gli atti al G.I. per nuova deliberazione. Il giudice istruttore, con nuova sentenza del 27 novembre 59 in conformità del deliberato della Suprema Corte, rinviava il Ceneri innanzi alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di tentato omicidio in danno del Manno ed ordinava la cattura dell’imputato. “È fuor di dubbio – scrissero i magistrati nella motivazione della loro sentenza – che l’episodio per cui è processo trova spiegazione nel vivo disappunto del Ceneri dovuto al fatto che il Manno, fratello di sua moglie, rimasto privo di abitazione, intendeva trasferirsi nella casa che si apparteneva in usufrutto alla madre e la nuda proprietà alla sorella e che era già abitata dalla predetta e dai suoi sei figli. Infatti la mattina del 27 giugno del 1957 il Manno, ottenuto dalla madre il consenso a trasferirsi presso di lei, si accinse ad effettuare il trasloco, e mentre si avvicinava alla casa della madre, con una rete da letto sulle spalle, venne affrontato dal Ceneri il quale prima gli chiese cosa intendesse fare e poi sparò numerosi colpi di pistola. L’imputato assume che dei colpi esplosi ( che furono ben 13 giacchè nel cortile, ove il Manno si rifugiò ed avvenne la sparatoria, si rinvennero 13 bossoli), solo sette furono sparati da lui. A suo dire gli altri colpi vennero superati dal Manno che fu anzi il primo di aprire il fuoco”.
Il processo la condanna ad anni uno e mesi otto di reclusione per violenza privata – La mancanza di volontà omicida
“Ma tale assunto per respinto. E’ vero che la perizia balistica ha accertato che i colpi furono sparati con due pistole diverse; ma deve ritenersi che le due pistole le avesse entrambe il Ceneri, giacché, a prescindere dal fatto che il Manno, pur dopo essersi riconciliato con il cognato, insiste nell’escludere di essere stato anche lui armato, sta di fatto che i testi Loffredo e Bellopede, sulla cui attendibilità non è stata avanzata alcun sospetto e che furono certamente in condizioni di conservare bene la scena dato che il Manno si rifugiò nel cortile e tentò di farsi scudo di uno di essi, hanno sempre affermato di aver visto solo il Ceneri armato”.
“Passando all’indagine circa la qualificazione giuridica da darsi al fatto, va osservato che è da escludere senz’altro che ricorrono gli estremi del tentato omicidio. E’ pur vero che il prevenuto insistette nell’azione, inseguendo il Manno nel cortile della Loffredo esplodendo numerosissimi colpi, ma è da tener presente che tale circostanza induce proprio a ritenere che egli non avesse fatto intenzione di attingere il Manno – in quanto il fatto si svolse in un cortile quanto mai ristretto (ampio metri 10 × 10 ma in parte ingombro) ed è chiaro che solo non volendo egli potevano non colpire neppure con uno dei tanti colpi esplosi a bravissima distanza l’avversario, che fu alla sua mercè almeno prima e dopo che si facesse scudo della Loffredo. Egli loro in realtà sparò a terra – come dimostra il ferimento di una cagnetta della Loffredo ad una zampa – e quindi non con altro scopo che quello di fare una minaccia”.
“A tale conclusione deve pervenirsi anche valutando la causale dell’azione: l’imputato compì l’aggressione per vietare al cognato di entrare nella casa, e tale fine era facilmente raggiungibile (ed infatti fu raggiunto, almeno per il momento), mediante una semplice intimidazione, senza spargimento di sangue. Poiché la minaccia fu diretta ad imporre al Manno di astenersi dall’occupare la casa materna e conseguì tale scopo nel fatto vanno ravvisati gli elementi “subiettivi e obiettivi” del delitto di violenza privata consumata, aggravata per l’uso dell’arma, ed è in ordine a tale reato che va pronunciata la condanna. Al Ceneri possono concedersi le attenuanti generiche, in considerazione dei suoi incensurati precedenti e delle sue misere condizioni di vita; nonché l’attenuante di cui all’articolo 62 (l’attenuante del particolare valore morale e sociale N.d.R) avendo egli risarcito il danno alla parte lesa. Tali attenuanti dato il loro numeri e la loro consistenza, vanno ritenute equivalenti alla aggravante dell’arma. Non può invece trovare applicazione l’attenuante della provocazione, giacchè il comportamento del Manno – che suscitò l’ira del prevenuto – non può dirsi ingiusto, il Manno intanto si accinse a trasferissi nella casa contesa in quanto era rimasto senza alloggio ed era stato peraltro a ciò autorizzato dalla madre, usufruttuario dell’immobile. Tenuto conto dei criteri tutti la pena per violenza privata può fissarsi in un anno e mesi otto di reclusione”.
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