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martedì 17 settembre 2024

 Foglio

di Giacomo Salvini
Il Fatto Quotidiano
«Fatemi passare, devo votaaaa’….». Poco dopo le 13, Claudio Lotito, senatore di Forza Italia e massiccio presidente della Lazio, entra spedito in aula alla Camera. Si stanno votando in seduta congiunta i giudici della Corte Costituzionale (tutti scheda bianca, niente di fatto) e il suo fedelissimo collega Dario Damiani gli regge la giacca per permettergli di facilitare il passaggio.
Senatore…
«Aò, aspe’. Voto e torno».
(Aspettiamo… poi rientra in Transatlantico)
Presidente, come va?
«Bene bene, lottiamo come al solito».
Passa il meloniano Paolo Trancassini con cui sta litigando in Regione Lazio: «Sei pronto per la campagna elettorale?», scherza. Lo saluta il deputato azzurro Maurizio Casasco: «Mauri’, serve ’na cabina de’ regggiaaaaa…».
Presidente, ma è vero che oltre a fare il senatore, il presidente della Lazio, vuole diventare anche editore?
«Sì, lo ammetto. Mi piacerebbe molto».
Spieghi.
«È arrivato il momento: vorrei comprarmi un giornale. Però devo fare una premessa…».
Dica.
«La premessa è che i giornali di carta moriranno a breve: altri 7-8 anni e non esisteranno più. Anzi sono già tutti morti».
Ah, e ce lo dice così? Dovremo cercarci un nuovo lavoro…
«Be’, certo. Però ci sono sempre i siti e lì si possono fare grandi cose…».
E su cosa ha messo gli occhi?
«Il Foglio mi piacerebbe molto. È un giornale dalla grande storia e dal grande spessore: apparteneva a Veronica Lario, Giuliano Ferrara, insomma gente ’mportante. Un quotidiano che parla a un pubblico di nicchia. Sarebbe una grande operazione culturale. E poi hanno già iniziato a investire sul web».
Ma ha già fatto un’offerta?
«No, non ho ancora guardato la situazione societaria e devo capire ancora quante copie vende perché non sono certificate. Quindi non so quanto potrei offrire. Poi Valter Mainetti (l’editore del Foglio, ndr) è un amico, ci conosciamo da vent’anni».
Almeno ci può dire se vuole entrare come socio o diventare l’editore?
«No, no, niente socio. Sarei il proprietario».
Scusi, ma non sarebbe un conflitto d’interessi? Un senatore di Forza Italia che si compra un giornale. Sarebbe un remake, in piccolo, di Silvio Berlusconi…
«E Angelucci cosa fa con Libero, Il Giornale e Il Tempo? E vuole pure comprarsi un’agenzia…».
L’Agi: infatti c’è molta polemica su questa acquisizione. Anche l’Unione europea è contraria.
«Se volessi influenzare le scelte politiche sarebbe molto più intelligente comprarmi un’agenzia di stampa».
Ma comunque è un potenziale conflitto d’interessi anche quello di Antonio Angelucci: deputato della Lega, proprietario delle cliniche private in tutta Italia ed editore. Questa è libertà di stampa?
«Ma io non comprerei in prima persona: lo farei fare a qualcuna delle mie società. Non in quanto Claudio Lotito, senatore della Repubblica di Forza Italia».
Ma è la stessa cosa.
«Certo che no, anche perché la mia finalità sarebbe un’altra…»
Sentiamo: quale?
«Il conflitto d’interessi esiste se uno si compra un giornale per influenzare le decisioni politiche, fare pressione sfruttando il suo ruolo. In questo caso per me sarebbe diverso: io lo farei per rendere edotte le persone…».
Ma così la stampa non diventerebbe (quasi) tutta di destra e piegata sul governo? Angelucci vuole fare il polo dei media conservatori come in America…
«Sì, ma quella è la sua idea: io non voglio fargli concorrenza. Ancora non l’hai capito: la mia sarebbe un’operazione culturale…».
Addirittura.
«E certo».
Pensa solo al Foglio o a qualche altro quotidiano?
«Anche La Verità di Maurizio Belpietro sta andando molto bene e mi piace: hanno cronisti molto bravi che cercano notizie e sono molto “aggressivi” sul territorio. Ma Il Foglio lo preferisco, vola più alto».
Li compra tutti e due?
«No, uno solo. Basta e avanza».
A quel punto interviene Damiani: «Claudio dobbiamo anda’ al Senato». Lotito si mette il giubbotto e scappa.
«Buona fortuna».
Giacomo Salvini
QUARTA PAGINA
«Quando le informazioni mancano,
le voci crescono»
Alberto Moravia
Dago
di Concetto Vecchio
la Repubblica
Roberto D’Agostino, quando le ho proposto l’intervista lei mi ha detto: quelli che vengono a trovarmi li schedano. Mi devo preoccupare?
«Ma no. Però do per scontato di essere intercettato, attenzionato. C’è tanta gente in trepida attesa di un mio passo falso».
Dagospia ha dato per primo la notizia del caso Boccia.
«Quando mi hanno segnalato il suo primo post, il 26 agosto, sono andato a sbirciare il suo profilo Instagram. Non credevo ai miei occhi».
Cosa l’ha colpita?
«Tutte quelle foto con Sangiuliano. Era il diario visivo di una relazione. Ho chiesto in giro e mi hanno detto che i due erano amanti».
Lei questo però l’ha sempre negato.
«Lei lo nega perché altrimenti non sta in piedi la storia del contratto di consulenza: non si può farlo a un’amante. E comunque l’ha confessato lui, al Tg1».
Ha chiamato Sangiuliano quel giorno?
«Per forza. Circolano tante polpette avvelenate, meglio verificare alla fonte».
L’ha avvertito che ne scriveva?
«Sì. Balbettava “è falso, non c’è alcun contratto”, minacciava querele».
Che impressione ha avuto?
«Di un uomo molto spaventato».
Che ha fatto?
«Ho riportato la sua smentita, mai immaginando la slavina che sarebbe venuta fuori dopo».
Boccia voleva il contratto.
«Lei voleva essere la signora Sangiuliano, voleva che lui lasciasse la moglie. Gli avrebbe detto pure che era incinta».
Ne è sicuro?
«Un uomo di sessant’anni che viene trafitto dall’euforia del potere può perdere la testa. Come un adolescente il ministro si era innamorato».
Insomma, Boccia voleva lo status.
«E Sangiuliano era in pieno deliquio dei sensi».
Perché lui ha permesso le foto su Instagram? Era ancora sposato.
«Avrà perso il controllo della ragione: come un qualsiasi Alberto Sordi si è pure tolto fede. Le avrà detto che il suo matrimonio era finito, le cose che dicono gli uomini in questi casi».
E allora il contratto?
«Lei non voleva soldi, voleva pure lavorare gratis, il contratto era il suggello all’unione. Ma soprattutto il titolo che le permetteva di andare su e giù a spadroneggiare per le stanze del ministero».
E lui glielo nega.
«Sì, dopo Ferragosto ordina al capo di gabinetto Gilioli di stracciarlo. Perché? Questo è il punto mai chiarito della vicenda. Gliel’ha ordinato palazzo Chigi? La moglie?».
Il contratto negato fa precipitare tutto.
«Se glielo concedeva la cosa moriva lì».
Ma questa storia è gossip o è politica?
«Politica tutta la vita. Al pari di Berlusconi, travolto dalla fica, Sangiuliano ha calpestato la decenza istituzionale, non si è reso conto di aver la responsabilità come ministro di rappresentare i cittadini italiani».
Questo è uno scandalo che connota la destra o il potere italiano?
«La verità è che al potere è arrivato un centrodestra di scappati dalla scuola Radio Elettra di Torino».
Addirittura?
«Non sanno cos’è la cultura del potere».
Cos’è la cultura del potere?
«Dialogo, trattativa, compromesso. Non sanno come gestirla. Premier che con un tweet gettano sul marciapiede i compagni, ministri che fermano i treni, deputati che sparano a Capodanno».
Perché Dagospia è così feroce con il melonismo?
«Perché hanno un concetto del potere a dir poco sudamericano».
Ora pare caduto in disgrazia Lollobrigida.
«Un’altra vittima dell’euforia del potere. Ne ho vista di gente a cui un auto blu e cinque telefoni sulla scrivania hanno fatto partire l’embolo».
Tipo?
«Nel 1994 vidi con i miei occhi i leghisti che festeggiavano un compleanno al Gilda con una donna nuda coperta di sola panna».
Elettoralmente Meloni però è ancora forte.
«Io diffido dei sondaggi e dei sondaggisti».
Le sorelle Meloni comandano l’Italia.
«Ma se non comandano nemmeno mariti e compagni. Se non riesci a governare in casa, come puoi governare un Paese?».
Soffrono di complottismo?
«Ha dell’incredibile che un premier non si fidi di un corpo dello Stato, come la polizia. Mai successo. Sono isolati in Europa, emarginati a Washington e passano il tempo a incontrare Orbàn. Una donna sola al comando rischia di andare a sbattere».
Sangiuliano però l’ha scelto lei.
«Perché totalmente ubbidiente».
Era così ubbidiente?
«Meloni in realtà voleva Giordano Bruno Guerri, ma Sangiuliano ha cercato sponde in Vaticano, perché Guerri è stato scomunicato due volte. E la Chiesa si è fatta sentire».
Non è troppo ottimista su un prossimo declino della destra?
«No, perché conosco il potere italiano. Mai crearsi dei nemici».
Il deep state potrebbe respingerli?
«Li reputano dei dilettanti arroccati. La Meloni si è messa subito contro la Corte dei Conti, sono cose che si pagano».
Dice?
«Prenda Sangiuliano, giornalista esordiente alla guida di un ministero di prima fascia. Ha nominato un capo di gabinetto debuttante, un addetto stampa che non conosceva Roma, una responsabile di segreteria di nessuna esperienza, consigliata da Giorgetti».
E lei è affidabile?
«Altrimenti avrei chiuso dopo un anno. Ma è una cosa che ho capito da ragazzo».
Da ragazzo?
«Cominciai a collaborare in Rai nel 1976. Brando Giordani, l’inventore di Odeon, un giorno mi disse: per il via libera dobbiamo passare da una persona importante, il capo di Rai Uno. Entriamo nella sua stanza. Brando mi presenta. Quello alza lo sguardo dalle carte. Dice soltanto: “È affidabile?” “Affidabile” risponde Brando. “Buon lavoro”, ci congeda il capo di Rai Uno».
Insomma, la logica è consociativa?
«Perché De Mita, tramite Agnes, concede ai comunisti di Berlinguer Rai 3? Erano avversari, nessuna legge glielo prescriveva».
Come lavora? Frequentando le terrazze romane?
«Rispondendo a tutti, sempre. Niente puzza sotto il naso. Gli scoop nascono così».
Quanti siete in redazione?
«Sette».
Dagospia è giornalismo?
«Certamente».
Ma alludere che un ministro ha l’amante lo è?
«Sì, se l’amante entra nella macchina dello Stato».
Lei passa per essere spregiudicato.
«In che senso?»
Diciamo che è molto diretto.
«I lettori vanno sedotti. Con titoli-sommario. I pezzi li leggono in pochi».
Quanti anni aveva quando ha fondato Dagospia?
«Cinquantadue. Il primo scoop fu su Franco Tatò che voleva affidare Tele Montecarlo alla moglie, Sonia Raule. Non lo voleva scrivere nessuno. La nostra notizia fece saltare la cosa».
Cosa faceva prima?
«Ho lavorato in banca per dodici anni, entrando a vent’anni nella Cassa di Risparmio di Roma. Mi sono sposato due volte. La prima nel 1972.
Lei era già nato?».
Dago ha famiglia?
«Sì, un figlio, Rocco».
Si diverte ancora?
«Sì, moltissimo. Ma ho 77 anni, e comincio pure a sentire il peso dell’età».
Cosa dice il caso Boccia, alla fine?
«Una sconosciuta di Pompei con il suo cellulare ha messo in crisi Giorgia Meloni: questa è la modernità al tempo di internet».
Concetto Vecchio
QUINTA PAGINA
«Dove le parole non arrivano...
la musica parla»
Ludwig van Beethoven
Nona


 

lunedì 16 settembre 2024

 

Gorilla
di Michele Masneri
Il Foglio
La sindrome da accerchiamento non turba solo Giorgia Meloni arroccata a Palazzo Chigi, che si sente insicura con l’apparato fornito dalla polizia di stato e vorrebbe una scorta sua, diversa, privata. La psicosi della sicurezza (e a volte, come si è visto, non è solo psicosi) arriva anche in America. Dove l’ennesimo svalvolato è stato ritrovato vicino alla residenza floridiana di Trump a Mar a Lago, con vari armamenti, forse pronto a uccidere l’arancione aspirante ri-presidente (un sostenitore della causa ucraina, per aggiungere complicazione ai già facili scenari).
Il Secret Service «ha bisogno di più aiuti», ha detto Joe Biden riferendosi all’apparato statale che sorveglia le più alte autorità americane, commentando con i giornalisti al seguito il secondo tentato omicidio contro Trump. Mentre lo svalvolato-in-chief, il padrone di Tesla e di X Elon Musk, ha scritto sul suo social personale che «nessuno tenta di uccidere Kamala Harris», poi però l’ha cancellato. Ma prima degli avvenimenti domenicali del mondo più pazzo del mondo, il New York Times raccontava in un lungo reportage la nuova mania proprio di Musk, che ormai è circondato da un piccolo esercito privato tanto teme per la sua incolumità.
«È come se avesse un secret service su misura» scriveva il quotidiano. Secondo il Times, Musk avrebbe negli ultimi tempi incrementato di brutto la sua scorta, fino a costituirsi appunto una piccola armata. Anche Musk ha subito una serie di attentati o minacce di attentati: a novembre ad Austin, Texas, dove sta uno stabilimento della Tesla, durante un evento per il lancio del pickup Cybertruck, un uomo è stato arrestato. In generale negli ultimi due anni ad Austin ci sono stati otto incidenti, con due minacce nei confronti dello stesso Musk. Più cinque altri casi nella sede californiana della Tesla originaria a Fremont, California.
L’ultima volta però erano presenti quasi 40 guardie armate, oltre alla società creata appositamente da Musk, Foundation Security (il nome rimanda come spesso nel mondo muskiano al titolo di un romanzo, in questo caso “Fondazione” di Aasimov). Musk, che un tempo faceva una vita abbastanza normale accontentandosi di due guardie del corpo, adesso viaggia con non meno di 20: di qui i costi micidiali: dai 145 mila dollari annui necessari fino al 2018 ora si è passati a oltre 2 milioni. Così Musk entra nel campionato peculiare dei gorilla: Apple spende per la protezione del suo ceo Tim Cook 820 mila dollari, Amazon per Bezos il doppio, 1,6 milioni. Solo Meta spende (molto) di più, con oltre 23 milioni per proteggere Zuckerberg e famiglia. Ovviamente più cresce l’esposizione mediatica e maggiori sono i rischi. Un riccone tranquillo come Warren Buffett per anni se ne andava in giro da solo senza protezione, al massimo con un solo bodyguard. Ma adesso «la probabilità che un matto assassino tenti di ucciderti è proporzionata a quanti matti assassini sentano in giro il tuo nome», ha detto Musk tempo fa, «così eccomi sulla lista».
Intanto c’è tutto un florido settore che campa su svalvolati e attentatori di svalvolati: sia Musk che Zuckerberg che altri si affidano generalmente a una specie di Lvmh della sicurezza, la Gavin de Becker & Associates, una compagnia fondata e gestita da Gavin de Becker, ex portaborsette di Elizabeth Taylor che si è inventato il business di proteggere i ricchi e famosi, e ha lavorato anche per Cher, Tina Turner e molte altre celebrità. Celebrità a sé, è diventato poi lui, oggi settantenne, già fidanzato con la cantante Alanis Morissette e l’attrice Geena Davis. Diventato miliardario, de Becker è autore anche del libro The gift of fearIl dono della paura, che è stato in cima alla classifica dei bestseller americani per un po’. Ha raccontato che la sua infanzia in preda alla paura gli ha forgiato destino e carriera: mamma eroinomane che sparò al marito, poi deceduta, tutto utile per esorcizzare e fatturare. Oggi il suo Instagram mostra lezioni della sua società in cui un modello di aereo privato è sezionato per capire come sconfiggere eventuali dirottatori. Ha elaborato tecniche di investigazione che sono usate per proteggere i membri della Corte suprema Usa ed è diventato capo della sicurezza privata di Jeff Bezos. Per il fondatore di Amazon ha gestito nel 2019 lo spinoso caso delle intercettazioni, quando il suo telefono fu hackerato da spie saudite (mentre il Washington Post, di proprietà di Bezos, aveva raccontato del caso del giornalista Khashoggi attribuendolo direttamente al principe ereditario Bin Salman). De Becker ha anche fondato Private suites, un sistema di stanze di sicurezza presso l’aeroporto a più alta densità di vip del pianeta, il Los Angeles International, dove i divi possono stare tranquilli dal check in all’imbarco. I militi della Gdba non proteggono solo (un viaggio può costare anche 160 mila dollari, come quello effettuato da Musk a gennaio in varie capitali mondiali) ma fanno anche ricerca preventiva su eventuali minacce e minacciatori, al costo di 400 dollari l’ora. Alla bisogna, pare di capire, si trasformano in bravi manzoniani che ammorbidiscono eventuali nemici. Il proprietario dell’account Tesla.com, un placido ingegnere che ce l’aveva da molto prima che Musk si dedicasse all’auto elettrica, all’inizio non voleva venderglielo, poi in qualche modo è stato convinto, dopo svariate visite dei bravi muskiani.
Nel 2016 però Musk a forza di pagare fatture a de Becker si è deciso a mettersi in proprio, aprendo la Foundation Security, dove lavora un certo Justin Riblet, ex militare nelle Forze speciali, che prima stava (ovviamente) alla Gdba.
Certo con tutta questa armata Musk è più impedito nei movimenti e ha perso privacy e naturalezza: all’annuale Burning Man, il ritrovo nel deserto tra musica, droghe e divertimenti che tanto piace ai siliconvallici, le ultime volte era circondato da un cordone sanitario da capo di stato un po’ incongruo. «Si prevedono tempi pericolosi», aveva scritto Musk su X in luglio. «Due persone in due diverse occasioni hanno tentato di uccidermi negli ultimi otto mesi». Ha detto che in entrambi i casi questi attentatori erano armati, anche se la polizia sostiene il contrario. Non si sa bene come stia la faccenda, certo contro la mitomania non c’è armata che tenga.
Praticanti del corso di sicurezza della De Becker & Associates (da Facebook)
Michele Masneri


LETTERA DI CONTE A GRILLO:" POSA I TRECENTOMILA EURO E VATTENE A FARE IN CULO A GENOVA... TERRA DI LADRI E PUTTANIERI...



 Caro Beppe

di Giuseppe Conte
Corriere.it
Caro Beppe,
devo purtroppo rilevare che la tua nota del giorno 5 u.s. presenta gravi inesattezze ed evidenti distorsioni sul ruolo e sui poteri del Garante.
La custodia dei valori fondamentali dell’azione politica del movimento e il potere di interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme statutarie (non voglio qui discutere la legittimità e la concreta rilevanza giuridica di tale altisonante previsione), si risolvono in una moral suasion, ma di certo non si estendono all’esercizio di un supposto diritto di veto o addirittura alla inibizione della consultazione assembleare su uno o più temi della vita del Movimento.
Un insuperabile ostacolo a questa tua visione è il principio democratico su cui si fonda ogni esercizio di attività associativa politica. Questo è un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico – a prescindere da specifiche previsioni statutarie - che vale per tutti gli organismi associativi, ancor più per le associazioni politiche, e che attribuisce all’Assemblea degli iscritti un potere “sovrano”.
Peraltro questi principi sono ben richiamati - ove ce ne fosse bisogno - anche nel nostro Statuto che, all’atto di definire le “finalità” essenziali del Movimento, prevede:
a) L’Associazione garantisce il più ampio spazio di confronto democratico e le più intense modalità di scambio di idee, di opinioni e di valutazioni tra i propri Iscritti. L’Associazione si propone, inoltre, di mantenere un dialogo costante con la società civile e con gruppi, associazioni, organismi variamente rappresentativi, anche non iscritti all’Associazione stessa, in modo da sollecitare l’elaborazione e la raccolta di idee, progetti, suggerimenti, utili ad arricchire le proprie iniziative politiche, sociali e culturali e a migliorare la società e le condizioni di vita dei cittadini.
b) L’Associazione riconosce a tutti gli Iscritti, in conformità con le disposizioni della Carta dei Principi e dei Valori, del presente Statuto, dei Regolamenti e del Codice Etico ed in specie attraverso lo strumento della Rete, un effettivo ruolo di indirizzo e determinazione delle scelte fondamentali per l’attività politica dell’Associazione” (così l’art. 2.2, lett. a), dello Statuto).
Quanto alla impossibilità di aprire un confronto deliberativo sui principi fondativi del Movimento 5 Stelle, ti rammento che nessuna norma statutaria è sottratta a possibili modifiche e/o revisioni da parte dell’assemblea; la stessa Carta dei principi e dei valori è in astratto modificabile (art. 10, lett. h, dello Statuto); così come è prevista dallo statuto (art. 13, lett. a, dello Statuto) la possibilità di modificare il simbolo. Quanto al nome non esistono disposizioni specifiche che ne impediscono la modificazione, soggiacendo quindi una simile eventualità alle ordinarie regole di revisione statutarie. Infine, la regola del limite del doppio mandato è contenuta nel Codice Etico (in sé sottratto al tuo potere di interpretazione autentica), anche esso modificabile tramite consultazione in rete (art. 17, lett. a, dello Statuto).
Ne deriva che nessuna preclusione può essere imposta al potere deliberativo dell’assemblea su nessuno dei temi sopra richiamati né tanto meno il tuo potere di veto, come pure scrivi, può estendersi genericamente anche a “ulteriori temi che dovessero emergere e/o risultare all’esito della consultazione tra gli iscritti”.
In ultimo vorrei segnalarti che le tue reiterate esternazioni pubbliche stanno accreditando agli occhi della opinione pubblica una concezione “dominicale” del Movimento, considerato che una singola persona – per quanto essa sia il meritevole “fondatore” – pretende di comprimere il confronto deliberativo all’interno dell’associazione, contrastando in modo plateale il valore fondamentale che ha ispirato la nascita e lo sviluppo del Movimento stesso: il principio democratico e della libera partecipazione dei cittadini ai processi decisionali.
Questa tua condotta, che sta alimentando il dibattito pubblico con connessi accenni a futuri contenzioni legali e a potenziali scissioni, rischia di appannare le energie e l’entusiasmo che questo processo costituente sta liberando, con il risultato di compromettere gli sforzi che una intera Comunità sta portando avanti per rilanciare - con forza e decisione - l’azione politica del Movimento, coinvolgendo anche i simpatizzanti non ancora iscritti.
Ti aggiungo che queste esternazioni sono del tutto incompatibili con gli obblighi da te specificamente assunti nei confronti del Movimento con riferimento sia alla malleveria sia ai contratti di pubblicità e comunicazione: ciò mi obbliga a valutare possibili iniziative dirette a sospendere l’esecuzione delle prestazioni a carico del Movimento derivanti dalla malleveria, e il recesso dai contratti di pubblicità e comunicazione.

Cordialmente,
Giuseppe Conte
P.S. Giro questa mia nota anche al Comitato di Garanzia, visto che un suo Componente ti ha appena invitato pubblicamente a far pieno uso dei tuoi «poteri» statutari.




lunedì 9 settembre 2024

 Rapporto

di Mario Draghi
Il Foglio
L’Europa si preoccupa del rallentamento della crescita dall’inizio di questo secolo. Si sono succedute varie strategie per aumentare i tassi di crescita, ma la tendenza è rimasta invariata. In base a diversi parametri, tra l’Unione europea e gli Stati Uniti si è aperto un ampio divario in termini di pil, dovuto principalmente a un rallentamento più marcato della crescita della produttività in Europa. A pagarne il prezzo sono le famiglie europee, che hanno visto peggiorare il proprio tenore di vita. Su base pro capite, dal 2000 il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’Ue. Per la maggior parte di questo periodo, il rallentamento della crescita è stato visto come un problema, ma non come una calamità. Gli esportatori europei sono riusciti a conquistare quote di mercato in aree del mondo a crescita più rapida, soprattutto in Asia. Molte più donne sono entrate a far parte della forza lavoro, aumentando il contributo del lavoro alla crescita. Inoltre, dopo le crisi dal 2008 al 2012, la disoccupazione è diminuita costantemente in tutta Europa, contribuendo a ridurre le disuguaglianze e a mantenere il benessere sociale.
L’Ue ha anche beneficiato di un contesto globale favorevole. Il commercio mondiale è cresciuto in un contesto di regole multilaterali. La protezione offerta dall’ombrello di sicurezza degli Stati Uniti ha alleggerito i budget per la difesa, consentendo di destinare risorse ad altre priorità. In un mondo geopoliticamente stabile, non avevamo motivo di preoccuparci della crescente dipendenza da paesi che ci aspettavamo sarebbero rimasti nostri amici. Ma le fondamenta su cui abbiamo costruito stanno ora vacillando. Il precedente paradigma globale sta svanendo. L’èra della rapida crescita del commercio mondiale sembra essere ormai passata, e le imprese dell’Ue si trovano ad affrontare sia una maggiore concorrenza dall’estero che un minore accesso ai mercati esteri. L’Europa ha perso improvvisamente il suo più importante fornitore di energia, la Russia. Nel frattempo, la stabilità geopolitica sta diminuendo e le nostre dipendenze si sono rivelate vulnerabili.
Il cambiamento tecnologico sta accelerando rapidamente. L’Europa si è lasciata sfuggire la rivoluzione digitale trainata da Internet e gli aumenti di produttività che ne sono conseguiti: infatti, il divario di produttività tra l’Ue e gli Stati Uniti è in gran parte dovuto proprio al settore tecnologico. L’Ue è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee. Eppure, il bisogno di crescita dell’Europa sta aumentando. L’Ue sta entrando nel primo periodo della sua storia recente in cui la crescita non sarà sostenuta da un aumento della popolazione. Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro si ridurrà di quasi 2 milioni di lavoratori all’anno. Dovremo puntare maggiormente sulla produttività per guidare la crescita. Se l’Ue dovesse mantenere il suo tasso medio di crescita della produttività dal 2015, sarebbe sufficiente a mantenere il pil costante fino al 2050, in un momento in cui l’Ue si trova ad affrontare una serie di nuovi investimenti che dovranno essere finanziati attraverso una crescita più elevata. Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la nostra capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del pil fino a raggiungere i livelli degli anni ‘60 e ‘70. Si tratta di una cifra senza precedenti: per fare un confronto, gli investimenti aggiuntivi forniti dal Piano Marshall tra il 1948-51 ammontavano a circa l’1-2 per cento del pil all’anno. Se l’Europa non riuscirà a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare contemporaneamente un leader nelle nuove tecnologie, un faro della responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. E’ una sfida esistenziale.
I valori fondamentali dell’Europa sono la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile. L’Ue esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non sarà più in grado di garantirli ai suoi cittadini – o se sarà costretta a sacrificarne alcuni per averne altri – avrà perso la sua ragione d’essere. L’unico modo per affrontare questa sfida è crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente.
Questo report individua tre settori principali di intervento per rilanciare una crescita sostenibile. In ogni area non partiamo da zero. L’Ue dispone ancora di punti di forza generali – come sistemi educativi e sanitari forti e stati sociali solidi – e di punti di forza specifici su cui basarsi. Ma collettivamente non stiamo ancora riuscendo a convertire questi punti di forza in industrie produttive e competitive sulla scena globale. In primo luogo, e più di ogni altra cosa, l’Europa deve riorientare profondamente i suoi sforzi collettivi per colmare il divario in materia di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, in particolare per quanto riguarda le tecnologie avanzate.
L’Europa è bloccata in una struttura industriale statica, con poche nuove imprese che si emergono per rivoluzionare le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita. Di fatto, negli ultimi cinquant’anni non c’è stata nessuna azienda europea con una capitalizzazione di mercato superiore a 100 miliardi di euro che sia stata creata da zero, mentre tutte e sei le aziende statunitensi con una valutazione superiore a 1.000 miliardi di euro sono state create nello stesso lasso di tempo. Questa mancanza di dinamismo si autoalimenta.
Poiché le imprese dell’Ue sono specializzate in tecnologie mature in cui il potenziale di innovazione è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione (R& I) – 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021. Negli ultimi vent’anni, i primi tre investitori in R& I in Europa sono stati dominati dalle aziende automobilistiche. Lo stesso accadeva negli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, con il settore automobilistico e farmaceutico in testa, ma ora i primi tre sono tutti nel settore tecnologico. Il problema non è che l’Europa manchi di idee o di ambizioni. Abbiamo molti ricercatori e imprenditori di talento che depositano brevetti. Ma l’innovazione è bloccata nella fase successiva: non riusciamo a tradurre l’innovazione in commercializzazione e le aziende innovative che vogliono crescere in Europa sono ostacolate in ogni fase da normative incoerenti e restrittive.
Di conseguenza, molti imprenditori europei preferiscono chiedere finanziamenti ai venture capitalist statunitensi e scalare nel mercato americano. Tra il 2008 e il 2021, quasi il 30 per cento degli “unicorni” fondati in Europa - startup che hanno superato il miliardo di dollari di valore – ha trasferito la propria sede all’estero, la maggior parte negli Stati Uniti. Con il mondo che si avvia a una rivoluzione dell’intelligenza artificiale, l’Europa non può permettersi di rimanere bloccata nelle “tecnologie e industrie di mezzo” del secolo scorso. Dobbiamo sbloccare il nostro potenziale innovativo. Questo sarà fondamentale non solo per essere leader nelle nuove tecnologie, ma anche per integrare l’IA nelle nostre industrie esistenti in modo che possano rimanere all’avanguardia. Una parte centrale di questa agenda consisterà nel fornire agli europei le competenze necessarie per trarre vantaggio dalle nuove tecnologie, in modo che tecnologia e inclusione sociale vadano di pari passo. Se da un lato l’Europa deve puntare a eguagliare gli Stati Uniti in termini di innovazione, dall’altro deve puntare a superare gli Stati Uniti nell’offrire opportunità di istruzione e di apprendimento agli adulti e posti di lavoro di qualità per tutti nel corso di tutta la vita.
La seconda area di azione è un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività.
Se agli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa corrisponderà un piano coerente per raggiungerli, la decarbonizzazione sarà un’opportunità per l’Europa. Ma se non riusciamo a coordinare le nostre politiche, c’è il rischio che la decarbonizzazione finisca per andare in senso opposto alla competitività e alla crescita. Anche se i prezzi dell’energia sono diminuiti notevolmente rispetto ai recenti picchi, le imprese dell’Ue devono ancora far fronte a prezzi dell’elettricità che sono 2-3 volte quelli degli Stati Uniti. I prezzi del gas naturale sono 4-5 volte superiori. Questo divario di prezzo è dovuto principalmente alla mancanza di risorse naturali in Europa, ma anche a problemi fondamentali del nostro mercato comune dell’energia. Le regole del mercato impediscono alle industrie e alle famiglie di cogliere tutti i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette. Le tasse elevate e le rendite catturate dagli operatori finanziari aumentano i costi energetici per la nostra economia.
Nel medio termine, la decarbonizzazione contribuirà a spostare la produzione di energia verso fonti energetiche pulite sicure e a basso costo. Ma i combustibili fossili continueranno a svolgere un ruolo centrale nella determinazione dei prezzi dell’energia almeno per il resto di questo decennio. Senza un piano per trasferire i benefici della decarbonizzazione agli utenti finali, i prezzi dell’energia continueranno a pesare sulla crescita. La spinta globale alla decarbonizzazione è un’opportunità di crescita anche per l’industria dell’Ue. L’Unione europea è leader mondiale nelle tecnologie pulite come le turbine eoliche, gli elettrolizzatori e i carburanti a basse emissioni di carbonio, e più di un quinto delle tecnologie pulite e sostenibili a livello mondiale si è sviuppato qui. Tuttavia, non è detto che l’Europa riesca a cogliere questa opportunità. La concorrenza cinese si sta facendo sempre più agguerrita in settori come la tecnologia pulita e i veicoli elettrici, grazie a una potente combinazione di politiche industriali e sussidi massicci, innovazione rapida, controllo delle materie prime e capacità di produrre su scala continentale.
L’Ue si trova di fronte a un possibile compromesso. Una maggiore dipendenza dalla Cina può offrire la strada più economica ed efficiente per raggiungere i nostri obiettivi di decarbonizzazione. Ma la concorrenza statale cinese rappresenta anche una minaccia per le nostre industrie produttive di tecnologia pulita e automobilistica. La decarbonizzazione deve avvenire per il bene del nostro pianeta. Ma affinché diventi anche una fonte di crescita per l’Europa, avremo bisogno di un piano comune che abbracci le industrie che producono energia e quelle che consentono la decarbonizzazione, come le tecnologie pulite e l’industria automobilistica.
La terza area di azione è l’aumento della sicurezza e la riduzione delle dipendenze.
La sicurezza è un prerequisito per una crescita sostenibile. L’aumento dei rischi geopolitici può aumentare l’incertezza e frenare gli investimenti, mentre i grandi choc geopolitici o gli arresti improvvisi del commercio possono essere estremamente dirompenti. Con l’affievolirsi dell’èra della stabilità geopolitica, aumenta il rischio che la crescente insicurezza diventi una minaccia per la crescita e la libertà. L’Europa è particolarmente esposta: dipendiamo da pochi fornitori di materie prime essenziali, in particolare dalla Cina, anche se la domanda globale di tali materiali sta esplodendo a causa della transizione verso l’energia pulita. Siamo anche estremamente dipendenti dalle importazioni di tecnologia digitale. Per quanto riguarda la produzione di chip, il 75-90 per cento della capacità globale di produzione di wafer si trova in Asia.
Queste dipendenze sono spesso bidirezionali – ad esempio, la Cina si affida all’Ue per assorbire la sua sovraccapacità industriale – ma altre grandi economie come gli Stati Uniti stanno attivamente cercando di svincolarsi. Se l’Ue non agisce, rischiamo di essere vulnerabili alla coercizione. In questo contesto, avremo bisogno di una vera e propria “politica economica estera” dell’Ue per mantenere la nostra libertà – la cosiddetta statecraft. L’Ue dovrà coordinare gli accordi commerciali preferenziali e gli investimenti diretti con i paesi ricchi di risorse, costituire scorte in aree critiche selezionate e creare partenariati industriali per garantire la catena di approvvigionamento delle tecnologie chiave. Solo insieme possiamo creare la leva di mercato necessaria per fare tutto questo.
La pace è il primo e principale obiettivo dell’Europa. Ma le minacce alla sicurezza fisica sono in aumento e dobbiamo prepararci. L’Ue è, nel suo complesso, il secondo paese al mondo per ammontare della spesa militare, ma questo non si riflette nella forza della nostra capacità industriale di difesa. L’industria della difesa è troppo frammentata, il che ostacola la sua capacità di produrre su scala, e soffre di una mancanza di standardizzazione e interoperabilità delle attrezzature, che indebolisce la capacità dell’Europa di agire come una potenza coesa. Ad esempio, in Europa si producono dodici diversi tipi di carri armati, mentre gli Stati Uniti ne producono solo uno. In molti di questi settori, gli stati membri stanno già agendo individualmente e le politiche industriali sono in aumento. Ma è evidente che l’Europa è al di sotto dei risultati che potrebbe raggiungere se agisse come una comunità. Tre barriere si frappongono sulla nostra strada.
In primo luogo, l’Europa manca di concentrazione. Definiamo sì obiettivi comuni, ma non li sosteniamo definendo priorità chiare o dando seguito ad azioni politiche congiunte. Ad esempio, sosteniamo di favorire l’innovazione, ma continuiamo ad aggiungere oneri normativi alle imprese europee, che sono particolarmente costosi per le PMI e si autodistruggono per quelle che operano nei settori digitali. Più della metà delle PMI europee indica gli ostacoli normativi e gli oneri amministrativi come la loro sfida più grande. Abbiamo inoltre lasciato il nostro mercato unico frammentato per decenni, il che ha un effetto a cascata sulla nostra competitività. Questo spinge le imprese a forte crescita all’estero, riducendo a sua volta il bacino di progetti da finanziare e ostacolando lo sviluppo dei mercati dei capitali europei. Senza progetti a forte crescita in cui investire e senza mercati dei capitali che li finanzino, gli europei perdono l’opportunità di diventare più ricchi. Anche se le famiglie dell’Ue risparmiano di più rispetto alle loro controparti statunitensi, la loro ricchezza è cresciuta solo di un terzo dal 2009.
In secondo luogo, l’Europa sta sprecando le sue risorse comuni. Abbiamo una grande capacità di spesa collettiva, ma la diluiamo in molteplici strumenti nazionali e comunitari. Ad esempio, nell’industria della difesa non abbiamo ancora unito le forze per aiutare le nostre aziende a integrarsi e a operare su più larga scala. Gli acquisti collaborativi europei hanno rappresentato meno di un quinto della spesa per l’acquisto di attrezzature per la difesa nel 2022. Inoltre, non favoriamo le imprese europee competitive nel settore della difesa. Tra la metà del 2022 e la metà del 2023, il 78 per cento della spesa totale per gli appalti è stato destinato a fornitori di paesi terzi, di cui il 63 per cento agli Stati Uniti. Allo stesso modo, non collaboriamo abbastanza in materia di innovazione, anche se gli investimenti pubblici in tecnologie innovative richiedono grandi capitali e le ricadute per tutti sono sostanziali. Il settore pubblico dell’Ue spende per la R& I una quota del pil pari a quella degli Stati Uniti, ma solo un decimo di questa spesa avviene a livello europeo.
In terzo luogo, l’Europa non si coordina dove è importante. Le strategie industriali di oggi – come quelle degli Stati Uniti e della Cina – combinano molteplici politiche, che vanno dalle politiche fiscali per incoraggiare la produzione interna, alle politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali, alle politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento. Nel contesto dell’Ue, collegare le politiche in questo modo richiede un alto grado di coordinamento tra gli sforzi nazionali e quelli dell’Ue. Ma a causa del suo processo decisionale lento e disaggregato, l’Ue è meno in grado di produrre una risposta di questo tipo. Le regole decisionali europee non si sono evolute in modo sostanziale con l’allargamento dell’Ue e con l’aumento dell’ostilità e della complessità dell’ambiente globale che dobbiamo affrontare. Le decisioni vengono in genere prese un problema alla volta, con molteplici veti lungo il percorso. Il risultato è un processo legislativo con un tempo medio di 19 mesi per approvare nuove leggi, dalla proposta della Commissione alla firma dell’atto adottato – e prima ancora che le nuove leggi vengano attuate negli stati membri.
L’obiettivo di questo rapporto è quello di delineare una nuova strategia industriale per l’Europa al fine si superare questi ostacoli.
Individuiamo le cause profonde dell’indebolimento della posizione dell’Ue in settori strategici chiave e presentiamo una serie di proposte per ripristinare la forza competitiva dell’Ue. Per ogni settore analizzato, individuiamo proposte prioritarie per il breve e medio termine. In altre parole, queste proposte non sono da intendersi come aspirazioni: la maggior parte di esse è pensata per essere attuata rapidamente e per fare concretamente la differenza rispetto alle prospettive dell’Ue. In molti settori, l’Ue può ottenere molto facendo piccoli passi, ma in modo coordinato e allineando tutte le politiche in vista di un obiettivo comune. In altri settoriè necessario fare pochi passi ma più grandi, delegando all’Ue compiti che possono essere svolti solo in tale ambito. In altri settori ancora, l’Ue dovrebbe fare un passo indietro, applicando il principio di sussidiarietà in modo più rigoroso e riducendo l’onere normativo che impone alle imprese europee.
Una questione fondamentale che si pone è come l’Ue dovrebbe finanziare i massicci investimenti necessari per trasformare l’economia. In questo rapporto presentiamo delle simulazioni per rispondere a questa domanda. Per l’Ue si possono trarre due conclusioni fondamentali.
In primo luogo, l’Europa deve certamente fare passi avanti verso la sua Unione dei mercati dei capitali, ma il settore privato non sarà in grado di sostenere la quota maggiore di finanziamento degli investimenti senza il sostegno del settore pubblico. In secondo luogo, quanto più l’Ue è disposta a riformarsi per generare un aumento della produttività, tanto più aumenterà lo spazio fiscale e sarà più facile per il settore pubblico fornire questo sostegno. Questo collegamento evidenzia perché l’aumento della produttività è fondamentale. Ha anche implicazioni per l’emissione di beni comuni sicuri. Per massimizzare la produttività, sarà necessario un finanziamento congiunto per gli investimenti in beni pubblici europei fondamentali, come l’innovazione di frontiera. Allo stesso tempo, ci sono altri beni pubblici identificati in questo rapporto – come gli appalti nel settore della difesa o le reti transfrontaliere – che non saranno forniti senza un’azione comune. Se le condizioni politiche e istituzionali saranno soddisfatte, anche questi progetti richiederanno un finanziamento comune.
Questo rapporto esce in un momento difficile per il nostro continente. Dovremmo abbandonare l’illusione che solo la procrastinazione possa preservare il consenso. In realtà, la procrastinazione ha prodotto solo una crescita più lenta, e non ha certo ottenuto più consenso. Siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, dovremo compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà. Affinché la strategia delineata in questo rapporto abbia successo, dobbiamo iniziare con una valutazione comune della nostra posizione, degli obiettivi a cui vogliamo dare priorità, dei rischi che vogliamo evitare e dei compromessi che siamo disposti a fare. Dobbiamo garantire che le nostre istituzioni democraticamente elette siano al centro di questi dibattiti. Le riforme possono essere veramente ambiziose e sostenibili solo se godono del sostegno democratico. E dobbiamo assumere una nuova posizione nei confronti della cooperazione: nella rimozione degli ostacoli, nell’armonizzazione di regole e leggi e nel coordinamento delle politiche. Ci sono diversi ambiti in cui possiamo avanzare. Ma ciò che non possiamo fare è non avanzare affatto. La nostra fiducia nel fatto che riusciremo ad andare avanti deve essere forte. Mai in passato le dimensioni dei nostri paesi sono apparse così piccole e inadeguate rispetto alle dimensioni delle sfide. E da molto tempo l’autoconservazione non era una preoccupazione così comune. Le ragioni per una risposta unitaria non sono mai state così convincenti, e nella nostra unità troveremo la forza di riformarci.
Mario Draghi

venerdì 6 settembre 2024


Giuli
di Flavia Amabile
La Stampa
Stavolta non è andata come due anni fa, quando il governo Meloni si era appena insediato e Alessandro Giuli veniva considerato fra i possibili portavoce ma lui non ne sapeva nulla. Della nomina a ministro della Cultura Giuli era stato informato ed era pronto a salvare l’esecutivo dell’amica Giorgia Meloni dalla pessima figura che ha valicato i confini diventando materia da prima pagina dei quotidiani di mezzo mondo alla viglia del G7 della Cultura. Perché lui di Giorgia Meloni è amico da anni. In molti lo considerano il giornalista più meloniano d’Italia e lui, come ha sottolineato ai microfoni di Un giorno da pecora nell’ottobre di due anni fa, non prova fastidio di fronte a questa definizione anche se di Giorgia Meloni si considera soprattutto lo «sconsigliere». L’amicizia è nata «rissosamente», racconta Giuli a Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, nel 2007 quando scrisse un libro che si chiamava "Il passo delle oche". «Non trattai bene nessuno di quelli che allora facevano parte della nomenklatura di An», ricorda Giuli. Ci fu una discussione. «Poi – prosegue Giuli – ci incontrammo in un talk televisivo e discutemmo animosamente e io me la cavai con una battuta: non vi preoccupate è un regolamento di conti tra vecchi camerati». Era una battuta ma non solo.
Giuli compirà 49 anni fra venti giorni, stessa data di Francesco Totti (coincidenza che gli piace molto, da sfegatato tifoso romanista) ma due anni in meno, e la sua gioventù l’ha trascorsa tra le file di Meridiano Zero, un movimento neofascista nato nel 1991, in una data simbolica come l’8 settembre, dalla fusione di alcuni gruppi di fuoriusciti dal Fronte della Gioventù romano. Erano ambienti in cui ci si menava e si era menati come tutti ma, a differenza di tanti altri, Giuli smette presto di affidare alla violenza il suo ardore politico. La sua risposta la trova nei libri. Studia filosofia alla Sapienza, supera tutti gli esami ma nel frattempo inizia a scrivere sui giornali. Quando ormai manca soltanto la tesi lascia l’università e si dedica al giornalismo a tempo pieno. Lavora con Giorgio Dell’Arti, con Giuliano Ferrara al Foglio di cui diventa vicedirettore e condirettore. Poi però qualcosa si spezza nel rapporto con la redazione, Giuli va via e inizia una nuova vita. Nel 2018 partecipa ad Atreju, la manifestazione politica giovanile della destra italiana e definisce Putin «un patriota» ma soprattutto è arrivato il momento del debutto in televisione.
Con Giorgia Meloni dalle discussioni sono passati all’amicizia, lei ha un partito che ha percentuali ridicole, si sente esclusa e cerca di imporre persone di cui si fida in Rai. Fra il 2019 e il 2020 Giuli è ospite fisso della trasmissione Povera Patria condotta da Annalisa Bruchi su Rai 2. Nel 2020 conduce con Francesca Fagnani Seconda linea su Rai 2, chiuso dopo due puntate. Collabora con L’Argonauta su Rai Radio 1. Nessuna di queste trasmissioni viene considerata un successo e non aiuta il fatto che Giuli porti in tv la sua passione per i culti pagani: appare suonando un antico flauto ma il pubblico non apprezza. Poco importa, Giuli il flauto continua a suonarlo per i figli quando li porta in giro per le campagne romane, luoghi come il Monte Cavo dove ha origine la storia di Roma e dove si celebra «il ritorno del fuoco sacro in Occidente». I miti se li è anche tatuati sul corpo: sul petto un’aquila che era effigiata su una moneta romana e sul braccio sinistro ha lo scettro di Spoleto dove è raffigurato un sacerdote.
Nel frattempo l’amicizia con Giorgia Meloni è diventata ancora più stretta. Anche se non sempre sono d’accordo, lei di lui sa di potersi fidare. La sorella di Giuli è stata la storica portavoce di Francesco Lollobrigida poi è passata a fare la portavoce di Arianna Meloni. Quando Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio è a un passo dall’affidargli il ruolo di portavoce e poi quello di ministro della Cultura, poi preferisce dargli la guida della Fondazione Museo Maxxi. Quasi due anni in cui Giuli ha avuto un solo incidente lo scorso anno, quando all’apertura della stagione estiva sul palco c’erano Vittorio Sgarbi, allora sottosegretario del ministero della Cultura, e il cantante Morgan e la conversazione rapidamente si trasformò in un crescendo di volgarità, pessime battute sessiste. L’incidente viene rapidamente archiviato mentre Giuli lavora in modo discreto e convinto a costruire una cultura di destra. «Una destra che – secondo Giuli – non recida le proprie radici né corra il rischio di inseguire la sinistra in ritardo, una destra che dovrebbe seguire il progetto di rendere possibile dichiararsi i più progressisti tra i conservatori», come scrive nel suo ultimo libro: Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea (Rizzoli).
È una destra che piace anche a Giorgia Meloni che non ha avuto dubbi su chi poteva riportare la calma nel dicastero del Collegio Romano dopo due anni di gaffes e di annunci roboanti: Alessandro Giuli, l’uomo che parla con un tono morbido e avvolgente, che appare gentile, moderato. Alessandro Giuli, l’anti-Sangiuliano.
Flavia Amabile
Dimissioni
di Gennaro Sangiuliano
Ministero della Cultura
Questo il testo della lettera di dimissioni inviata dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Caro Presidente, cara Giorgia,
dopo aver a lungo meditato, in giornate dolorose e cariche di odio nei miei confronti da parte di un certo sistema politico mediatico, ho deciso di rassegnare in termini irrevocabili le mie dimissioni da Ministro della Cultura. Ti ringrazio per avermi difeso con decisione, per aver già respinto una prima richiesta di dimissioni e per l’affetto che ancora una volta mi hai testimoniato. Ma ritengo necessario per le Istituzioni e per me stesso di rassegnare le dimissioni. Come hai ricordato di recente, stiamo facendo grandi cose, e lo dico come comunità politica e umana alla quale mi sento di appartenere. Sono fiero dei risultati raggiunti sulle politiche culturali in questi quasi due anni di Governo. A partire dall’aver messo fine alla vergogna tutta italiana dei musei e dei siti culturali chiusi durante i periodi di ferie, aver incrementato in appena un anno il numero dei visitatori dei musei (più 22 per cento) e gli incassi degli stessi (più 33 per cento). A dicembre a Milano aprirà palazzo Citterio acquistato dal ministero nei primi anni Settanta e poi rimasto inutilizzato per decenni. Sono ben avviati grandi progetti come l’ex Albergo dei Poveri di Napoli, l’ampliamento degli Uffizi in altre sedi e l’investimento per la Biennale di Venezia. Per la prima volta in Italia sono state organizzate grandi mostre su autori personaggi storici che la sinistra aveva ignorato per ragioni ideologiche. Sono consapevole, inoltre, di aver toccato un nervo sensibile e di essermi attirato molte inimicizie avendo scelto di rivedere il sistema dei contributi al cinema ricercando più efficienza e meno sprechi. Questo lavoro non può essere macchiato e soprattutto fermato da questioni di gossip. Le Istituzioni sono un valore troppo alto e non devono sottostare alle ragioni dei singoli. Io ho bisogno di tranquillità personale, di stare accanto a mia moglie che amo, ma soprattutto di avere le mani libere per agire in tutte le sedi legali contro chi mi ha procurato questo danno, a cominciare da un imminente esposto alla Procura della Repubblica, che intendo presentare. Qui è in gioco la mia onorabilità e giudico importante poter agire per dimostrare la mia assoluta trasparenza e correttezza, senza coinvolgere il Governo. Mai un euro del ministero è stato speso per attività improprie. L’ho detto e lo dimostrerò in ogni sede. Non solo. Andrò fino in fondo per verificare se alla vicenda abbiano concorso interessi diversi e agirò contro chi ha pubblicato fake news in questi giorni.
Gennaro Sangiuliano
Auto
di Alberto Caprotti
Avvenire
Lo dicono i numeri, lo confermano la disastrosa realtà del mercato e la preoccupante prospettiva occupazionale e di fruibilità per il futuro: senza interventi strutturali sulle politiche attuali al momento difficili da ipotizzare, quella dell’automobile verrà ricordata come la transizione ecologica più fallimentare della storia. Le intenzioni erano ottime, ma il sistema scelto per arrivare al risultato è stato pessimo, e lontano dalle aspettative, dalle necessità reali e dalle possibilità economiche della gente. E soprattutto resta incomprensibile l’incapacità da parte dell’Europa di correggere in corsa l’approccio alla svolta elettrica che si è rivelato approssimativo e privo del supporto che una rivoluzione del genere – per giunta imposta dall’alto e non scelta dal pubblico – sarebbe stato indispensabile. La crisi della mobilità 100% a batteria, che non decolla e anzi implode su se stessa con percentuali di immatricolazioni sempre più basse nonostante gli incentivi, non è l’unica ma è una delle cause che stanno trascinando nello stallo l’intero settore dell’automotive. Meno auto prodotte, e meno auto vendute, significano posti di lavoro a rischio e fabbriche in chiusura persino nella potente Germania. E prospettive drammatiche per l’Italia, che sui motori ha vissuto stagioni esaltanti ormai sempre più lontane. Ma non è solo una questione di occupazione. C’è un diritto alla mobilità da difendere. E una giusta aspettativa verso sistemi di propulsione ecologici distrutta dalla realtà di vetture a “zero emissioni” allo scarico nessuna delle quali oggi a listino ha prezzi medi inferiori a 20mila euro e che l’Europa vuole imporci senza alternative a partire dal 2035. Dall’altra parte della barricata ai segni meno del mercato, i costruttori stanno reagendo in maniera disordinata, adeguando in corsa i piani prodotto. C’è chi sposta in avanti i termini per il passaggio definitivo all’elettrico dopo aver annunciato scadenze imprudenti, come stanno facendo in molti, a iniziare da Volvo e Audi. C’è chi addirittura rispolvera il diesel, come Stellantis in alcuni mercati. E chi ammette senza mezzi termini di aver sbagliato le previsioni, come Ford. Molti hanno deciso di produrre meno vetture termiche per far crescere artificialmente la percentuale di emissioni zero evitando le multe, ma vendendole a un prezzo più alto per non perdere i margini ai quali erano abituati. Tutto questo mentre la Cina avanza, offrendo prodotti esteticamente e tecnologicamente sempre migliori, e con listini più che competitivi. L’Europa le ha spalancato le porte, suicidandosi. E illudendosi ora che i dazi basteranno a chiuderle. Non sarà così.