Accadde
a Positano nel 1987
La studentessa Rita Squeglia di Recale
uccise il suo amante Nicola Acconcia un
facoltoso imprenditore casertano
Caserta -
“L'Alfa 33 fila veloce sul tratto Caserta-Napoli dell’ A2. L’asfalto è
rovente: è il pomeriggio del 14 agosto. In un curvone una folata di vento fa
volare via dal cruscotto il tagliando ritirato al casello d’ingresso. Se il
guidatore non lo recupera dovrà pagare l’intero pedaggio. E lui è un tipo
pignolo. Accosta, quindi, e scende. Ma niente, quel refolo chissà dove lo avrà
fatto finire. Nel rimontare in auto scorge qualcosa tra le erbacce: una patente
ed un tesserino magnetico dell’autostrada. Ignora che quei documenti, trovati
per un incredibile caso, inchioderanno alle sue responsabilità una studentessa
di 24 anni, Rita Speranza Squeglia, che era ad un passo dall’aver
commesso un delitto… quasi perfetto”.
“Aveva strangolato l’amante – riportarono
i giornali dell’epoca - un uomo di oltre vent’anni più grande di lei, ne aveva
trasportato il cadavere in valigia, da Positano a Recale, e lo aveva infine
nascosto in un bidone di ferro sotto uno strato di calce e di sabbia nel
giardino di casa. E intanto, tranquilla, collaborava con la polizia per
risolvere il giallo della misteriosa scomparsa dell’uomo, Nicola Acconcia, 46 anni, facoltoso commerciante, originario di
Caserta, sposato, tre figli, sparito da oltre tre settimane.
Bruna, minuta, assai femminile, Rita
Squeglia, studentessa fuori corsi dell’Isef, colta, sensibile, raccontò tutto… ma senza lacrime. Sulle prime però, non spiegò il perché del suo
delitto. Fredda, lucida, circostanziata
la sua deposizione. Ma niente, non volle
dire il perché. Poi lo dirà… ossia dirà la sua che,
tuttavia, è rimasta poco
credibile…
Questa la prima versione dei fatti. E’ un
venerdì, il 31 luglio del 1987, Nicola Acconcia e Rita sono in un
miniappartamento in via Panini a Positano. Il commerciante ha preso in affitto quel monolocale per i
mesi di agosto e settembre. Lo ha fatto per Rita, lui ha famiglia: moglie e tre
figli. Prima di andare a letto l’uomo chiede alla ragazza di preparargli una
tisana. Beve tranquillo, nemmeno sospetta che quello è l' ultimo atto della sua
vita. Nella tazza, infatti, Rita ha sciolto un potente sonnifero.
E quando Nicola è ormai addormentato lei
con un foulard di seta lo strangola. Poi
tira fuori dal ripostiglio la sua grossa valigia
da aereo e vi caccia dentro il corpo dell’uomo. E’ quasi l’alba ormai:
il valigione ha le rotelle per cui non è difficile trasportarlo fino alla sua
Polo, parcheggiata davanti al portone. Lo stipa nel bagagliaio e parte alla
volta di Recale.
Paga l’autostrada con la tessera magnetica
di Acconcia. Arriva a casa che è ormai mattina. Sistema il cadavere in un
grosso recipiente di quelli che contengono oli minerali, coprendolo con sabbia
e calce. Qualcuno l'aiuta? Chissà. Sta di fatto che accantona il bidone in un
angolo del giardino sotto una pila di tronchi di legno e finalmente va a letto.
Solo nei giorni seguenti, dopo la
confessione della ragazza, il cadavere salterà fuori. “Non volevamo credere ai
nostri occhi” - racconta il dottor Stefano
Cecere, capo della mobile casertana,
“sembrava così fragile e indifesa.... ma la sua versione del delitto per
noi faceva acqua… da tutte le parti”.
Giudicata per
omicidio dalla Corte di Assise di Salerno fu condannata a 22 anni e 6 mesi – In
appello la pena fu ridotta a 18 anni – La difesa affidata all’On. Avv. Vincenzo
Siniscalchi, la parte civile agli
avvocati Alberto e Alfonso Martucci –
Rita e Nicola si erano
conosciuti circa otto mesi prima. La
ragazza cercava tenerezza e non aveva ancora superato lo shock della terribile
esperienza di alcuni anni prima. Quando
tre giovani mascherati, legato il
fidanzato, l’avevano violentata ripetutamente dalla periferia di Casertavecchia. Forse quel trauma potrebbe spiegare un
delitto che appare indecifrabile. Ma facciamo un passo indietro. Trentuno
luglio, mattina, casa Acconcia, a Recale. Nicola saluta Teresa, la moglie: Vado
a Roma le dice ho un pranzo d' affari. Sarò di ritorno domani. La donna gli
crede: il loro è un rapporto sereno che va avanti da anni. Acconcia monta sulla
sua Mercedes e sparisce.
Domenica 2 agosto. Teresa Acconcia è preoccupata dalla prolungata assenza del marito,
va in questura e ne denuncia la
scomparsa. Un giornale locale pubblica la notizia della sparizione del commerciante
che fa parte di una famiglia facoltosa, stimata, con parentele importanti, di
professionisti, di membri inseriti anche
a livello sociale nel “jet-set”… casertano
Fra le ipotesi degli inquirenti non era esclusa quella di un rapimento, con richiesta di riscatto o di una vendetta
del racket, essendo la nostra provincia
infestata di camorristi ed avendo appunto gli Acconcia alcune attività nella
zona di Marcianise, dove da tempo
imperversava una banda di
delinquenti, più sanguinaria e micidiale
di quella dei Casalesi. Gli Acconcia –
come detto - sono infatti una facoltosa
famiglia di imprenditori con una avviata impresa di trasporti. E’ gente solida.
A quell’epoca, un fratello di Nicola, Antonio, era vicepresidente della Casertana Calcio.
Dopo l’articolo apparso sul giornale, che
raccontava della sparizione dell’uomo e
stante il fatto che molti sapevano della sua relazione, la ragazza,
non potette esimersi di entrare in scena. Rita Squeglia, infatti,
il giorno 4 agosto, quattro giorni dopo
il delitto, andò in Questura. Chiese del dottor Cecere che
stava conducendo le indagini, al quale riferì di conoscere Acconcia: “Abbiamo
una relazione”- raccontò - “il 31 luglio eravamo insieme in un
appartamentino di Positano. Verso l’una e trenta, però, Nicola mi salutò: aveva
un appuntamento. Non precisò né dove né
con chi. Sono preoccupata. Dopo che è partito, verso le due e trenta, mi sono
sentita sola, stavo anche male, e così ho deciso di ritornarmene a casa. Il
giorno dopo però, sono ritornata a Positano”…
“Perchè?... domandò il poliziotto… “Non
avevo niente da fare”… fu la risposta.
Qualcosa non convinse gli investigatori. Perché raccontare particolari
che nessuno le aveva chiesto, perché partire di notte per poi ritornare qualche
ora più tardi? Ma sono domande senza risposta. Acconcia non si trova e quella
ragazza è così dolce e indifesa. Varcherà il portone della questura tutti i
giorni per chiedere notizie del suo uomo.
Poi la svolta. Salta fuori un amico di
Rita, un giovane di venti anni, che l’ha accompagnata a Positano proprio il
primo agosto. Racconta che la ragazza ha pagato l’autostrada con un tesserino
magnetico. Lui poi è ritornato indietro con la “Polo” dell’assassina che invece
sostiene di aver pagato con degli spiccioli. Sembra una cosa da niente e si
dimostrerà un particolare decisivo, allorché il signore che sfrecciava con la
sua Alfa ( era di Benevento) ritroverà
quella tessera.
Il computer dell’autostrada confermerà che
quel cartoncino è stato usato più volte sul tratto Caserta-Napoli-Positano,
anche dopo la scomparsa di Acconcia. E chi se non Rita poteva averlo esibito? Poi la
confessione, che non risolse il mistero di un delitto inquietante.
Rita venne arrestata e rinchiusa nel carcere di Arienzo,
dove confesserà la sua versione definitiva,
in uno sfogo che la direttrice dell’epoca, Liliana De Cristoforo, con altre coinvolgenti
storie, ha raccolto in un interessante e fortunato volume, “Donne, cancelli e
delitti” - Racconti dal carcere - edito
da Guida.
E’ in libertà da
tempo e si è rifatta una vita. Strangolò l’amante, di oltre vent’anni più
grande di lei, trasportò il cadavere in valigia, da Positano a Recale,
e lo nascose in un bidone di ferro sotto uno strato di
calce e di sabbia nel giardino di casa… chi fu il suo complice?
Dalla sua singolare vicenda è
stato tratto il film “Senza movente”, dove il regista, reinventa la tragica vicenda
della ragazza che strangolò in un residence di Positano “l’amante-padrone” e ne
chiuse il cadavere in una valigia, che
trascinò giù da sola per 116 scalini: Omicidio apparentemente “senza movente”,
anche se la ragazza, oggi trentaseienne e in semilibertà, dopo sette anni di reclusione, più tardi
rivelò di aver riconosciuto nel manesco imprenditore uno dei tre uomini
incappucciati che l’avevano stuprata qualche tempo prima. Una violenza mai
denunciata, per paura, per vergogna, perché cosi vanno le cose al sud.
Nel rielaborare la delicata materia di
cronaca il regista Luciano Odorisio
comincia proprio dal delitto, un pò alla maniera di Hitchcock, per mostrare la
fatica e il tempo che possono essere necessari per uccidere un uomo. Da lì,
attraverso una complessa struttura temporale nella quale si intrecciano
antefatto e indagine poliziesca, il film mette a fuoco la figura della “ragazza
con la valigia”: senza l’intenzione di assolverla, ma mostrando il clima di
ipocrisia e meschinità maschile nel quale maturò l’insano gesto.
Anche il giornalista tv Gianni Minoli, in una sua trasmissione, ospitò Rita. “Proprio la confessione é stato
il momento più intenso della trasmissione: il racconto di una psiche macabra e
scivolosa, i torti morali patiti, il confronto
(efficace anche visivamente) con un’intervista di sei anni prima, la storia
di un’ ossessione senza movente”.
La sua drammatica odissea, di donna del sud, è anche narrata nel libro della collega Luciana Mauro, della redazione de “Il
Mattino” di Salerno, “Passione
Assassina”. Infine anche “Storie Maledette” di Rai Tre, condotta di Franca Leosini, ha
intervistato – nel carcere di Pozzuoli -
la bella studentessa casertana.
Ma… come in quasi tutti i delitti efferati
o che non hanno un chiaro movente, i
difensori tentano sempre la “carta” della seminfermità mentale, per scongiurare una pesante pena come
l’ergastolo, pena prevista appunto per l’omicidio aggravato, come quello
contestato alla studentessa casertana. E Rita aveva un ottimo avvocato: Vincenzo Siniscalchi, deputato, scrittore, regista cinematografico
e componente, per anni, della commissione giustizia. Ma la perizia risultò negativa.
“Non è pazza l’omicida della valigia -
scrissero i periti - ma l’uomo pretendeva “giochi sessuali contro natura” e la
“teneva a noleggio a 500 mila lire al mese”. La ragazza prima, durante e dopo
il macabro delitto di “piazzetta dei Mulini”, sarebbe stata pienamente capace
d’intendere e di volere. E’ questo il risultato della perizia psichiatrica
effettuata nel carcere di Fuorni, una frazione della cintura di Salerno, dove
Rita Squeglia è stata rinchiusa dai primi giorni di settembre. Una équipe di
quattro esperti: Marcello Ferrari,
nominato dal tribunale, Sergio Pirru,
Bruno Giuliani e Luisa Perrone,
di parte, hanno iniziato i colloqui con la giovane donna, rea confessa.
Durante la lunga serie di incontri gli
psicologi hanno sondato e valutato la personalità della Squeglia definita: “di
natura psicopatica fredda, scarsamente portata alla partecipazione emotiva,
pienamente responsabile delle azioni compiute, propensa, però, agli studi umanistici,
di intelligenza sviluppata e di livello socioculturale medio”. La giovane
assassina di Recale, ha confessato di aver strangolato l’amante, per liberarsi
dalle ossessionanti pretese amorose dell’uomo. Secondo le tre diverse
deposizioni di Rita Squeglia, rese davanti ai magistrati di Santa Maria Capua
Vetere e della Procura di Salerno, la
donna avrebbe concepito l’omicidio proprio nel momento in cui l’amante avrebbe
tentato di costringerla a cedere a giochi amorosi particolari, definiti nella
perizia “contro natura”.
“Nella famosa ultima sera - scrivono gli psichiatri - ad un rifiuto opposto dalla
Squeglia, Acconcia avrebbe chiaramente rinfacciato alla donna di essere stata violentata cinque anni prima e che uno
dei violentatori l’aveva posseduta sodomizzandola, mentre gli altri due la immobilizzavano; a
questo punto la Squeglia avrebbe riportato la sensazione che Acconcia potesse
essere venuto a conoscenza, per via illecita, dei particolari dell’episodio o
addirittura che l’uomo avesse potuto partecipare alla violenza avendo fatto
parte del “branco”!
“Verso le 1,30 dopo la mezzanotte del 31
luglio – è detto nella lunga perizia di oltre 200 pagine - al ritorno da una
cena in un ristorante di Positano, dove la coppia clandestina aveva deciso di
trascorrere le vacanze, sarebbe iniziata l’agonia dell'imprenditore casertano.
Stordito da una forte dose di narcotico (l’EN),
in stato confusionale, Acconcia avrebbe continuato a descrivere particolari
inquietanti della violenza carnale subita dalla giovane donna”.
La Squeglia, approfittando dello stato
dell’uomo, gli avrebbe stretto il collo con un foulard fino a soffocarlo, poi
gli avrebbe infilato la testa in una busta di cellophane. Per oltre un’ora la
giovane avrebbe pensato come liberarsi del cadavere, poi decise di chiuderlo in
una valigia rigida e di farla scomparire all’interno di un silos a Recale,
ricoprendola con una colata di cemento.
Per trasportare il cadavere la Squeglia
impiegò oltre tre ore. La vita della giovane donna, passata al setaccio dal
pool di periti, è costellata di traumi: a nove anni perde il padre, ma continua
gli studi fino ad arrivare a diplomarsi all’Istituto magistrale. A 17 anni si
unisce sentimentalmente ad un ragazzo della sua età. Stanno insieme per tre
anni, fino a quando, una sera del 1981, sei anni prima del delitto, tre
individui incappucciati rapinarono la coppietta, legarono ad un albero il
ragazzo e violentarono ripetutamente la
giovane. Dopo questo drammatico avvenimento,
il fidanzato, pare che si chiamasse Francesco
Calenda, abbandonò Rita al suo destino…
che si è poi rivelato assai beffardo.
“Da tale episodio - secondo gli psicologi
- la donna riportò un grave trauma psichico ed un senso di astio verso la
figura maschile. Successivamente i rapporti con l’altro sesso si sarebbero
alquanto deteriorati non riuscendo più a legarsi sentimentalmente ad alcuno. A
proposito del rapporto con Acconcia - continua la perizia – l’imputata
riferisce che il partner richiedeva prestazioni sempre più complesse e viene
descritto come persona rozza, violenta, di scarsissima istruzione, incapace di
esprimersi in italiano. Rita Squeglia, la lucida assassina di Positano, avrebbe
eliminato “l’uomo, amante, padrone” -
secondo gli esperti - in uno stato di psicopatia “passionale”, in cui la
“vertigine del proibito, della morte dell'altro, del molesto, dell'indegno,
abbozza l'immagine vaga ed attraente dell’atto più grave: l’atto mortale”.
Giudicata per omicidio dalla Corte di
Assise di Salerno fu condannata a 22 anni e 6 mesi – In appello la pena fu
ridotta a 18 anni – La difesa fu affidata, come detto, all’On. Avv. Vincenzo Siniscalchi, mentre la famiglia di Acconcia fu
rappresentata dagli avvocati Alberto Martucci ( Junior ) e Alfonso
Martucci.
E intanto,
tranquilla, collaborava con la polizia per risolvere il giallo della misteriosa
scomparsa dell' uomo… Fu violentata dal branco a Caserta Vecchia. Il suo
fidanzato fu legato ad un albero.
Diversa la confessione del delitto fatta alla direttrice del carcere: “Sono stata
arrestata ieri”- disse - sapevo che
sarebbe successo, per mesi i carabinieri hanno indagato su di me, la mia vita è stata
rivoltata come un calzino, cercavano. . . cercavano, ostinatamente. Ma la mia
esistenza, si sa, è come un quadro astratto, macchie, profili distorti, zone d’ombra. Dicono che
ognuno è artefice della propria fortuna,
ma non mi sembra di aver fatto molto per costruire la mia sorte in questo modo assurdo; è
accaduto tutto da solo senza la mia volontà e mi sono ritrovata su questo
cammino impervio senza che me ne rendessi conto”.
“ Con il mio fidanzato la sera andavamo
spesso al cinema o in qualche luogo appartato dove potevamo stare insieme da
soli senza essere disturbati da nessuno.
C’era un posto tranquillo e romantico dove ci recavamo qualche volta, la verde
collina di Casertavecchia, piena di pioppi e di querce che dominava una
valle cosparsa di casolari, orti e vigneti. La strada per arrivarci era irta e
tortuosa, ma sulla cima l’atmosfera era serena e il silenzio era interrotto solo dal cinguettio degli
uccelli. Mi piaceva osservare da lassù il sole che tramontava dietro la linea
dell’orizzonte. Quel giorno di giugno
eravamo giunti lì verso l’imbrunire, l’aria intorno era tiepida e calma, noi
seduti sull’erba conversavamo tranquillamente. A un tratto tre individui
mascherati sbucarono dal nulla, avevano
il volto coperto da un passamontagna che lasciavano intravedere solo gli occhi.
Sembravano dei banditi, credevo che fossero venuti per rapinarci, invece erano
venuti per altro”.
“Erano spaventosi, scuri, infide ombre
striscianti. Non dimenticherò mai lo sguardo di uno di loro, uno sguardo feroce
e spietato come quello di una bestia
selvatica. Aveva il passamontagna viola che metteva ancor più in risalto i suoi
occhi piccoli e minacciosi. Legarono il
mio fidanzato a un albero e mi violentarono ripetutamente tutti e tre, davanti a lui, per ore. Nessuno
poteva aiutarci, nessuno udiva le nostre
urla, i miei lamenti di dolore, le sue imprecazioni. Un terribile incubo che non finiva mai. Scapparono via dopo due ore, quando si sentì
chiaramente il rumore di un’auto che si avvicinava. I fari della macchina mi abbagliarono
un fascio di luce bianca puntato sul mio viso fu la mia liberazione”.
“Ero in stato di shock, coperta di lividi,
ferite, escoriazioni e spor c di sangue, sudore e melma Fui ricoverata in
ospedale e vi rimasi per quattro giorni, mi curarono i mali del corpo ma non
quelli dell’anima. Quando uscii mi resi
conto che ero rimasta completamente sola, non avevo più amici, tutti mi scansavano come un’appestata, e non
avevo più nessuno”.
“ Fu allora che conobbi Nicola, che si attaccò a me come una ventosa, mi teneva
legata con minacce, ricatti e regali costosi, non si rendeva conto che in
questo modo non faceva che alimentare la mia avversione. Forse ero io che ormai
non potevo più amare nessuno, ero diventata arida, avara di sentimenti. Certo è
che il ricordo di quella sera non si è mai cancellato dalla mia mente, non c’è
stato giorno che il mio viso non si sia bagnato di lacrime nel ricordare
quell’orribile scena e nel rammentare quegli occhi crudeli e perversi che mi
fissavano con avidità. Chi può dire cosa può provocare nell’animo di una
ragazza di diciotto anni un trauma del genere”?
“Per l’estate Nicola aveva preso in affitto un piccolo appartamento
a Sorrento in un quartiere periferico, faceva parte di un complesso di case
ristrutturate da poco, un bel parco, leggermente fuori mano, pieno di aiuole
fonte. La zona era discreta e silenziosa, solo raramente si incontrava qualcuno
per le scale e nel vialetto di accesso. L’appartamentino
era tutto dipinto di bianco, con spazi molto limitati e un arredo ridotto
all’essenziale. Un tipico alloggio di villeggiatura che aveva preso per stare
esclusivamente da solo con me”.
“Ci andavamo spesso nei giorni in cui lui era libero. Trascorrevamo le mattinate al mare
a fare lunghi bagni in acqua e poi a crogiolarci al sole. La sera era
divertente passeggiare tra le lussuose vetrine del centro o cenare in uno dei
tanti locali caratteristici e raffinati. Sorrento è stupenda, così diversa da
quel paese retrogrado in cui sono costretta a vivere, un paese di gente
pettegola, intnigante, sempre pronta a giudicare e a censurare. A un certo
punto anche le gite a Sorrento divennero insopportabili, lui mi assillava con
la sua gelosia e la mia insofferenza crebbe a dismisura”.
“Poi il delitto e le indagini presso la
società sulle modalità di pagamento dei
pedaggi e forse anche lì trovarono qualcosa. Poi una mattina si presentarono da
me. Erano quattro poliziotti e mi
mostrarono il mandato di perquisizione. Mia madre rimase impietrita, il suo
viso era una maschera amara. Seduta in
un angolo osservava attonita quella gente che frugava e rovistava dappertutto
senza proferire una parola. La casa fu
messa letteralmente a soqquadro, la mia stanza e la camera di mia madre furono
esaminate minuziosamente”.
“Quella violazione degli effetti
personali, quell’esplorare e scrutare tra le cose di casa mi fece sentire
terribilmente a disagio e mi ferì profondamente. Vedevo la biancheria di mia
madre, le fotografie di famiglia, le lettere e i documenti rivoltati e rigirati
senza riguardo, come rifiuti Loro erano agitati e sospettosi, fiutavano
nell’aria come mastini alla ricerca di un segnale o di un indizio Sembrava che
andassero a tentoni, guardavano negli armadi, nelle credenze, nei cassetti,
nelle tasche degli abiti, nelle borse, ma cosa cercassero con precisione non si
capiva e forse non lo sapevano neppure loro”.
Dalla sua vicenda è stato tratto il film “Senza
Movente”, riportata in alcuni libri e approdata a “Storie Maledette”, di Rai Tre. Anche il giornalista tv Gianni
Minoli, in una sua trasmissione, ospitò Rita. “Proprio la confessione é stato
il momento più intenso della trasmissione”.
“Stavano
andando via contrariati e insoddisfatti quando, passando per il cortile, videro
il vecchio pozzo ormai in disuso e completamente prosciugato. È molto antico, in pietra viva, un cimelio
storico. Gli si avvicinarono con
circospezione, quasi timorosi, sollevarono il coperchio e osservarono
all’interno il muschio verde e la muffa maleodorante che coprivano le pareti e
la melma densa e putrida depositata sul fondo. Un’impercettibile ombra a rilievo destò i loro
sospetti, si munirono di corde, scale, carrucole e qualcuno di loro scese in
profondità. Dovettero faticare non poco
per tirar fuori la valigia. Era una
grossa valigia di pelle marrone, gonfia, pesante e ben chiusa. Quando la
riportarono in superficie rimasero tutti silenziosi e stupiti L’aprirono con
apprensione, temevano il peggio e infatti all’interno trovarono il corpo
raggomitolato e raggrinzito di Nicola, ormai in avanzato stato di decomposizione.
Avvertii immediatamente gli sguardi allibiti di tutti posarsi su dime. Io non lo volevo uccidere, è accaduto tutto
all’improvviso senza che me ne rendessi conto”.
“Quel giorno litigammo. Il motivo, tutto sommato, è irri1evante. Voleva stare con me, ma io non ne avevo
voglia. Eravamo arrivati da poco, ci trovavamo in camera da letto. Egli fremeva
di rabbia, mi colpì con due schiaffi, io mi ritrassi istintivamente e lo fissai
negli occhi. Fu allora che vidi lo stesso sguardo cupo e avido di quella notte.
Quegli occhi piccoli e malvagi che il passamontagna viola lasciava intravedere.
Com’era possibile? Una ridda di sospetti si agitavano nel mio animo. Era lui
quell’uomo? Forse era una suggestione? Possibile che non mi fossi mai accorta
di niente? Era questo il motivo per cui il suo sguardo era sempre sfuggente?
Esaminai il suo fisico, anche l’altro era piccolo e magro, poteva essere, ma
forse era un’allucinazione. La mia espressione sconcertata lo disorientò, mi
osservò interdetto, io rimasi qualche attimo immobile poi con uno scatto mi
avvicinai al comodino dove era poggiata la pistola che lui aveva sempre a
portata di mano, l’afferrai con mossa fulminea, tolsi la sicura e gliela puntai
contro. Una lieve apprensione gli si dipinse sul volto “Che cosa vuoi ? Mi vuoi
sparare? con un sorriso conciliante, mi
vuoi spaventare? No, risposi, “ti voglio ammazzare”.
“Due colpi bastarono, due tremende
deflagrazioni che rimbombarono per tutta la casa. Restai impietrita, con il braccio ancora teso,
mentre lo osservavo precipitare al suolo. Mi sedetti sul letto, con la pistola in mano,
a contemplare sbigottita quel corpo immobile, ripiegato, contratto nell’ultimo
spasmo, steso per terra a pochi passi da me. L’espressione stupita ancora
stampata sul viso esangue. Una
pallottola doveva averlo colpito direttamente al cuore, l’altra più giù, forse
alla milza. La camicia chiara era ormai completamente imbrattata di rosso ed un
rivolo di sangue scorreva veloce tingendo il pavimento. Posai cautamente la pistola e, quindi,
aspettai. Sicuramente sarebbero accorse molte persone che avevano udito gli
spari. Il rumore era rimbombato nel silenzio di quel quartiere creando un’eco
assordante, sembrava impossibile che non l’avessero sentito”.
“Rimasi in attesa degli eventi, da un
momento all’altro qualcuno avrebbe bussato alla porta, forse la Polizia
chiamata dai vicini. Pensai al motivo che aveva determinato tutto questo. Cosa
avrei detto per scagionarmi? Ho avuto il sospetto che fosse uno di quelli che
mi hanno violentato. . . anni fa. Come movente non reggeva proprio. Avrei
potuto dire che voleva uccidermi e io ero riuscita a impossessarmi della
pistola prima di lui, ma neanche questo stava in piedi, difficile dimostrano.
Forse era meglio dire che mi maltrattava e mi picchiava, ma era poco credibile,
non avevo lividi né segni di percosse e poi non era una giustificazione
adeguata.
Mentre
la mia mente elaborava, il tempo passava e non accadeva nulla”.
“Rimasi stupita per la freddezza con cui
stavo affrontando quell’assurda situazione. Mi sembrava di recitare in un film
drammatico, forse entro poco tutto sarebbe finito, avrebbero spento le luci e
avrebbero annunciato “Stop, la scena è terminata”. Invece mi trovavo lì,
immersa in un incubo tragico, in attesa di qualcuno o di qualcosa che non
giungeva. Non accorse nessuno, nessuno si interessò, nessuno chiese, nessuno
aveva sentito. Quando scese la notte decisi di andar via Misi la pistola nella
tasca del pantalone di Nicola, gli tolsi le scarpe e piegai il cadavere con
cura cercando di farlo entrare nella valigia, era una valigia piuttosto
capiente, resistente e maneggevole Poi, senza molte difficoltà, chiusi la
cerniera. Il portafogli era rimasto fuori, ma non mi parve una cosa grave,
l’avrei distrutto qualche giorno dopo. Pulii bene tutta la casa e le macchie di
sangue sparirono. Trascinai la valigia fino alla macchina che si trovava a
pochi passi dall’ingresso della casa, la depositai nel bagagliaio, misi in moto
e mi avviai verso il paese. Era notte fonda e la zona era deserta. Stranamente
non avvertivo stanchezza né stress e malgrado l’orribile avventura mi sentivo
determinata e piena di energia”.
Egli fremeva di
rabbia, mi colpì con due schiaffi, io mi ritrassi istintivamente e lo fissai
negli occhi. Fu allora che vidi lo stesso sguardo cupo e avido di quella notte.
Quegli occhi piccoli e malvagi che il passamontagna viola lasciava intravedere.
“Al casello Caserta sud dell’autostrada,
per non farmi vedere dall’addetto alla riscossione, pagai con la viacard che
avevo trovato nel portafogli di Nicola. Quando giunsi a casa entrai con l’auto
nel cortile e gettai la valigia nel pozzo, poi portai la macchina in un sentiero di campagna e
tornai a casa a piedi. Mancavano pochi minuti alle quattro. Mi sentivo
abbastanza tranquilla, nessuno mi aveva visto, ma la viacard mi ha tradito. Dal
controllo effettuato i carabinieri hanno rilevato che il 21 agosto la viacard
veniva utilizzata al casello di Castellammare di Stabia, hanno dedotto quindi
che, quel giorno, Nicola si era recato a
Sorrento e l’indomani mattina, 22 agosto, giorno della sparizione, alle ore
2.40, la sua auto era uscita dall’autostrada al casello di Caserta sud. Poche
ore dopo, alle 5.47, era stata trovata abbandonata in un viottolo di campagna”.
“Gli investigatori sono giunti alla
conclusione che se il giorno in cui è sparito lui si trovava a Sorrento
sicuramente vi era andato per stare con me nel nostro appartamento. Io invece
avevo dichiarato che quel giorno non l’avevo visto affatto. Quella menzogna mi
ha smascherata. Ora non riesco a immaginare cosa accadrà. Gli inquirenti
cercano un complice, dicono che non posso aver fatto tutto da sola, sospettano
di mia madre e addirittura dell’ex mio fidanzato. La preoccupazione mi tormenta,
ma ancor di più mi tormenta il dubbio: era davvero lui uno dei tre di quella
notte sulla collina? Forse quel fantasma mi perseguiterà per tutta la vita
nascondendosi dietro lo sguardo di tutti gli uomini che incontrerò”.
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