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venerdì 8 novembre 2024

BOIA CHI MOLLA!!! 



QUINTA PAGINA
«Ho sentito dire che il boia è molto bravo,
e il mio collo è sottile»
Anna Bolena, 19 maggio 1536
Decapitazione
Il Foglio dei Fogli, lunedì 25 agosto 2014
Coscienza L’uomo con la testa tagliata vive ancora uno o due minuti, nonostante perda in pochi secondi la coscienza del mondo esterno [Wave of death signals time of death, ricerca della Nijmegen University].

Occhi Lunga disputa in ambito accademico sul comportamento delle teste mozzate, col dubbio che esse siano ancora capaci di assistere alla propria fine [Lorenzo Mondo, Sta 2009]. Di qui le espressioni dei decapitati, occhi ruotati oppure sguardo beffardo o anche pieno di orrore [Gabriele Romagnoli, Rep 2006].

Gemito In uno studio pubblicato nel gennaio 2011, i ricercatori della Radboud University Nijmegen, guidati da Anton Coenen, hanno rilevato un lampo di segnali elettrici che si verifica circa un minuto dopo la decapitazione (di ratti, in questo caso). Per il team questo segnale elettrico rappresenterebbe il gemito finale del cervello [Focus 2011].

Dolore Finché tutto l’ossigeno presente nel sangue del cervello non viene consumato si rimane consci. Il dolore dovrebbe essere minimo: i nervi che si trovano accanto alle vertebre vengono recisi impedendo che il segnale del dolore arrivi al cervello [Focus, cit.].

Uccidere Decapitare, «dal latino medievale decapitare, der. di caput-pitis – Uccidere tagliando la testa, soprattutto in seguito a condanna» [Treccani].

Faraoni I primi a praticare la decapitazione in modo sistematico sono stati gli egizi, nel periodo del Faraoni (dal IV millennio al IV secolo a. C.). Nella Roma imperiale la decapitazione era la pena di morte riservata a chi possedeva la cittadinanza, essendo ritenuta rapida e non infamante (per schiavi e ladroni si applicava la crocifissione) [L’Indipendente 2004].

Spada Il taglio della testa, eseguito dal boia tramite una spada, detta spada da esecuzione, ha molte varianti: nel Regno Unito era usata una scure, in Francia, dal 1792 al 1977, la ghigliottina che successivamente si diffuse in molti stati [L’Indipendente 2004].

Ostaggi Al giorno d’oggi solo l’Arabia Saudita conserva la decapitazione come metodo ufficiale di esecuzione, anche se secondo organizzazioni non governative è praticata da dittature africane e asiatiche. È poi usata spesso dai terroristi sugli ostaggi [Renzo Guolo, Il fondamentalismo islamico, Laterza 2002].

Rinascimento La spada da esecuzione si diffuse in Europa durante il Rinascimento e cadde in disuso dal volgere del XVIII secolo, con l’introduzione della ghigliottina. Ultimo europeo giustiziato con una spada: lo svizzero Héli Freymond, decapitato a Moudon il 10 gennaio 1868 per omicidio [Philipp Abbott, Armi: storia, tecnologia, evoluzione dalla preistoria a oggi, Mondadori 2007].

Lama In Europa, la spada da esecuzione, sviluppata dal modello della spada a due mani del Tardo Medioevo, ha lama diritta, priva di punta. In Asia e in Africa, invece, la lama è ricurva. Nelle culture del continente africano, la spada da esecuzione è simbolo di potere del sovrano [Abbott, cit.].

Boia Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, il boia più famoso. Eseguì 516 condanne, tutte poi descritte nelle sue Annotazioni. Nel 1864, a 85 anni, fu messo a riposo da Pio IX con una pensione di 30 scudi. Prima di ogni esecuzione si confessava e faceva la comunione. Lauretta Colonnelli: «Usava la ghigliottina e il cappio per l’impiccagione, ma era specializzato anche nella mazzolatura col maglio e nello squartamento. Aveva un mestiere di copertura: verniciatore di ombrelli in via del Campanile 4, una traversa di via della Conciliazione» [Lauretta Colonnelli, Conosci Roma?, Clichy 2013].

Ghigliottina La ghigliottina fu adottata ufficialmente come forma di esecuzione in Francia il 20 marzo del 1792 e il suo uso venne abrogato da Mitterrand nel 1981, insieme alla cancellazione della pena di morte [Monica Ricci, Cds 2008].

Louisette Joseph Guillotin nacque a Saintes, paese di 20.000 anime, nel 1738. Medico e letterato, lo ricordano tutti per aver dato il nome all’attrezzo che decapita meglio di qualsiasi altro. Ma non l’aveva inventata lui, il vero ideatore si chiamava Antoine Louis che tanto avrebbe voluto chiamarla Louisette [Ricci, cit.].

Guillotin Invece prese piede il nome da Guillotin, che nel 1789, durante un dibattito sulla pena di morte, propose che tutti i crimini fossero puniti allo stesso modo, senza distinzioni di classe e «senza ulteriori offese». Allora i nobili condannati a morte venivano decapitati con un’ascia, e spesso male, cioè necessitando di più colpi. Il popolo, invece, veniva impiccato. Metodo anch’esso rischioso: spesso l’osso del collo non si spezza e allora la vittima attacca a scalciare emettendo versi osceni per un paio di minuti [Antonio Castronovo, La vedova allegra,
 Nuovi Equilibri 2009].






Aria «La lama cade, la testa è tagliata in un batter d’occhio, l’uomo non è più. Appena percepisce un rapido soffio d’aria fresca sulla nuca» (Joseph Guillotin) [Castronovo, cit.].

Vedova «La “vedova” (uno dei tanti appellativi dovuto al fatto che si ergeva isolata sul patibolo, «altera come una donna sola») avrebbe provocato, in un crescendo di odio parossistico, una cifra oscillante tra i 15 e i 25 mila morti» [Lorenzo Mondo, cit.].

Patibolo Prima vittima, il ladro Nicholas Pellettier, il 25 aprile 1792; ultima l’omicida tunisino Hamida Djandoubi, il 10 settembre 1977. Erano le 4 e 40 della mattina. Salì i gradini del patibolo nel cortile di un carcere senza pubblico. Lo fece a fatica perché già gli mancava una gamba [Romagnoli, cit.].

Luigi XVI A convincersi che la ghigliottina fosse il metodo ideale fu re Luigi XVI. «Esperto bricoleur, volle apportare una modifica: invece della poco affidabile lama a mezzaluna, ne suggerì una obliqua. «Complimenti», gli dissero dopo averla provata. La prima vendetta della ghigliottina fu che si abbatté anche sul suo collo. La seconda fu che, dopo aver funzionato perfettamente per anni, nel suo caso combinò un pasticcio, non riuscendo a segarlo del tutto, lasciandolo a morire dissanguato tra urla atroci e un accresciuto giubilo popolare. Si dice che il boia di Parigi, il leggendario Henri Sanson, pur avendo già eseguito migliaia di tagli perfetti, davanti alla testa coronata si emozionò e fece del suo peggio» [Romagnoli, cit.].

Souvenir Dopo che la testa di Luigi XVI fu mozzata dalla ghigliottina, molti cittadini presenti all’esecuzione vollero intingere il loro fazzoletto nel sangue del monarca di Francia per conservare un souvenir di quella storica giornata [Franco Giubilei, Sta 2010].

Segnalibro Il caso del condannato al patibolo descritto da Djuna Barnes in Nightwood (1936) che «leggendo un libro quando il carnefice lo toccò sulla spalla per dirgli che era ora e lui, alzandosi, mise tra le pagine un tagliacarte per tenere il segno e chiuse il libro» [Sergio Sergi, Silvana Bonetti Sergi, Temperamento e stili emotivi nel Rorschach, Armando 2012].

Pardon «La storia della ghigliottina è stata tragica e, inevitabilmente, ridicola. Il vertice dell’assurdo è nel presunto dialogo tra il boia Henri Sanson e la sua regale vittima Maria Antonietta. Lei, emozionata, gli pesta un piede e, in un riflesso condizionato di nobiltà, gli dice: “Pardon!”» [Romagnoli, cit.].

Dracula Anche l’Inghilterra ebbe un re decapitato, Carlo I, la cui esecuzione, compiuta nel 1649 per mezzo della scure custodita dal boia nella Tower of London, si deve al puritano Oliver Cromwell. Grande impalatore di nemici, anche Dracula, il sanguinario principe di Valacchia, fu decapitato, dai turchi, in battaglia, perché si rifiutava di pagare i tributi. La testa fu portata al sultano come trofeo della vittoria [L’Indipendente 2004].

Calcio I narcos messicani, soliti abbandonare per strada in bella vista le teste mozzate, i corpi decapitati o fatti a pezzi dei loro nemici. «Quando uccidono gli Zetas, il cartello messicano più potente, sono sadici: picchiano con bastoni o pagaie che hanno la lettera Z a rilievo, in modo da lasciare la loro firma sui cadaveri; decapitano le vittime con la sega elettrica per poi esibire la loro testa e diffondere il terrore. A volte i genitali delle vittime vengono tagliati e infilati in bocca, i cadaveri senza testa vengono appesi ai ponti e addirittura una volta la faccia di un uomo fu staccata e cucita sopra un pallone da calcio» [Roberto Saviano, Rep 2013].



Rete «Il boia jihadista invece lavora di macelleria antica (coltello che sega, non colpo di scure o lama compassionevole di ghigliottina) e corre a completare la propria voluttà mettendo il film in rete» [Adriano Sofri, Rep 2014].

martedì 5 novembre 2024

 


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martedì 29 ottobre 2024

 


«Non dipingo paesaggi per fare paesaggi.
Li dipingo soprattutto per il piacere di dipingere»
Tullio Pericoli






di Filippo Maria Battaglia La Stampa

Per mezzo secolo il tratto della sua matita ha accompagnato la quotidianità dei lettori. Gli sono state dedicate mostre e retrospettive, a giugno l’Accademia dei Lincei lo ha insignito del Premio Internazionale Feltrinelli per le Arti, ma se gli si chiede del suo primo disegno, Tullio Pericoli non lo ricorda. «Ricordo però il primo ritratto: a mio zio, un anarchico socialista – racconta alla Stampa nel suo studio pieno di libri, colori e cavalletti – Durante il fascismo piombava all’improvviso a casa nostra per fuggire o nascondersi. Fu lui a trasmettermi l’idea che si potesse vivere non per una carriera, ma per una passione».
La prima immagine dell’infanzia?
«Il paesaggio del mio paese, Colli del Tronto. Le mani nella terra, la polvere in bocca. E poi le grandi distese collinari, che ho sempre immaginato come luoghi su cui incidere qualcosa di me stesso».
Era un bravo studente?
«Fino alla terza media, poi cominciai a zoppicare, tranne che nel disegno. Al liceo preparai un orario di classe coi ritratti degli insegnanti. Il preside si complimentò ma spiegò che non si poteva tenere: “La scuola – disse – non solo deve essere, ma deve anche apparire seria”».
Dopo la maturità scelse Giurisprudenza, a Urbino.
«In realtà, scelse mio padre: non poteva mantenermi agli studi e Legge era l’unica facoltà che permetteva di dare gli esami senza dover frequentare».
A pochi mesi dalla tesi conobbe Cesare Zavattini.
«Enrico Marussig, figlio del pittore Piero, che lavorava all’Espresso, mi consigliò di scrivergli: “Ma mi raccomando – aggiunse – gli mandi anche un disegno sei per sei, colleziona solo quelli”. Così feci».
E lui?
«Rispose subito. Mi incontrò a Roma con affetto, come un vecchio zio. Guardò i disegni, poi esclamò: “Sei bravo, è quello che devi fare. Smetti di studiare, ma non venire qui. La tua città è Milano”».
Lo ascoltò.
«Partii in treno il primo maggio 1961. Arrivai la mattina del giorno dopo in una città gialla, con un cielo dal colore indefinito che faticava a distinguersi dagli edifici. Appena scesi la scalinata della stazione, mi venne incontro uno sconosciuto dai modi molto cortesi. Pensai: “I milanesi sono davvero gentili”. Solo dopo capii che tentava di procacciare stanze a chi arrivava con la valigia in mano».
Il primo incontro a Milano?
«Con Gian Carlo Fusco, una delle firme del Giorno, a cui diedi una lettera di Zavattini. Per un mese passammo le sere insieme, prima a cena alla trattoria Bagutta, poi al night Sir Anthony, oltre la ferrovia di Lambrate: il nido di Fusco, pieno di entraîneuse e malavitosi».
Si divertiva?
«Ero imbarazzatissimo, ma dovevo sfamarmi: così, mentre Fusco raccontava storie, mangiavo i biscottini offerti da queste signore un po’ discinte. Una notte, poco prima dell’una, Gian Carlo mi portò al Giorno. Cominciai a collaborare illustrando proprio le sue storie di Marsiglia».






E il sogno di diventare pittore?
«Continuava a essere un tarlo. Feci la prima mostra in una galleria, La Muffola, che apriva dopo cena. C’era anche un pianoforte, venivano a suonare e cantare Enzo Jannacci, Cochi e Renato».
Nel ’74 entrò in una delle gallerie più rinomate, quella di Giorgio Marconi.
«Mi chiese in esclusiva i miei lavori, spiegandomi che sarei stato libero di vendere anche ad altri a patto che gli dessi una percentuale. Quando accadde, prese il mio assegno ma mi avvertì: “Ricordati che vali solo se lo decidiamo in tre: io, un critico d’arte e un direttore di museo”».
Coi quotidiani era diverso?
«Lì avevo sempre un riscontro diretto e immediato con lettori e committenti. Per questo decisi che avrei fatto il pittore sui giornali».
Negli anni Settanta andò prima al Corriere, poi a Repubblica. Bocca lo conobbe in quegli anni?
«No, dieci anni prima, al Giorno. Nella vetrina di una libreria vidi il suo Miracolo all’italiana con un mio disegno in copertina. Non ne sapevo nulla, così gliene chiesi conto. Mi disse: “E non sei contento? Fino a poco tempo fa eri nelle Marche, adesso sei su un libro”».
Non un ottimo inizio.
«Ci restai male, ma capii che in fondo aveva ragione. Nacque una lunga amicizia, in cui ha contato anche la nostra origine provinciale, sorretta da uno spirito ingenuo ma al contempo intransigente».
È vero che cucinava bene?
«Ricordo ancora il suo risotto con le rane. Memorabile. Quando stava in via Bagutta, si serviva solo dei commercianti che conosceva: fruttivendoli, salumieri, pescivendoli».
A casa di Bocca conobbe Roberto Calasso.
«Era un conversatore affascinante: sempre un po’ chiuso, con un’ironia che sfiorava il sarcasmo».
Nessuna soggezione?
«Iniziai ad avvertirla solo anni dopo, quando diventai un suo autore in Adelphi. Continuammo a frequentarci, ma dietro il tavolo da editore aveva un atteggiamento austero con cui esercitava il suo potere intellettuale».
Fu sempre da Bocca che Garzanti le chiese una pittura murale per raccontare la storia della sua casa editrice?
«No, da Giorgio Livio vide un mio ritratto di Beckett. Il giorno dopo mi telefonò. Ci accordammo. Feci dei bozzetti, li rifiutò, ma non mi arresi: “Aspetti e giudichi alla fine”. E, alla fine, fu soddisfatto».
A quelle cene c’era anche Gae Aulenti.
«Un talento visivo straordinario. C’era anche lei durante i capodanni trascorsi nella casa di Umberto Eco a Monte Cerignone, dove una sera mettemmo in scena l’Amleto. Io mi occupavo delle scenografie, Gae pensava alle luci, industriandosi con delle lampadinette».
Ed Eco?
«Era l’anima di quelle sceneggiate».
Gli ha fatto tanti ritratti da farci una mostra. Che amicizia è stata?
«Era chiuso in una specie di roccia, non parlava mai di sentimenti. Un giorno provai a stanarlo: “Ma tu, quando scrivi, a chi ti rivolgi?”. Mi rispose che non aveva interlocutori, sentiva di parlare a qualcuno che sarebbe arrivato».
A proposito di ritratti: ne ha fatti migliaia. Qualcuno si è offeso?
«Rita Levi Montalcini. Dopo il Nobel, la ritrassi sulla copertina de L’Indice, con un grande fiocco sulla testa a forma di Dna. Protestò con una lettera durissima. Non era molto spiritosa».
Per molti anni ha disegnato anche per il New Yorker.
«Una volta mi chiesero il ritratto di un autore afroamericano: per esigenze stilistiche, la parte bassa del disegno era bianca. Mi dissero che non potevano accettarlo. Alla fine dovetti colorargli le mani».
Vive a Milano da più di sessant’anni: com’è cambiata?
«Era una città accogliente ed esigente. Ormai la scruto solo dalle finestre del mio studio, come fosse un acquario, ma da ciò che intuisco cerca meno il talento».
Cosa fa quando non dipinge?
«Leggo, per il resto poco altro. A 88 anni ho la fortuna di alzarmi dal letto con la stessa voglia di uscirne per venire in studio a dipingere».
Filippo Maria Battaglia