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venerdì 29 agosto 2025

 

La tragedia (sepolta) di Mattmark

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Pochi ricordano (tantomeno i libri di scuola dei nostri figli) l’ultima tragedia dell’emigrazione italiana, quella avvenuta a Mattmark, nel Vallese svizzero, il 30 agosto 1965. Per fortuna ci sono gli anniversari tondi che ci permettono di riattivare la memoria. E per fortuna viene riproposto un libro di Toni Ricciardi, storico delle migrazioni e ora deputato democratico, che in Morire a Mattmark ricostruisce la vicenda per l’editore Donzelli (editore benemerito, ipersensibile alla nostra storia sociale). Dunque, alle 17.15 di quel giorno, in pochi secondi, una valanga di oltre 2 milioni di metri cubi di ghiaccio si rovesciò sulle baracche di un cantiere per la costruzione di una imponente diga alpina: sotto la frana rimasero sepolti 88 operai: 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci a e un apolide. Un sopravvissuto disse di aver visto volare per aria autocarri e bulldozer.

La Svizzera era nel pieno della crescita economica grazie ai lavoratori che provenivano dalle province italiane. Si disse che le baracche erano situate esattamente sulla traiettoria di caduta del ghiacciaio sospeso. Ma nemmeno questa fu una ragione per condannare i 17 dirigenti accusati di omicidio colposo. Tutti assolti, come i responsabili e gli ingegneri della catastrofe di Marcinelle avvenuta nel 1956. quando vengono ricordate le tragedie dell’emigrazione italiana, si formano immediatamente due schieramenti: quelli che rifiutano ogni paragone con le migrazioni attuali verso l’Italia (la motivazione, falsa, è che si trattava solo di ingaggi regolari, dimenticando peraltro che lo schiavismo sistematico di oggi è un’aggravante); quelli che vorrebbero recuperare la memoria per comprendere il presente dei cosiddetti «altri». Nel 1956 come nel 1965, l’essere morti insieme (belgi e italiani, svizzeri e italiani) attenuò molto il razzismo. Si spera che per far crescere la comprensione per gli «altri» non si debba attendere che succeda anche oggi.

lunedì 25 agosto 2025

 

Liliana Resinovich, il giallo sembra lontano dalla risoluzione

Liliana Resinovich, il giallo sembra lontano dalla risoluzione
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Dopo l’autopsia sul cadavere di Liliana Resinovich, la 63enne scomparsa dalla sua abitazione di Trieste lo scorso 14 dicembre e ritrovata senza vita il 5 gennaio in un boschetto dell’ex ospedale psichiatrico, la Procura lascia aperta sia l’ipotesi dell’omicidio che quella del suicidio. Il medico legale Fulvio Costantinides non ha rilevato alcun segno di violenza sul corpo della povera Liliana, nessuna traccia di arma da fuoco o da taglio e nessun segno di strangolamento, ma l’ipotesi del suicidio non convince la famiglia della donna e questa certezza mette d’accordo tra loro persone a lei vicine che si scambiano accuse reciproche propendendo per la pista dell’omicidio.

Lilly, come la chiamavano gli amici, è stata ritrovata in posizione fetale, all’interno di due sacchi neri dell’immondizia aperti, con il capo infilato in due buste di nylon chiuse al collo non in modo stretto e questa circostanza spinge anche l’opinione pubblica a scartare l’ipotesi che la donna si sia tolta la vita. Per quale motivo una persona che intende farla finita dovrebbe recarsi in un luogo impervio fra rovi e cespugli e infilarsi in due sacchi neri della spazzatura?

Qualcuno ha tracciato una similitudine con la morte dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari che nel periodo di Tangentopoli si suicidò provocandosi il soffocamento con un sacchetto di plastica in testa; ma viene spontaneo osservare che Lilly non si trovava reclusa in carcere e quindi aveva diverse alternative, magari anche la possibilità di compiere un gesto estremo in un luogo più intimo come ad esempio la propria abitazione. Anche se per il momento non ci sono indagati, l’attenzione degli inquirenti e dei media si concentra soprattutto sul marito di Lilly, Sebastiano Visintin, 72enne fotoreporter in pensione, che fin dalle prime ore della scomparsa della moglie non si è mai negato a giornali e tv rilasciando tutta una serie di dichiarazioni, a volte anche in contrasto tra di loro e, soprattutto negli ultimi tempi, puntando il dito contro Claudio Sterpin, 82enne ex maratoneta, con il quale Lilly intratteneva una relazione sentimentale da circa un anno.

Secondo Claudio, Lilly aveva intenzione di trascorrere un weekend romantico con lui per festeggiare l’anniversario del loro primo incontro, avvenuto il 19 dicembre del 1981 e, dopo quel viaggio, avrebbe lasciato Sebastiano per andare a vivere con lui. Secondo Sebastiano, tra lui e Lilly, dopo 30 anni di matrimonio, c’era un rapporto idilliaco fatto di amore e tenerezze reciproche e non c’era alcuna aria di crisi. Va detto che Sergio, fratello di Lilly, la cugina e due vicini di casa, amici della coppia, tendono a gettare ombre su Sebastiano e negli ultimi giorni paventano, oltre al possibile movente passionale provocato dalla gelosia e dal rifiuto di essere abbandonato, anche un probabile movente economico motivato dal fatto che Sebastiano percepisse soltanto una pensione minima e Lilly invece, oltre alla buona pensione da ex impiegata della Regione, avesse da parte anche un tesoretto ammontante a circa 50.000 euro.

Sergio ha rivelato che sua sorella avrebbe nascosto i codici del suo conto corrente dietro ad un quadro in camera da letto all’insaputa del marito e che dopo la scomparsa di Lilly quel foglietto sia sparito. Sergio sostiene che Sebastiano chiedesse frequentemente denaro alla moglie, anche una somma che si aggirerebbe intorno ai 27.000 euro come rivelato dalla trasmissione “Quarto Grado”, per darli al figlio nato da un precedente matrimonio, accuse che Sebastiano e il figlio respingono al mittente dicendo che ad aver usufruito di quel danaro in realtà sarebbe proprio il fratello di Lilly.

E’ probabile che gli inquirenti stiano lavorando senza troppo clamore anche nella direzione di una verifica dei movimenti bancari per accertare chi sia stato il beneficiario delle elargizioni di Lilly. Claudio, l’amico speciale di Lilly, sostiene che tutto fosse pronto per la loro nuova vita insieme: un viaggio in Istria, una medaglietta d’oro come dono per la ricorrenza dell’anniversario e persino un nuovo appartamento da prendere in affitto, tutti elementi che dovrà dimostrare a supporto dell’effettiva esistenza della sua relazione con Lilly, di cui Sebastiano dice di essere stato all’oscuro fino al momento della sua scomparsa.

Tra scambi di accuse reciproche e moventi che potrebbero comprendere l’elemento passionale così come quello economico, il giallo della morte della povera Lilly sembra ancora lontano da una risoluzione.

venerdì 22 agosto 2025

 

L’inarrestabile sequenza dei suicidi non ci consente di chiudere gli occhi sul carcere. La linea securitaria: moltiplicazione dei reati e aumento delle pene, produce più detenuti e più sovraffollamento. Per i maitres à penser alla Delmastro la ricetta è: sempre più carceri per sempre più detenuti: una corsa senza fine. Nel frattempo nessun intervento sul sovraffollamento e, per i reati più gravi, condizioni di detenzione dure e inumane: “Una gioia non lasciare respirare chi sta nell’auto della penitenziaria”.

Il Ministro della Giustizia Nordio ha spesso additato, come causa tra le più rilevanti del sovraffollamento, il numero dei detenuti in custodia cautelare in attesa di giudizio. E allora “diamo i numeri”, quelli forniti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, che evidentemente il Ministro non legge. Al 31 luglio 2025 detenuti presenti 62.569, di cui 9.021 in attesa di primo giudizio, 3.422 appellanti, 1.697 ricorrenti in cassazione e 758 “misti”. Il totale dei detenuti in attesa di sentenza definitiva (compresi appellanti e ricorrenti per cassazione) è il 23, 81%, dato in linea con la media europea, peraltro fortemente influenzato per l’Italia da possibilità di appello e di ricorso per Cassazione molto più ampi di quelle previste in altri paesi.

Il dato più rilevante è quello dei detenuti in custodia cautelare in attesa di primo giudizio: 14,42%. È meno della metà di quel 30%, un terzo, che spesso viene diffuso. Tutti vorremmo giudizi più rapidi, ma questa percentuale, la più bassa degli ultimi decenni, è verosimilmente anche il risultato dei miglioramenti raggiunti con il sostegno del PNRR nel penale (nel civile i dati non sono invece confortanti). Di questo 14, 42% una percentuale significativa (non abbiamo un dato preciso) è costituita dagli arrestati in flagranza per i reati cosiddetti di strada, arresti convalidati, ma in attesa di giudizio. Solo il residuo è costituito dai detenuti per ordinanza del Gip su richiesta del Pm; inoltre tra questi detenuti in attesa di giudizio vi sono imputati per reati di grave allarme sociale (es. rapinatori seriali, trafficanti di droghe), che nessuno vorrebbe rimanessero in libertà.

Il dato del 14, 42% dei detenuti in attesa di primo giudizio, a dispetto di quanto dice il Ministro, è scarsissimamente influente sul sovraffollamento.

Dopo aver “dato i numeri”, pensiamo alle persone dei detenuti. Siano prudenti i Pm nel richiedere misure cautelari, siano prudentissimi i Gip nel concederle solo nei casi strettissimamente necessari. Sia vigile l’opinione pubblica e la stampa nella attenzione e nella critica. Ma non creiamo confusione con dati e false aspettative. Se si vuole davvero e subito incidere sul sovraffollamento, esclusi per impraticabilità politica amnistia e indulto, rimangono solo due vie. Una misura strutturale, l’ampliamento della detenzione domiciliare per i detenuti con un basso residuo di pena, magari con braccialetto elettronico (funzionante), è un “beneficio” che favorirebbe il reinserimento nella società. Una misura contingente è l’ampliamento straordinario della liberazione anticipata, che non è automatismo, ma riduzione di pena per buona condotta. Almeno su quest’ultima misura il “garantista” Ministro Nordio potrebbe cessare di adeguarsi alla inumana torsione repressiva del buttare le chiavi della cella fino all’ultimo goccio di sofferenza dell’ultimo giorno del fine pena. Se poi qualcuno non resiste e pone fine alla sua vita, se la è andata a cercare, taluno osa dire. Non si tratta di essere “buonisti”. Condizioni carcerarie incivili aumentano le pulsioni antisociali e sono controproducenti anche dal punto di vista della prevenzione della recidiva e dunque della “sicurezza” razionalmente intesa.

 ALTRO CHE FRAGILITA' QUI SI TRATTA DI VOYEURISMO E' UNA PARAFILIA MARITI GUARDONI CHE GODONO VEDERE LA MOGLIE POSSEDUTA DA ALTRI. 

 

IL CASO PIU' ECLATANTE IN ITALIA E' CAMILLO CASATI STAMPA DI SONCINO CHE UCCISE LA MOGLIE, L'AMANTE E POI SI SUICIDO.

 

CAMILLO RECLUTAVA GIOVANOTTI PER ANNA UNA BELLA DONNA CON QULCHE APPARIZIONE IN FILM -

 

-   E NEL MONDO IL FRANCESE PELICOT CONDANNATO A 10 ANNI DI CARCERE SU DENUNCIA DELLA MOGLIE E FIGLIA - 

                                                     ( Ferdinando Terlizzi, criminalista e scrittore )

Trentaduemila e passa iscritti a un gruppo Facebook candidamente intitolato “Mia Moglie”, i quali si dedicano a caricare e contemplare fotografie di donne vestite il meno possibile o anche di niente, scattate a loro insaputa. Così, per gioco, divertimento, sprezzo del rischio, pruriti vari. Tutto tremendamente brutto.


Il gruppo Facebook è già stato segnalato ma i prodi amministratori e/o chi per loro hanno già comunicato via social che ci si sta organizzando altrove, forse in un altro gruppo forse su un altro social, perché guai a perdere il vizio. E purtroppo c’è da scommettere che costoro ce la faranno a tenere vivo questo passatempo perché ormai il mondo è fatto così e pare non ci sia modo di fermare, arginare o educare chi si sente autorizzato a dedicarsi a cose del genere.

Questa orrenda vicenda di cui purtroppo si continuerà a parlare al presente perché si ha un bel chiudere gruppi e segnalare ma questo genere di attività è facile e a portata di mano, desta però alcune riflessioni. Turba profondamente. Che cosa spinge degli esseri umani di sesso maschile a pubblicare fotografie intime rubate a donne presumibilmente “vicine” se non consorti, come recita il nome del gruppo? Quale dose di bassezza devono avere addosso queste persone di sesso maschile per pensare, fare e condividere roba del genere? È una fragilità tossica quella che si racconta in questa storia, il segno di una cronica inettitudine a confrontarsi con la libertà propria e altrui. Come se il maschio contemporaneo – certo non tutto ma una parte – faticasse a confrontarsi con la condizione esistenziale in cui si trova, con quel corpo dei diritti civili che dovrebbe essere ma non sempre è una conquista condivisa e irrinunciabile. Perché entra qui in gioco un tema centrale del nostro presente, quello della libertà. Dell’uso e dell’abuso che se ne fa, dell’idea malsana, confortata dalla facilità d’uso della realtà virtuale, per cui tutto si può fare, avere ed essere. Perché quello che conta è la tua libertà, quella degli altri non ti riguarda. E men che meno ti riguardano il rispetto e la dignità del tuo prossimo, vicino o distante che sia. La libertà, invece, ha un limite eccome. E forse è giunto il momento di affrontare quella specie di tabù che è, oggi, la limitazione della libertà. Anzi, delle libertà, parola invariabile che dovrebbe essere sempre declinata al plurale.

Su questa vicenda pesa poi l’ombra del caso di Gisèle Pelicot e suo marito, che per anni ha abusato di lei in tutti i modi possibili. Non tanto per la crudeltà perpetrata e la violenza fisica ai danni di questa moglie, quanto per il sospetto che dietro immagini “domestiche” rubate e pubblicate sul gruppo Facebook ci siano inevitabilmente piccole e grandi perversioni, ci sia il sovvertimento di quel principio minimo di rispetto su cui dovrebbe fondarsi ogni relazione di coppia – stabile o occasionale che sia. In parole povere, che razza di vita fa, questa gente del gruppo? Come potrà trattare la propria moglie, le donne che incontra, una persona così? Che diavolo ha in testa? Di che rancida pasta è fatta la sfera delle sue emozioni?

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