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martedì 8 luglio 2025

 

La Cinebussola
«The end», come vi immaginate la fine del mondo?
editorialista
Paolo Baldini
 

Come vi immaginate la fine del mondo? Un deserto di rovine e terre soffocate dall’inquinamento, dalle conseguenze delle guerre e dell’incuria umana? Secondo l’immaginifico (e arcipessimista) Joshua Oppenheimer una catastrofe climatica estinguerà la vita sul Pianeta. Resisterà solo, asserragliata nel bunker – fortezza allestito per resistere al terribile impatto, una famiglia ricca che sta perdendo però la pietas e il senso del tempo. La incontriamo anni dopo il crac, quindi oltremodo logorata. Ah, va detto subito che il film è un musical tondo tondo: espediente che – come già Jacques Audiard in Emilia Perez - Oppenheimer usa per dare fluidità al racconto. L’ambiente, benché macabro, è confortevole: il rifugio è una infatti principesca villa con piscina e una fantasmagorica collezione d’arte, senza accessi all’esterno, se non un tunnel acquatico, ricavato in una miniera di salgemma, un simbolico Stige che porta verso l’inferno e dove tutti si dividono il ruolo di Caronte.

Il texano Oppenheimer usa il meccanismo shakespeariano – dantesco dei pochi intrappolati che, uno per uno, diventano il simbolo della deriva globale. La famiglia s’è arricchita con il petrolio ed ha una responsabilità diretta con il disastro: la morte che hanno schivato è stata da loro provocata. Chiusi là dentro come in una tomba, una madre ex ballerina (Tilda Swinton), un padre faccendiere (Michael Shannon) e un figlio anaffettivo (George MacKay) che non ha coscienza del mondo di prima, un maggiordomo, un medico (Lennie James) e una cameriera, hanno perduto il senno in attesa dell’ultimo rintocco. Hanno creato regole ferree per difendersi, generando una sorta di tirannia accettata come il male minore. L’arrivo da fuori di una ragazza di colore (Moses Ingram) che ancora conserva innocenza e verità sconvolgono il microclima psicologico del gruppo. La giovane viene osteggiata, riammessa a corte, persino coccolata. Il figlio timidamente la concupisce: lei resta incinta, e figuratevi come viene accolta la notizia in quello spaccato di mondo in agonia. Il ragazzo, avendo adesso un altro punto di riferimento, mette in discussione il castello di carte alzato dai genitori, cercando di comprendere le responsabilità (anche familiari) della tragedia e la genesi di quell’esempio tossico di comune obbligata.

Il deb Oppenheimer dimostra talento e coraggio nel delineare la sua comunità di morti viventi,dead men walking, dove tutto ha assunto un significato diverso: desiderio, passione, lealtà, tradimento. Il coraggio di Oppenheimer sta anche nella scelta di raccontare l’apocalisse seguendo un ritmo naturale degli avvenimenti, così da togliere al film ogni sussulto romanzesco e trasformando la parabola, tra horror e fantasy, in una specie di ghiacciaia esistenziale richiama lockdown seguito allo stop pandemico.

I personaggi di The End mangiano come feudatari medievali, ballano, danzano e cantano come se fossero sul pontile del Titanic: ognuno si porta dietro malumori, egoismi e rimpianti, tutto sembra perdersi in un buco nero che vale una premonizione. Vale solo la legge della sopravvivenza, della conservazione fisica e del potere. I vincoli parentali si allentano, le relazioni umane svaniscono: Shannon e Tilda Swinton si sentono legati dal disagio che li ha colpiti. L’amore è una faccenda morta e sepolta. La ragazza di colore rompe questo schema mortifero. Con il suo bambino porta l’ultima speranza in quell’enclave di infelici. Nel cast, Swinton sfrutta le sue doti di trasformista ed è di gran lunga la più brava.

THE END di Joshua Oppenheimer
(Danimarca-Germania-Irlanda-Italia-Svezia-Usa, 2024, durata 148’, I Wonder Pictures)

con Tilda Swinton, Michael Shannon, Tim McInnerny, George MacKay, Moses Ingram, Lennie James
Giudizio: dal 3 al 4 su 5
Nelle sale

 ì

Nusseibeh: «Israeliani e palestinesi? Per il dialogo ci vorrà del tempo, ma l’idea di annientarsi è un’illusione. I due popoli sono qui per restare»

di Lorenzo Cremonesi

L'intellettuale palestinese Sari Nusseibeh: «L’unica alternativa resta parlarsi e trovare un compromesso»

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Un bambino palestinese  seduto su ciò che resta di una conduttura dell'acqua in un enorme cratere provocato da un bombardamento israeliano su Gaza City (Afp)

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GERUSALEMME - «C’è una necessità inevitabile di dialogo e pace. Per decenni tra palestinesi e israeliani ci siamo illusi a vicenda di poter vincere tutto. Ancora prima della nascita del loro Stato, gli ebrei pensavano di poter espellere gli arabi. Poi gli arabi l’hanno pensato contro gli ebrei. Dopo il 1948 ancora la stessa storia: prima la guerra dell’Olp, poi quella di Hamas, e adesso i coloni israeliani e la destra messianica che vogliono svuotare Cisgiordania e Gaza di tutti gli abitanti palestinesi. Ma la realtà dei fatti prova che entrambi i popoli sono qui per restare

                    ISRAELE, IRAN E HAMAS, LA GUERRA IN DIRETTA

Nessuno espelle nessuno. Persino a Gaza, devastata dalle bombe e insanguinata dai massacri, l’esercito israeliano non sa dove cacciarci via. Dunque, l’unica alternativa resta parlarsi e trovare un accomodamento. Non ne vedo altre». Sari Nusseibeh neppure in questi giorni, che lui stesso definisce «neri di orrori e terrori come mai ne abbiamo visti anche nei momenti peggiori», perde il suo proverbiale ottimismo. Figlio di una delle più note e antiche famiglie di Gerusalemme, a 76 anni è platealmente considerato uno degli intellettuali più attenti e moderati dell’universo palestinese. I suoi studenti all’Università di Bir Zeit in Cisgiordania, dove insegnava filosofia negli anni Ottanta, lo picchiarono sino a spezzargli un braccio perché lui s’incaponiva a dialogare anche con la destra israeliana.

Come se ne esce?
«Imparando dal passato. Per oltre un secolo abbiamo assistito a questi momenti alteri di illusioni nella vittoria totale. Le cose iniziarono a cambiare dopo la prima Intifada, la grande rivolta popolare contro l’occupazione di Cisgiordana e Gaza scoppiata nel dicembre 1987. Nei due campi si capì gradualmente che occorreva un compromesso. Fu importante: i palestinesi compresero che i sionisti non erano solo i figli di un effimero esperimento coloniale occidentale da debellare e gli ebrei a loro volta smisero di guardare a tutti noi arabi come nipoti di Hitler. Ma fu solo una parentesi. Perché poi il processo di pace iniziato a Oslo nel 1993 fallì e dall’inizio del nuovo millennio siamo ricaduti nel cerchio della guerra».

Ovvero?
«Gli israeliani ci vedono come un nemico letale che va schiacciato e i palestinesi non credono che ci sarà un futuro con gli israeliani. Oggi il messianismo religioso sionista si contrappone alla guerra santa islamica. Vince la logica della forza: siamo ricaduti alle origini dello scontro, come se oltre un secolo di storia si fosse consumato invano».

Prospettive?
«Resta importante capire che non c’è vittoria per nessuno. Gli espulsi restano o comunque tornano indietro. Se anche oggi tutti gli abitanti di Gaza venissero cacciati, poi tornerebbero combattendo, è scritto sui muri. Inutile continuare a farsi la guerra: unico risultato è che entrambi i popoli si trasformano da cittadini normali in diavoli assetati di sangue».

Guardando indietro, quale periodo del passato le ricorda quello attuale?
«Appena dopo il 1948, quando dal Cairo a Damasco e Amman pensavano che fosse possibile ributtare gli ebrei in mare».

Cosa rappresentò Oslo?
«S’iniziò a pensare che gli altri fossero partner con i quali era possibile convivere».

E la differenza oggi da tre decadi fa?
«Nel sionismo è cresciuto una forte spinta di messianismo religioso che paralizza il compromesso. Se cade l’elemento laico e inizi a credere che questa terra è tua per volere divino allora non c’è più alcuno spazio, non si può negoziare con Dio».

È la stessa visione di Hamas?
«Esatto, la stessa cosa, oggi c’è un Hamas israeliano».

Le differenze?
«Hamas tra i palestinesi è in forte crisi, anche a causa del disastro che ha procurato alla popolazione di Gaza. Invece, il messianismo religioso ebraico resta in forte crescita. Ma non è detto che ciò sia irreversibile, anche qui c’è spazio per sperare in un cambiamento di tendenza».

Crede che Yasser Arafat nel Duemila trattando con l’ex premier laburista Ehud Barak e poi Mahmoud Abbas con Ehud Olmert nel 2007 sbagliarono a non accettare le offerte di compromesso che davano ai palestinesi tra il 94 e 97 per cento dei territori occupati da Israele nel 1967?
«Sì. I due leader palestinesi allora commisero l’errore di non continuare a negoziare. Dovevano firmare l’accordo e poi riprendere i dialoghi. E Abbas avrebbe comunque dovuto rispondere a Olmert, assolutamente doveva farlo e non uccidere quell’occasione così importante: andò via per non perdere il 4 per cento della terra, fece male. Allora i palestinesi si annegarono in dettagli minori, non capirono le priorità: fu un grave errore».

Come vede il caso degli sceicchi di Hebron, che adesso sono disposti ad accettare accordi separati con il governo Netanyahu alle spalle dell’Autorità palestinese di Ramallah?
«Credo siano ottimi strumenti nelle mani degli isrealiani, che li usano per dividere il fronte palestinese. Non c’è nulla di nuovo, le autorità dell’occupazione lo hanno fatto sia a Gaza che in Cisgiordania sin dal 1967: trattano con i piccoli notabili locali per isolare e indebolire i movimenti della resistenza nazionale. Io provo un senso di pietà per loro, li trovo assolutamente stupidi, anche se riconosco la loro libertà d’azione. Comunque, non credo abbiano un peso politico rilevante».

In che modo potrebbe riprendere il dialogo?
«Nessuno è davvero pronto oggi. Ci vorrà parecchio tempo. Nei prossimi due o tre anni la società israeliana avrà superato questa fase di ubriacatura della vittoria, si capirà che noi siamo qui e dobbiamo convivere. Nel campo palestinese occorre riformare il governo di Ramallah, superare lo scontro tra Hamas e Olp. Spero che l’anno prossimo finalmente si tengano le elezioni per un nuovo esecutivo: è un passo fondamentale. Io mi ero candidato tre anni fa, ma poi il processo elettorale fu stato bloccato per volere di Abbas, che temeva di perdere potere».

Come vede gli sforzi di Trump per arrivare al cessate il fuoco a Gaza?
«Credo che Trump stia lavorando bene. Il cessate il fuoco è un passo fondamentale: i massacri di palestinesi sono senza precedenti, questa è in assoluto la più sanguinaria e terribili di tutte le nostre guerre e va bloccata il prima possibile. Valuto anche che Trump alla fine sarà in grado di costringere Netanyahu a terminare l’attacco contro Gaza».

Ma poi si tornerà alla formula di Oslo per i due Stati, che oggi sembra superata dalla realtà sul terreno?

«Ci sono varie possibilità. Magari una terra in comune per due Stati paralleli, o un’entità binazionale con una forte autonomia per i palestinesi, oppure ancora il progetto di una confederazione con la partecipazione della comunità internazionale per la gestione di Gerusalemme. Tutto è aperto, se ne tornerà a parlare. È inevitabile».

lunedì 7 luglio 2025