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giovedì 25 febbraio 2010

26° Puntata - Giustizia sommaria

(26)Sono terrorizzato di una giustizia - sommaria - che arresta senza leggere le carte.

E sempre per restare in tema di “giustizia”, non riesco a concepire, per esempio, pubblici ministeri che chiedono ergastoli, per imputati che poi vengono regolarmente assolti. Come fanno a dormire la notte? Come fanno, questi pubblici ministeri, a guardare in faccia ai propri figli? Non capisco come abbia fatto, per esempio, il piemme del mio processo, a chiedere 6 anni di carcere per me, su un’accusa di “aria fritta”? Una domanda: ”Ma i piemme leggono quello che scrivono gli altri giudici? Oppure quando si tratta di cose favorevoli all’imputato le ignorano?”. A me sembra proprio che sia cosi! Ne ho avuto la prova “provata” nel processo a mio carico per bancarotta fraudolenta, intentatomi per il crac dell’Unicoop e per il quale sono stato condannato a 4 anni e sei mesi di reclusione. E’ noto che io non ho incassato una lira – neppure la mia parcella di liquidatore volontario – ho semplicemente fittato i capannoni dell’ ex Unicoop alla Silpa ed alla Sam (due società che facevano capo ai nipoti di Pasquale Lillo ), e per questo sono stato accusato di aver prodotto un passivo fallimentare di 136 miliardi, perché i canoni di affitto non erano “congrui”. Come dire che era una “pastetta” tra me e i beneficiari. Nessuno si è brigato di andare a controllare le carte ufficiali. Che i canoni, per esempio erano stati oggetto di valutazioni da parte del giudice civile e che erano stati ritenuti congrui. Che la sentenza emessa per la determinazione dello stato passivo parlava di 70 miliardi e non di 136. Tutto quello che è a favore dell’imputato deve essere omesso. Questa è la giustizia in Italia. Come non dare ragione a Belusconi? L’onere della prova dovrebbe essere esclusivo appannaggio dell’accusa, ma non fondata sull’immaginazione di molti piemme.


Molti di loro, infatti, vivono una vita fuori dal normale; blindati, barricati in caserme, pur di apparire più che essere. Senza famiglia, senza una pur minima libertà; costantemente scortati e sotto il tiro di chi vuole eliminarli. Ma per caso - mi domando - non è forse anche questo un modo per aizzare i propri sensi, quando nella vita non ci sono interessi diversi? Amore, sesso, affetto, amicizia non contano per alcuni piemme. Per loro conta molto di più attraversare i lunghi corridoi dei tribunali, impettiti; rincorsi da segugi frastornati, rimbambiti, a volte rincoglioniti, plagiati, che si lasciano uccidere con facilità alla prima occasione, ( i casi di Moro, Borsellino e Falcone sono i più evidenti ), costretti ad imitare i passi veloci e le piroette del magistrato, il quale con la toga sulle spalle, senza indossarla, quasi a dimostrazione che il suo servizio con la giustizia è a mezzadria, scansa gruppi di avvocati e imputati che parlottano innanzi alle aule giudiziarie, non degnandoli di uno sguardo. La gente comune non è meritevole delle loro confidenze. Loro sono uomini superiori. Anzi credono di esserlo!

In proposito, sui pubblici ministeri in generale, Leone Tolstoj aveva le sue idee: ”Finito l’esame dei corpi di reato, il presidente dichiarò chiusa l’inchiesta, e senza intervalli, ansioso com’era di sbrigarsela, diede la parola al pubblico ministero. Sperava di avere a che fare con un uomo come tutti gli altri, che avesse voglia di fumare, di andare a pranzo, e che avrebbe avuto pietà di loro. Ma il sostituto procuratore non ebbe pietà né di sé né degli altri… A parer suo, la requisitoria del sostituto procuratore, doveva sempre avere una parola sociale, come le arringhe degli avvocati più celebri… Il sostituto procuratore per principio, doveva essere sempre all’altezza della sua posizione, che gli imponeva di penetrare l’ intimo significato psicologico di un delitto, mettendo a nudo le piaghe della società”.
E anche il giudice Dante Troisi nel suo “Diario”, a proposito dei piemme così scriveva: “La semplicità con cui in genere il pubblico ministero si alza a reclamare la condanna degli imputati deriva e dall’obbligo di rispettare la parte di accusatore, che si ritiene assegnata e dal privilegio non di partecipare in concreto ad infliggerla. Questo spiega la disinvoltura nel manipolare le pene e come, fuori udienza, egli si dichiari d’accordo su tante assoluzioni e giudichi perfino ingiusta una decisione conforme alla sua richiesta”.
E’ proprio il caso che ho citato io, di quel piemme che, venuto a conoscenza della mia presenza, mentre seguivo il processo per la rivolta di Cellole esclamò: “Se avessi saputo della presenza della stampa avrei chiesto una condanna più grave”.
E Titta Madia: “Il pubblico ministero ama essere lo “spiritus rector” d’un meccanismo processuale: per lui il delitto è sempre un blocco definito, mai un fascio di nervi: egli non guarda l’imputato, gli basta il fatto da bilanciare con la pena di un articolo. Gli basta la verità media: quella che si ricostruisce con le risultanze delle Corti; non si cura dell’altra, di quella che deve tormentosamente rintracciarsi nel fondo delle cose o sul vertice delle anime… Spesso l’accusatore ha l’orgoglio di uccidersi, di disperdere da sé il calore di umana solidarietà, per far posto ad una voce spersonalizzata: la condanna! Così spesso la requisitoria appare più un virtuosismo che una virtù”.
Ma non sono solo io a pensarla in questo modo e non sono stato solo io vittima di una giustizia giustizialista e di parte. Ho il conforto di menti “elevate”, come Vittorio Feltri, Renato Brunetta o Davide Giacalone, e mi riferisco in particolare al loro manuale di conversazione politica,

(In galera, in galera – 26° -Continua )

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