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giovedì 25 febbraio 2010

30 - In galera, in galera

(30) Ma devono farlo sentendo il peso della responsabilità che si assumono, capendo quali sono le caratteristiche della macchina che stanno maneggiando.

Se si vuole evitare il bavaglio alla stampa, se si vuole evitare che certi problemi siano affrontati in sede legislativa (com’è avvenuto in Francia e come si sta tacendo anche in Italia) allora si deve professionalmente avere un maggiore rispetto delle cose di cui ci si occupa. Senza crescita professionale, senza rinuncia al sensazionalismo ad ogni costo, allora non si ha il diritto di sbarrare la strada a leggi che impongano un maggiore rispetto della privacy, o che, in qualche modo comportano un certo tasso di censura. Inutile convocare scioperi o manifestazioni, questo è un problema che sta nelle mani dei giornalisti. E nelle loro menti.

Quando i giornalisti che si occupano di questioni giudiziarie non sono impegnati a scrivere, e quando, conversando, li si porta ad affrontare i problemi di cui abbiamo fin qui parlato, capita di ascoltare l’esposizione della seguente tesi: sì, certo, non è cosa bella pubblicare integralmente, come fosse oro colato, la velina che ci viene passata dalla procura della Repubblica, ma, sai il problema è che se uno di noi non lo fa, se magari, si spinge a criticare la violazione del segreto istruttorio, automaticamente viene depennato dalla lista di coloro che hanno diritto alla velina, e quindi, sarà destinato a bucare (cioè perdere) tutte le notizie della cronaca giudiziaria.

Questa tesi non è una giustificazione, giacché se non è cosa bella prendere le veline dai politici, che incarnano il potere legislativo e talora, esecutivo, cosa ancor meno ammirevole è prendere le veline dai piemme, che incarnano il potere della repressione. Tutti i poteri, in democrazia, se regolati, sono legittimi, ma quando si passa agli abusi di potere, ed alle violazioni delle regole che ai poteri sono imposte, la qualità della nefandezza cambia a seconda di quale potere ne è protagonista. Quel discorso, però, ci porta ad affrontare l’altra faccia della medaglia: se ci sono giornalisti che si piegano alle veline dei piemme ci sono anche dei piemme che scrivono veline.
Come spesso abbiamo potuto constare - in più di una occasione – specialmente con “Il Mattino” ( leggi Rosaria Capacchione) che molte volte ha anticipato la notizia di un nuovo pentito di camorra.

La prima cosa equivale ad una forte dequalificazione professionale. La seconda è un reato. Ed è un reato grave. Molto grave, i piemme sono magistrati, ben pagati dallo Stato, per svolgere la funzione di accertamento sulla possibile esistenza di reati, e quindi, su chi se ne è eventualmente reso colpevole. Tanto è vero che essi non sono ( non dovrebbero essere) i paladini dell’accusa, che il codice di procedura penale li obbliga a svolgere indagini anche a favore dell’indagato. Quindi, si badi bene, il buon pubblico ministero non è lo spietato accusatore ad ogni costo, ma colui il quale, senza guardare in faccia nessuno e senza avere pregiudizi di nessun tipo mira diritto all’accertamento della verità, quale che essa sia.
Se un piemme però, si mette a passare notizie d’accusa ai giornalisti, così come è stato ripetutamente e pubblicamente fatto, egli non commette solo uno specifico reato ( la violazione del segreto istruttorio), ma getta nel fango l’intera la propria funzione. Viola alla radice le norme che regolano le indagini preliminari, fa venire meno ogni forma di tutela dell’onorabilità di cittadini che devono essere da lui considerati non colpevoli fino a prova ( a prova ) del contrario, e, quindi, distrugge ogni possibilità di affiancare la propria azione ad una qualche idea di giustizia. Ad un piemme non può essere fatto carico di nessuna responsabilità se nel corso di un’inchiesta che attira l’attenzione dei giornalisti e dell’opinione pubblica, capita che il suo nome diventi famoso, la fama di per sé, non è indizio nè di grande capacità, nè di violazione di alcuna regola. Ma se come capita spesso, il pm fa di tutto, ma proprio di tutto, per potere incontrare un giornalista, per farsi riprendere dalle telecamere, per potere sostare qualche minuto davanti ai microfoni, con l’aria di chi non sta più nella pelle dalla contentezza per essere riuscito ad affacciarsi sul piccolo schermo beh in questi casi al piemme in questione possono essere fatte molte colpe.
E sarà bene che chi di dovere, come il Consiglio Superiore della Magistratura, non si limiti a dire che i piemme non devono rilasciare interviste, facendo finta di non accorgersi che ne rilasciano un paio al giorno. Anche la credibilità di questi organi, con il tempo, si logora. Vi è poi un modo di passare le notizie ai giornalisti che però non è un reato, e lo si realizza mediante la pubblicizzazione dei processi, anche questa e una pratica su cui occorre riflettere.

( 30 - In galera, in galera – Continua )

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