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giovedì 31 gennaio 2013


La Corte dei diritti dell’uomo e la diffamazione a mezzo stampa. Post definitivo

Se il giornalista viola i suoi doveri pubblicando fatti non veri, non verificati, agendo non in buona fede o con violazione delle regole deontologiche, non può appellarsi alla libertà di espressione e di stampa.


Mentre l’Italia intera era impegnata in un acceso dibattito sulla diffamazione a mezzo stampa a seguito della condanna di un singolo giornalista, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu), con la sentenza del 27 novembre 2012 (ricorso Mengi vs Turchia n. 13471/05 e 38787/07), ha fissato i punti per valutare la compatibilità delle sentenze dei giudici dei singoli Stati con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

I fatti
Una giornalista aveva pubblicato su un quotidiano turco una serie di articoli criticando, anche aspramente, i disegni di legge per la modifica del codice penale, appuntando in particolare le sue rimostranze sulla riduzione di pene previste per i reati di stupro e omicidio d’onore. La giornalista si soffermava sull’operato di un professore, presente nella commissione di riforma nella qualità di esperto, il quale veniva rappresentato come un’ottantenne bigotto ed ossessivo che discrimina le donne e i bambini. Secondo la giornalista avrebbe dovuto essere rinchiuso in una clinica!
Il professore, studioso riconosciuto a livello internazionale e autore di migliaia di articoli giuridici, persona stimata per aver dato un grande contributo allo sviluppo del sistema giuridico del Paese, risentitosi ha deciso di agire in sede civile per diffamazione, affermando che quegli articoli avevano inciso negativamente sulla sua vita professionale e privata.
La giornalista è stata condannata ad un risarcimento di 8000 lire turche (circa 3000 euro), per cui presentava ricorso alla Corte di Strasburgo.

Art. 10 Convenzione diritti dell’uomo
La sentenza della Corte, muovendosi nel solco delle precedenti in materia, risulta estremamente chiara nel ricostruire i parametri che le autorità interne devono seguire nel valutare la diffamazione, al fine di non incorrere in una violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo, che, all’art. 10, tutela la libertà di espressione:

1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

La sentenza Cedu
La Corte ricorda che il suo compito è di verificare se una condanna interferisce con l’esercizio della libertà di espressione del ricorrente.
La libertà di espressione, specialmente quando esercitata dalla stampa che ha il compito di controllo sul potere, secondo la Corte di Strasburgo ha un ruolo fondamentale per la formazione di una società democratica, e si presenta con un aspetto attivo ed uno passivo: la libertà della stampa di informare; il diritto dei cittadini ad essere informati. Però, come tutte le altre libertà, non è assoluta ma incontra dei limiti, quali il diritto alla privacy e alla reputazione.
La Cedu, conscia del legame tra libertà di espressione e democrazia, pur ammettendo pacificamente che uno Stato può intervenire stabilendo restrizioni alla libertà di informazione, precisa che tali limiti sono ammissibili solo se risultano necessari a proteggere un altro diritto. La prova della “necessità” richiede di stabilire se l’ingerenza denunciata corrisponde ad un “bisogno sociale imperativo”.

Parametri di valutazione
In tale valutazione il primo passo è verificare se l’ingerenza è prevista dalla legge, in quanto le deroghe alla libertà di espressione devono essere normativamente prefissate per non mettere a rischio il valore di tale libertà.
Poi, la Corte distingue tra “giudizi di fatto” e di “valore”, laddove mentre l’esistenza del fatto può essere soggetta a prova, il giudizio di valore non può esserlo. La richiesta di dimostrare la verità di un giudizio di valore determina un evidente effetto dissuasivo sulla libertà di informare.
Infine, poiché l’esercizio di un diritto comporta anche doveri e responsabilità, chi esercita l’attività giornalistica deve rispettare alcuni parametri:

- interesse pubblico alla notizia;
- verifica della notizia;
- rispetto delle regole deontologiche;
- agire in buona fede.

L’interesse pubblico della notizia è presupposto fondamentale, perché solo quando sussiste viene tutelato chi esercita la libertà di espressione, con ovvia conseguenza che una vicenda che interessa un ristretto gruppo di persone e non apporta alcun contributo ad un dibattito generale (gossip) non è oggetto di tutela. Il giornalista, o comunque chi esercita attività giornalistica, deve verificare nei limiti del possibile le fonti per accertarne l’attendibilità e salvaguardare la verità sostanziale dei fatti intesa come corrispondenza tra l’affermato e l’accaduto. Infine, ha l’obbligo di correggere tempestivamente le inesattezze e pubblicare le rettifiche quando occorre, ristorando in tal modo la reputazione lesa dalla notizia inaccurata.
Il linguaggio, scelta stilistica
Ulteriori fattori vengono in considerazione nella valutazione del giudice nazionale, come della Corte europea, valutazione che deve sempre essere onnicomprensiva, e non limitata ad un singolo aspetto.
Ad esempio è rilevante il ruolo del soggetto criticato, perché un politico, oppure un funzionario pubblico, che si pone per sua scelta all’attenzione del pubblico, non può pretendere la medesima protezione della privacy accordata ad un cittadino comune, e deve accettare un livello di critica superiore.
Entra in considerazione anche la forma dell’articolo, perché se unlinguaggio offensivo può cadere fuori dalla protezione dell’art. 10 quando equivale a denigrazione estrema, non si può dire lo stesso nel caso in cui l’intento dell’articolo, pur colorito con linguaggio aggressivo, sia non quello di insultare ma di portare una critica basata su fatti. L’uso di frasi volgari non è, dunque, determinante nella valutazione di una espressione, ma può essere una scelta stilistica del giornalista che non può essere censurato solo per questo. Nei confronti dell’homo publicus la Cedu ammette una particolare virulenza e anche dose di esagerazione o di provocazione, e nella sua giurisprudenza non vi è traccia di un dovere di moderazione nel linguaggio.
In ultimo deve essere considerata anche la sanzione inflitta, nella sua forma e gravità, che deve mostrare proporzionalità con la violazione. Una sanzione eccessiva e sproporzionata può comunque portare ad un effetto dissuasivo nell’esercizio della libertà di espressione.

Nel caso specifico, ad esempio, la Corte ha ritenuto che l’intento della giornalista turca non fosse quello di insultare, ma di portare una critica alle leggi di riforma del codice penale. Il linguaggio degli articoli, anche se poteva essere percepito come offensivo, era un giudizio di valore basato su fatti verificati, e l’articolo era veritiero in quanto le disposizioni normative criticate erano state oggetto di critiche virulente da parti di molti, tra cui anche ministri.
Per questo la Corte ha sancito che l’ingerenza non era legittima ma tale da determinare una violazione della Convenzione, così condannando lo Stato turco a risarcire 7000 euro alla giornalista.

Tipo di sanzione
La Cedu precisa che la valutazione del giudice nazionale, e della stessa Corte, non può mai limitarsi ad un singolo aspetto ma deve essere onnicomprensiva. Ciò è rilevante con riferimento al dibattito recentemente esploso in Italia sulla compatibilità della sanzione della pena detentiva con la Convenzione, essendosi sostenuto che tale forma di sanzione ne sarebbe in contrasto a prescindere. In realtà si tratta di un errore di prospettiva, perché la Corte rinviene una violazione della Convenzione più facilmente nei casi di giornalisti condannati al carcere, piuttosto che in presenza di sanzioni di tipo economico. Pur tuttavia vi sono vari casi (come questo e quello deciso con la sentenza Riolo c. Italia) nei quali anche la sanzione pecuniaria (72.000 euro nel caso Riolo) viene ritenuta una limitazione eccessiva della libertà di espressione.
La Corte ha precisato che il ricorso alla sanzione detentiva è giustificabile solo in circostanze eccezionali, facendo un elenco di esempi concreti (diffusione di discorsi di odio o incitamento alla violenza), tuttavia non esaustivo.
Ciò che la Cedu ha chiarito è che qualsiasi tipo di pena può essere in contrasto con la Convenzione dei diritti dell’uomo se è tale da alterare il corretto bilanciamento dei diritti e se, paragonata alla condizione patrimoniale di chi esercita la libertà di espressione, ne determina un’inibizione a proseguire nell’attività di informazione, laddove la forma della sanzione è solo un elemento della valutazione globale.

Il diritto dei giornalisti è, quindi, protetto a condizione che essi agiscano in buona fede, pubblicando fatti esatti e verificati, e nel rispetto della deontologia professionale. Tutte le sentenze della Cedu citate nel corso del dibattito in materia di diffamazione a mezzo stampa, avevano un denominatore comune, e cioè la presenza di fatti veritieri e verificati. Appare evidente, quindi, che nel momento in cui il giornalista viola i suoi doveri pubblicando fatti non veri, non verificati, agendo non in buona fede o con violazione delle regole deontologiche, egli non è più funzionale alla libertà di espressione e di stampa e al diritto dei cittadini ad essere informati e quindi si pone al di fuori della tutela prevista dall’art. 10 della Convenzione, con tutte le conseguenze del caso.
Non è, quindi, un problema di sanzione prevista in astratto quanto piuttosto di applicazione concreta della norma.

L’informazione indicatore di democrazia
L’informazione è un elemento essenziale per una democrazia, nonché un suo valido indicatore , ma essa deve essere esercitata in maniera responsabile e con rispetto per la verità dei fatti e la reputazione degli individui. La tutela non discende dall’avere un tesserino in tasca o dall’appartenenza ad un Ordine, quanto piuttosto dal corretto esercizio della libertà di espressione. Con questa sentenza finalmente c’è più chiarezza.
E, discorrendo di verità dei fatti, non possiamo non ricordare che le pressioni sulla stampa non sono solo quelle politiche, ma anche quelle provenienti dal mondo economico, che spesso in Italia si intreccia indissolubilmente con quello editoriale. È sempre più raro leggere articoli sulla salute, gli investimenti, l’ambiente, che non siano semplicemente elegiaci nei confronti delle aziende, quelle stesse che investono grandi somme in pubblicità sui giornali. Anche questa è una forma di censura che mette a serio rischio il ruolo dell’informazione. Secondo Reporter senza frontiere l’Italia è al 61 posto -su 179 paesi- nella classifica della libertà di stampa.


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