A FORMIA DIBATTITO SUL LIBRO DI CARMELO MUSUMECI "URLA A BASSA VOCE"
Voci da “dentro”
(Formia- Archivio di Stato.
Intervento di Pasquale Giustiniani*)
Finalmente poter ascoltare le
“voci da dentro” stando qui fuori, senza dover origliare o sbirciare; ma solo perché
loro, i 36 detenuti che hanno scritto insieme con la curatrice, Francesca de
Carolis, questo notevole e scomodo libro[1]
- sono quasi tutti reclusi in circuiti penitenziari differenziati. Voci che
vengono dal carcere più duro che appare, dal punto di vista della durata, e non
solo, come l’inferno (quanto dura l’inferno? Sempre. Quando finisce l’inferno?
Mai): dal 41 bis riservato, al 41 bis, a quello ad Alta Sicurezza, all’Elevato
Indice di Vigilanza che, dal 2009, è stato sostituito da tre sottocircuiti
dell’Alta Sicurezza –. Tutti i “padroni” di queste voci hanno consapevolmente deciso, rispondendo a
domande di «insegnanti, medici, volontari, giornalisti, suore» (p. 9), di farci,
appunto, il dono di quello che accade lì dentro, ma soprattutto di quello che essi
pensano, desiderano, spesso disperano… di fare ed ottenere, mettendoci
chiaramente, e terribilmente, a conoscenza di «cosa succede all’interno delle
carceri» italiane (Giuseppe Pullara, p.
64), soprattutto di certe carceri, nonostante Cesare Beccaria, nonostante i
diritti sanciti nella Costituzione, nonostante il “visitare i carcerati” del
cristianesimo (che, pure, nel Giubileo del 2000, aveva chiesto, inascoltate, un
gesto di “grazia”). Come la copertina di
Vauro (cf p. 13), soltanto delle voci – voci di coloro che non hanno ancora
preso, come succede ad altri, la disperata via del suicidio «davanti a tanto
ferro grigio» (p. 115). Voci che escono da una bocca che cerca di far sentire il
proprio urlo interiore, voci che attendono comunicazione e perciò vogliono
comunicare, anche da dietro le sbarre delle celle e soprattutto da dietro le
sbarre, più spesse, dell’ignoranza, del disinteresse, della connivenza con
pratiche ai limiti della tortura. Voci provenienti da lì dentro, da dove, come in altrettante stazioni di una
dolorosissima via crucis, ci si
racconta di come vengano disattesi i diritti fondamentali sanciti nella Carta
costituzionale; da dove ci si parla di ambienti igienicamente malsani, dove il
rumore del ferro è diventato l’unico rumore di fondo, dove si desidera farla
finita, quasi di essere “distaccati” dalle macchine (come chiese ed ottenne P.
Welby); da dove, nel 2007,
in 310 si poté giungere perfino al gesto eclatante, e
disperato, di scrivere al Presidente della Repubblica per chiedere addirittura «la
pena di morte in sostituzione dell’ergastolo» (p. 121, C . Musumeci), pur di
farla, in qualche modo, finita con un regime carcerario che non soltanto ti
toglie l’aria, le relazioni, gli affetti più cari – ti mutila nei sentimenti
(altro che mutilazioni genitali femminili!), ti ammala il corpo, ma soprattutto
ti toglie la mente e l’anima, ponendosi esplicitamente in contrasto, come
ricorda C. Musumeci, «con il principio della funzione rieducativa della pena»
(p. 35). E il tutto in un Paese le cui istituzioni – famiglia, stato, chiesa –
ci parlano di funzione educativa e ri-educativa, addirittura, per il decennio
2010-2020 la chiesa, di educare alla “vita buona del vangelo”! Ci racconta così
Mario Trudu l’arida risposta ufficiale a quel gesto collettivo e partecipato:
«Il due settembre 2009 il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, alla mia
richiesta di tramutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte (da
consumarsi con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) ha risposto così: “Poiché
la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla Costituzione,
si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”» (p. 119).
E di fronte a questi racconti –
spesso pugni nello stomaco a motivo delle situazioni di sopraffazione della
dignità umana che vi vengono narrate -, davvero non ci si chiede più per quali
reati o per quanti assassini o stragi si è stati, non soltanto sbattuti lì
dentro come sardine in scatola
(l’immagine è ancora di Musumeci, p. 46), ma si è stati per sempre – fine pena mai – posti, in modo coatto, in
situazione di totale impotenza (p. 65), vilipesi, conculcati, condannati ad una
morte in vita, costretti a volte – pur dovendo stare da soli per il tipo di
circuito a cui si è stati condannati – a convivere, per esempio, con uno che
fuma anche se sei allergico alla nicotina (Giovanni Farina, p. 48), a non
disporre neppure di biancheria con un minimo di pulizia solo perché sei stato
trasferito la notte del venerdì e la lavanderia del carcere resterà chiusa fino
al lunedì successivo; oppure a dover essere curato dal medico competente
territorialmente, che ti tiene in carico insieme con i tanti che vivono fuori e
non può stare tanto a sottilizzare con le tue pur legittime esigenze
odontoiatriche oppure oculistiche ed ottiche.
Non è che la nostra società
civile stia identificando «il reato con la persona che l’abbia commesso»? (G.
Pullara, p. 65); non è che, dopo «i reati di mafia all’inizio degli anni ‘90»)
(p. 9), ci si stia immunizzando contro la propria incapacità di rendere
preventivamente inutile l’illegalità mafiosa, finendo per mafiosizzare tutto,
fino a non tener più conto delle differenze, tante, dei soggetti che commettono
dei reati, pur odiosi, fino a non tener più conto di possibili alleanze (o intese) intervenute, in quegli anni, tra
cupole illegali e pezzi istituzionali dello Stato? (cf p. 129, n. 2, dove si
allude all’inchiesta di Caltanissetta su apparati statali e funzionari che
avrebbero collaborato o avrebbero stretto intese per le stragi in cui perirono,
ad esempio, Falcone, Borsellino, agenti di scorta). Non è che, continuando con
il pessimo gusto, già presente negli ambienti di mafia, di usare un gergo
religioso per le proprie mire delinquenziali, si sia finito per ricorrere a
degli strumenti normativi che, anche nel nome, invogliano ad un falso
pentimento e ad un falso perdono (cf soprattutto pp. 134-138), ovvero ad un
falso religioso? Stando anche a diversi di questi racconti, pentimento e
perdono, pur con le loro esplicite, e genuine, risonanze etico-religiose, non
fanno altro che invogliare i detenuti per mafia alla delazione, fino a spingere
addirittura ad inventare reati commessi da altri, pur di ottenere qualche
sconto e beneficio, ai sensi del 4 bis
della legge sul trattamento penitenziario (cf p. 28), il famigerato articolo
che «esclude la concessione dei benefici… e delle misure alternative al carcere
per le persone condannate per i reati di stampo mafioso… a meno che non si collabori con la giustizia» (p. 28). Ma, in tal
modo, ci ribadiscono i racconti, il collaboratore di giustizia – anche
eventualmente l’innocente –, invece di pentirsi davvero ed ottenere almeno il
perdono sociale, rischia di doversi, piuttosto, auto-accusare «di delitti che
non ha commesso» (p. 31), o di accusare chiunque gli capiti a tiro, pur di
diminuire la pena, ottenere qualche beneficio, esercitare fondamentali diritti,
bene affermati sul piano teorico, al recupero, al mantenimento delle relazioni
familiari, affettive e sessuali; come pure, rischia che i reati ascritti al
detenuto si moltiplichino «perché il reato ti viene attribuito nel corso del
processo, e non prima, in base agli sviluppi che nasceranno nel medesimo
processo dalla collaborazione dei pentiti!» (Gianni Zito, p. 31). Ecco perché,
procedendo in tal modo, il 41 bis può apparire a chi lo ha subito, come ad
Alfredo Sole, come non più nato, come forse avrebbe voluto, «per impedire che
la persona in carcere comunicasse con la propria organizzazione», bensì fatto
nascere «per vendetta. Sì, la vendetta dello Stato» (p. 33). Di fronte alla
quale non suona oscena, ma terribilmente pertinente, la domanda di Girolamo Ranesi:
«Inoltre, che cazzo ne avete fatto di tutti i soldi spesi per combattere la
mafia?» (p. 76)
Queste pagine, troppe, sono
dolorose ed infliggono dolore nel lettore; non soltanto perché parlano di
dolori fisici, di soprusi e di tante vessazioni materiali subìte dai detenuti,
o di tante sofferenze psichiche, morali, affettive e relazionali, ma perché
addolorano un esponente della società civile, quali molti di noi si ritengono,
di fronte a tante, troppe, procedure che, se non sempre rasentanti la tortura,
appaiono almeno dei trattamenti inumani, disumani, o degradanti, tanto più
odiosi perché non applicati a tutti i reati gravissimi, ma solo ad alcuni; non
a reati di lotta armata, di terrorismo, o di assassini o stupri, diciamo così,
“ordinari”, ma solamente a “straordinari” reati di mafia. Soggetti dstinati a
morire in carcere, se non si mette in cella un altro al posto tuo, insomma?
Sembra questa l’amara conclusione di un incontro riportato alle pp. 36-37, con
quei possibili profili della norma in vigore, ancora più infami in quanto
potrebbero fare, del pentitismo e del collaborazionismo, quasi un “apostolato”
(come insinua la critica di Paolo Lo deserto, p. 40), o, peggio ancora, soltanto
il mezzuccio, si fa per dire, per uscire dal carcere, per prendere soldi dallo
Stato (per sé e per i suoi), per vendicarsi dei propri nemici. Tutti
comportamenti, questi descritti, che vengono, da dentro, ritenuti,
fondatamente, dei comportamenti da Giuda
(p. 42)
I profili che ne emergono, nel
complesso, sono tanti, da tanti punti di vista e fanno apparire davvero, come
rimprovera Sebastiano Milazzo, una «funambolica retorica mediatica» (p. 86) la
cosiddetta finalità ri-educativa della pena. Mi piace evidenziarne almeno uno,
che emerge continuamente in queste pagine quasi di diario, peraltro in
connessione con l’imminente proclamazione a beato, come “martire della fede”, di
don Pino Puglisi, assassinato da un sicario per ordine della mafia di Palermo. La
verità meramente giudiziaria ci dice che quell’omicidio fu commissionato dai fratelli Giuseppe e Filippo
Graviano, per mettere a tacere un sacerdote scomodo, che, col suo ministero di
pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle
dei fanciulli, li ridicolizzava agli occhi della gente, sottraendo loro
manovalanza. Ma esiste anche una verità interiore, come mostra quel
sorriso con cui Puglisi guardò il sicario, perdonandolo. Diversi detenuti
(peccato che, in queste pagine, siano tutti uomini; sarebbe interessante guardare
anche alla percezione dal punto di vista dell’universo femminile) ci parlano,
non a caso, di processi interiori (p. 39), di cambiamenti, di avvenimenti
spirituali (per esempio, perfino la preghiera a Dio, di cui parla esplicitamente
Giovanni Lentini, p. 38). Spiragli d’infinito nel buio del male; luci nei
momenti senza fine dietro le sbarre, quando si è costretti ad essere uno dei
tanti in questo agglomerato di persone - non certo una famiglia, come si
desidererebbe - che è il carcere (p. 68). Spesso mandati sadicamente lontano
geograficamente dagli affetti più cari per mero spirito di punizione ed
afflittività; spesso impediti in qualunque manifestazione di contatto, di
comunicazione, di affettività e di sessualità (ritorna, in queste pagine, il
tema che non si dovrebbe osare di chiamare un “carcere” la vita coniugale e
familiare, se ben si pensa a cosa sia effettivamente un carcere!, cf Antonino
Sudato a p. 69). Un carcere è un ambiente, sotto questo profilo, davvero brutale,
soprattutto negli ultimi anni allorché «si sono persi alcuni valori» perfino «all’interno
delle carceri» (Ciro Bruno, p. 81) o, come ci segnala il detenuto “storico” Salvatore
Diaccioli, «oggi l’ambiente carcerario è molto cambiato, i princìpi sono pochi
e i valori nella stragrande maggioranza non sanno cosa siano» (p. 83). Chi mai
è in grado di entrare, come si dovrebbe, nel profondo dell’intimo del reo –
particolarmente di quello che sta gettato lì dentro da altro vent’anni - e
verificarne, soprattutto a distanza di anni dagli eventi delinquenziali e
mafiosi, l’avvenuto cambiamento interiore e, come insegna il Cristo di fronte
al ladrone, come ribadisce il sorriso finale di don Puglisi di fronte al
sicario che gli stava per sparare, riuscire a perdonare sempre, perdonare
tutti, un’infinità di volte? Non certamente sono in grado di farlo, ci rispondono
i detenuti del libro, i freddi esponenti della macchina della giustizia o gli
impersonali funzionari che guardano, ma non vedono (p. 92), esercitando, come
lamenta Pasquale De Feo, «le dittature delle direzioni delle carceri, del
Magistrato di Sorveglianza e di tutti gli apparati di sicurezza» (p. 93). Eppure,
nei «profondi momenti di riflessione che credo sia impossibile trovare in altri
luoghi» (Sebastiano Prino, p. 110), consentiti proprio dal carcere più duro,
non si deve a priori escludere l’intervento trasformante di Dio, prim’ancora
del perdono delle vittime dei reati e del re-inserimento sociale protetto. Non
si deve escludere, magari perché mossi dalla fede (come confessa Girolamo
Ranesi, p. 135), insieme con la presa d’atto delle proprie scellerataggini, l’eventualità
di «trovare la forza e il coraggio di darsi un’attenuante» (ivi). Anche se si è
ammazzata gente e la si è sciolta nell’acido, bisogna lasciare la possibilità
al detenuto, stavolta veramente, di “pentirsi” ed a Dio di essere un Padre che
«guarisce i propri figli con l’amore. Perché sa di perderli del tutto se li
castiga ogni giorno per un male commesso nel passato lontano» (p. 138).
Rosario
Livatino, giovane magistrato assassinato dalla mafia, annotava nel suo diario:
«Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma
credibili». Quando la nostra società deciderà di essere finalmente più
credibile, almeno in questa frontiera così delicata, ma spesso ancora così
disumana, dei «circa 1.200, sui circa 1.500 condannati all’ergastolo, cui in
Italia sono di fatto cancellati tutti i diritti e benefici previsti durante la
detenzione dalla legge per buona condotta»? (p.9).
[1]
Francesca de Carolis (a cura di ), Urla a
bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai, Prefazione di don
Luigi Ciotti, eretica speciale Stampa alternativa, Pavona (Rm) 2012, pp. 190,
euro 15,00.
* www.pasquale
giustiniani.it
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