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martedì 20 agosto 2013

DA CULLA DEL DIRITTO A CULLA DEI PECORONI

 
 

Giustizia: l'Italia, che era conosciuta come la "culla del diritto", ora ne è diventata la bara?

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di Valter Vecellio
 
Europa, 20 agosto 2013
 
Che la giustizia italiana versi in uno stato drammatico, è innegabile; e la situazione delle carceri ne è l'appendice più dolorosa e scandalosa.
"Ferragosto in carcere. Per l'uscita dalla flagranza criminale dello Stato, per l'amnistia e i referendum". All'insegna di questo slogan che descrive anche una vera e propria agenda di lavoro offerta a tutte forze politiche, Emma Bonino, Marco Pannella, Rita Bernardini, e decine di altri dirigenti radicali per il quinto anno consecutivo hanno dato corpo a un'iniziativa che prevede visite di sindacato ispettivo e raccolte delle firme sui 12 referendum radicali in molte carceri italiane. Un'iniziativa, dice Pannella, "non contro, ma a sostegno delle posizioni del ministro della Giustizia Cancellieri, del presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma, del vicepresidente della Camera Giachetti".
Si potrà o meno condividere l'iniziativa referendaria, l'opportunità o meno di questo o quel quesito; ma che la giustizia italiana versi in uno stato drammatico, è innegabile; e la situazione delle carceri ne è l'appendice più dolorosa e scandalosa. Si prenda il caso di Poggioreale a Napoli, una vera e propria emergenza sanitaria. Secondo quanto riferisce il senatore Luigi Compagna, reduce da una visita ispettiva di un paio di giorni fa, ci sarebbero "oltre 300 detenuti in attesa di ricovero e assistenza sanitaria.
C'è un'emergenza nell'emergenza. Un detenuto può aspettare anche mesi, schiacciato dalle procedure burocratiche prima di potersi sottoporre ad una chemioterapia". È evidente che tutto ciò non ha nulla a che fare con l'esigenza di garantire sicurezza alla collettività. E se in una struttura che può ospitare 1500 detenuti, ne sono invece stipati 2500, la cosa si commenta da sola.
Non è solo Poggioreale. La stessa situazione la si può riscontrare a Bologna come a Palermo, a Roma come a Torino, e un po' ovunque. Si dirà: cosa c'entrano i referendum con questa situazione? C'entrano, perché molti dei quesiti referendari toccano direttamente questioni
che hanno a che fare con la giustizia: dall'abolizione dell'ergastolo al rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo; dalla necessità di superare le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi che tanti guasti hanno provocato, alla responsabilità civile dei magistrati e la separazione delle carriere, fino a più rigidi limiti per la custodia cautelare in carcere. Si dirà che lo strumento proposto non è il più opportuno, che altre sono le soluzioni rispetto quelle offerte. Benissimo. Se ne discuta, ci si confronti, si apra finalmente un dibattito su tutto questo, e se ne rifletta pubblicamente, nelle televisioni e sui giornali.
Non potrà che essere positivo e salutare. Chi ha più filo, tesserà. Intanto salutiamo come positivo il fatto che detenuti, gli ultimi tra gli ultimi, si appropriano di uno strumento costituzionale come il referendum, e invece di fare ricorso alla violenza, per l'affermazione di diritti che sono di tutti, si "armano" di matita e moduli. Già questa è una conquista.
Ma veniamo alla questione che urge e preme, e che "il Ferragosto in carcere" pone in evidenza: la giustizia. Decine di film e telefilm come il classico "Perry Mason", ci hanno fatto credere - più propriamente si dovrebbe dire sognare - in una giustizia rapida, efficiente, dove le udienze si succedono una dietro l'altra. Chiunque abbia avuto a che fare con i tribunali italiani sa che la realtà è ben diversa. Quando si aprono gli Anni Giudiziari, le relazioni dei Procuratori Generali denunciano sempre gli stessi problemi, le stesse doglianze: anno dopo anno si denuncia la lunghezza dei processi, l'incredibile numero di procedimenti prescritti, la scarsità di mezzi e personale.
Per la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo l'Italia è una sorta di sorvegliato speciale: a causa delle ripetute violazioni accertate nel solo 2012 il nostro paese dovrà pagare la bellezza di 120 milioni di euro di indennizzi, la cifra più alta mai sborsata da uno dei 47 stati membri del Consiglio d'Europa. Il nostro Paese è nel mirino per quella che viene definita "l'irragionevole durata dei processi", che riguarda oltre la metà dei ben 14.500 ricorsi pendenti. Per dare un'idea: un processo civile in Italia dura tre volte di più che in Germania, e il 70 per cento degli altri paesi. Dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Nils Muisnieks, un lettone di formazione anglosassone, giungono parole severe: "Solo un cambiamento radicale della cultura giudiziaria può accelerare i tempi dei tribunali italiani".
Processi lunghi che scoraggiano il cittadino, e minano il rapporto di fiducia con la giustizia. La durata media di un processo penale è di otto anni e tre mesi, il doppio del tempo che serviva nel 2010. Ma il 17 per cento dei casi può richiedere anche più di 15 anni. Ancora peggio quello che accade in ambito civile dove il 20 per cento dei procedimenti si protrae dai 16 ai 20 anni. È caso davvero di dire: Giustizia lumaca. Soprattutto se si fa il confronto con quello che accade in altri paesi. In Italia, solo per il primo grado un contenzioso civile chiede 492 giorni, 289 giorni in Spagna, 279 giorni in Francia, 184 giorni in Germania. In secondo grado la media sale a 1.267 giorni, oltre 3 anni.
Pesante anche la situazione presso le corti d'Appello: il settore penale registra un costante aumento della durata dei procedimenti, con 998 giorni: 194 in più dal 2008 e ben 213 dal 2006. E volete sapere, in media naturalmente, a quanto ammontano i giorni di attesa della sentenza per far rispettare un contratto? Se vivete in Francia bastano 390 giorni. In Germania dovete attendere 4 giorni di più. In Regno Unito impiegano 399 giorni. In Italia? In Italia ne occorrono almeno 1.210.
La giustizia lumaca costa alle imprese qualcosa come circa 2 miliardi e 300 milioni l'anno. Il costo medio sopportato dalle imprese italiane è di circa il 30 per cento del valore, contro il 19 per cento della media OCSE. Proviamo a quantificarli, i costi della mancata giustizia civile. Se per le procedure di fallimento avessimo la durata che hanno in Germania, durata che è inferiore di un terzo rispetto che l'Italia. Potremmo risparmiare 1,2 miliardi l'anno. Se in generale i tempi della giustizia civile si riducesse almeno dell'1 per cento, noi potremmo ottenere un decimo di punto di Pil, 1,6 miliardi.
Con queste condizioni di sostanziale incertezza del diritto nella proprietà e nella possibilità di potersi vedere riconosciuti i propri diritti, in un simile contesto, fare "impresa" è sempre più difficile. Una situazione che da una parte disincentiva l'investitore straniero a venire in Italia; e, al contrario, incentiva l'imprenditore italiano ad andare all'estero. D'altra parete, se un investitore può scegliere tra Italia, Francia, Germania e Inghilterra, dove non solo la giustizia civile è molto più efficiente, perché si dovrebbe venire in Italia? E infatti il risultato è che noi abbiamo una distanza rispetto a paesi come Spagna e Germania, del 50 per cento in termini di afflusso di investimenti.
Non solo. I detenuti in custodia cautelare nelle carceri italiane sono circa 68mila. Il 42 per cento è in attesa di giudizio definitivo, sconta una pena prima della condanna. La metà di questo 42 per cento verrà dichiarata innocente. C'è chi sconta ingiustamente, c'è chi non sconterà mai: ogni anno circa 165mila fascicoli vanno in prescrizione, di fatto un'amnistia strisciante e quotidiana. Un colpevole che non pagherà mai la sua colpa, un cittadino che ha subito un torto che non sarà mai risarcito. Per lo Stato il tutto si traduce in uno spreco di circa 84 milioni di euro l'anno, calcolando prudentemente che ogni processo che va in fumo costi 520 euro.
Torniamo all'iniziale questione: perché Ferragosto in carcere? Italia culla del diritto, si diceva un tempo. Perché non sia, come oggi, la sua bara.
 

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