Translate

giovedì 5 settembre 2013

Simone Mariotti

Come per gli investimenti, per riformare la giustizia 

l’importante è partire

05-09-2013
Si narra che durante una conferenza sugli investimenti che si svolse di molti anni una giovane ragazza chiese a un relatore: “Ho appena ereditato una somma da mia nonna. Qual è il miglior periodo per investire?”. L’interrogato era il leggendario Sir John Templeton, fondatore della omonima e storica società, che con grande naturalezza rispose con una vecchia battuta: “Mia cara, il momento migliore per investire è quando si ha il denaro per farlo”.
Ho pensato a questo aneddoto leggendo un editoriale del Sole24Ore di qualche giorno fa che parlava dei tentativi ancora troppo scarsi che si fanno per trasmettere un po’ di educazione finanziaria nei ragazzi a scuola.
Anche io ho avuto qualche piccola esperienza del genere, ma osservando quel che accade su altri fronti mi chiedo se questi sforzi servano davvero a qualcosa o se non sia più utile insegnare un valore ben più importante, e cioè la capacità di estraniarsi dai rumori di fondo costituiti dal bombardamento mediatico attuale, e riscoprire la validità del dibattito in cui a essere valutate sono le idee in sé (siano esse di investimento, di politica, di lavoro, ecc.) e non chi, per un motivo o per un altro, le sostiene.
La battuta di Templeton risale a decenni fa (apparve per la prima volta sulla stampa negli anni venti), ma la domanda spontanea che mi sento fare ancora oggi dalla maggioranza delle persone che si rivolgono a me è ancora quella. Una domanda la cui risposta adeguata presupporrebbe la conoscenza del futuro, comprensiva di una analisi accurata e precisa di almeno un centinaio di parametri, nonché la stima del comportamento di altrettante persone influenti (dai capitani di industria ai banchieri centrali, dai politici ai terroristi) sapendo magari anche la data del prossimo cataclisma, della nuova grande scoperta minerarie o scientifica.
Invece investire è, soprattutto, iniziare. Iniziare a costruire un cammino, con un percorso da costruire e adattare valutando le situazioni man mano che si presenteranno, senza schemi precostituiti, formule magiche, o quant’altro. Senza sposare una “religione” o un’altra.
Ho pensato a queste cose anche leggendo uno bel commento di Pierluigi Battista di un paio di giorni fa a proposito dei referendum sulla giustizia proposti dai Radicali (in particolare quello sulla responsabilità civile dei magistrati) che stigmatizzava la maniacale suddivisione oramai cronica in buoni e cattivi assoluti, diventata uno schema politico italiano assai mediocre.
Per dire quanto sia fazioso, schiacciato sul presente, incurante dei princìpi”, scrive Battista, “il politicantismo di oggi pretende che le firme per il referendum dei Radicali sulla responsabilità civile dei magistrati siano un frutto tardivo del berlusconismo: ma nasconde il fatto che nel 1987 un altro referendum, sullo stesso tema, ebbe il consenso di 20 milioni e 770 mila italiani, pari all’80,2% dei votanti (alle urne si recò il 65,1% degli aventi diritti il voto)”.
E 26 anni fa a sostenere quello stesso referendum di oggi, stravinto e poi tradito grazie all’abitudine indolente degli italiani alla non democrazia, vi era un tale schieramento trasversale con esponenti della cultura e della politica di ogni parte non certo identificabili oggi, ironizza Battista, “come Berlusconiani ante litteram”.
Ma nel manifesto-appello per il SI a quel referendum del 1987 erano presenti anche diversi magistrati. Uno di questi era Franco Marrone, che proveniva dalle fila di Magistratura Democratica, di cui si riportava una dichiarazione: “In questo referendum non c'è nulla contro noi giudici”. Marco Ramat era invece proprio uno dei fondatori di Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra della magistratura. Deceduto un paio di anni prima, di lui e del suo lavoro in quel manifesto era riprodotto un brano di un suo importante articolo del 1979 intitolato “E’ insostenibile l’immunità del magistrato”: «Secondo questa concezione il magistrato tanto più è indipendente quanto meno è responsabile per danni di fronte al cittadino. Io sono più vicino all’idea che Achille Battaglia esprimeva nel libro “I giudici e la politica”: E’ tipico dei regimi democratici avere i magistrati responsabili per i danni causati ai cittadini in conseguenza di loro fatti illeciti: è tipico invece dei regimi autoritari che i magistrati siano sottratti a questa responsabilità, perché il potere fa pagare tale protezione ai magistrati legandoli di più a se stessi, e cioè rendendoli meno indipendenti».
E così qualcuno a sinistra ogni tanto si ferma a pensare, a riflettere su quanto sia assurdo lasciare a Berlusconi battaglia sulla giustizia, che lui tra l’altro non ha mai veramente pensato di riformare. E mentre leggo le solite stolte ingiurie a Pannella, reo di voler salvare Silvio, che però firma anche i questi che mirano ad abolire delle sue leggi (droga e immigrazione) permettendo il dibattito su quelli che dovrebbero essere temi cari al PD, ci scappa pure la notizia della cacciata dei banchetti radicali dalla festa del PD a Cortona, dove peraltro erano stati invitati.
Torniamo a parlare del merito delle cose, e a firmare dei referendum che sbloccherebbero una tragica situazione della giustizia che da 26 anni tutti dicono di voler riformare ma che, come la ragazza che interrogava Templeton, nessuno tocca pensando a quando sia meglio farlo, invece che iniziare a farlo davvero.
*Da “La Voce di Romagna”

Nessun commento:

Posta un commento