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domenica 6 luglio 2014



Zoom immagineI tentacoli della mafia, metastasi
occulta che intossica la società
di Guglielmo Colombero
Da Armando, l’indagine lucida e inquietante di Marcello La Rosa
sui perversi e giganteschi ingranaggi del crimine organizzato

«Il mondo dell’omertà e della paura si trasmette con la semplice osservazione, col semplice percepire che tende a conformare ed educare, sulla base di una mentalità acquisita a livello inconscio che ci proietta in una spirale ideologica all’interno della quale i singoli membri di una comunità, benché non affiliati, sono inseriti inconsapevolmente sin dalla nascita metabolizzando sentimenti di paura ed omertà in maniera silente». Una constatazione iniziale, questa, particolarmente significativa ne Il fenomeno mafioso. Il caso Messina (Armando editore, pp. 320, € 18,00), che ci fornisce la chiave di lettura dell’intero volume. L’autore, Marcello La Rosa, è dottore di ricerca presso l’Università di Messina e, con rigore scientifico coniugato alla passione giornalistica nella ricostruzione degli eventi, getta la sonda nei meandri oscuri e terribili della fenomenologia mafiosa. L’analisi è fredda, asettica: svela le infrastrutture delle cosche gettando un fascio di luce sui loro meccanismi operativi: «le organizzazioni criminali rispecchiano le modalità organizzative dei grossi gruppi commerciali, seguendo la loro struttura gestionale ed organizzativa con competenze diversificate che si estendono in differenti ambiti della società».

La violenza intimidatoria come perverso ascensore sociale
La prima parte del saggio, Cronistoria delle guerre di mafia, focalizza l’indagine sulle lotte intestine fra i clan mafiosi messinesi che si sbranano a vicenda a suon di omicidi. «Spesso il killer di mafia, al contrario di quello che comunemente si pensa, uccide per niente, solo per prestigio e per acquisire autorevolezza all’interno della consorteria criminale», osserva La Rosa sottolineando uno degli aspetti più aberranti della mentalità mafiosa: una vera e propria etica rovesciata, in cui la vita umana non solo non riveste alcun valore, ma viene addirittura soppressa in aderenza a un machiavellico disegno di egemonia conquistata attraverso lo spargimento di sangue, dietro il quale si intravede un terrificante vuoto culturale. «Vi è un microcosmo umano condizionato dalla mafia non con la violenza delle armi, ma con le armi di una sub-cultura che si fa spazio tra l’analfabetismo, il presunto rispetto e i falsi ideali. Spesso la Mafia è vista come un riscatto, rispetto al destino di miseria ed emarginazione delle periferie urbane a cui molti sono in qualche modo destinati». L’agghiacciante monotonia, quasi rituale, di agguati, attentati, sparatorie, esecuzioni sommarie, va a comporre un affresco sul quale l’autore fissa immagini ricche di tragica espressività: «L’obiettivo stavolta non poteva sfuggire, forte dei fallimenti passati, il gruppo di fuoco intensificò la forza distruttrice delle proprie armi, scaraventando sull’auto in transito l’ennesimo diluvio di piombo che si confondeva col rumore dell’acqua, tanto che i presenti rimasero incantati e stupiti dal rumore del piombo che rimbalzava tra le lamiere accompagnato dalla triste melodia creata dal frantumarsi della scarica di grandine contro il suolo».

La mafia: un Moloch divoratore di risorse e di futuro
La seconda parte del saggio, Organizzazione e approvvigionamento del denaro, focalizza un interessante intreccio tra industria e impresa criminale. Ovviamente, il cardine indispensabile di qualsiasi lucro delittuoso è la presenza di un capo indiscusso dal quale partono le direttive: «La Mafia nel suo complesso, secondo la divisione weberiana, rientra nel modello di potere carismatico, in quanto al capo, che si identifica con una persona, viene riconosciuta una qualità straordinaria e talvolta sovrumana (forza, coraggio, intelligenza). Per questo, i seguaci giustificano la loro disponibilità all’obbedienza, in genere incondizionata e totale, tanto da rischiare direttamente la vita sia per la protezione del capo che per tutte le altre attività dell’organizzazione». Narcotraffico, estorsioni, rapine, usura, gioco d’azzardo sono le principali fonti di guadagno della criminalità organizzata, e La Rosa delinea i contorni di questa atroce tirannide con estrema crudezza, evocando quasi una regressione feudale nella prevaricazione dei boss mafiosi che «con la forza della presunzione incutevano agli indifesi ed inermi malcapitati, un’arroganza al di sopra dell’immaginazione che permetteva loro di comportarsi come se fossero i padroni incontrastati della città, con diritto di vita e di morte su tutti i compaesani-sudditi». Fondamentale, a questo scopo, il controllo del territorio: «La forza della sopraffazione, sempre e comunque sbagliata ed inaccettabile, è figlia della sottocultura mafiosa che pervade le nostre mentalità rese tetre dal costume ignobile che ci tramandiamo da generazioni, tra ignoranza ed incapacità di gestione e comprensione dei fenomeni che ci circondano. Come ogni sistema, si crea l’idea del nemico esterno che chissà per quale motivo debba venire ad inquinare il nostro orticello; da quest’idea nasce la paura che si rigenera all’infinito, che a sua volta fa nascere la domanda di protezione verso l’esterno. Attraverso questo perverso ragionamento si finisce per affidare, con gioia, l’anima al diavolo». Le motivazioni storiche di questo processo degenerativo sono puntualmente messe in luce da La Rosa: «Storicamente, in un contesto antropologico in cui la violenza costituisce una risorsa largamente diffusa, i sodalizi mafiosi sono le uniche entità capaci di subentrare al potere feudale dei baroni nel periodo del loro declino. Ponendosi come organizzazioni politiche alternative a quella statale, le formazioni mafiose forniscono quei servizi di protezione, mediazione ed integrazione sociale che né i funzionari dei Borboni né quelli dei Savoia erano in grado di espletare». La conclusione di La Rosa è lucidamente amara, forte come un pugno nello stomaco, impietosamente realistica, depurata da qualsiasi retorica ampollosa: «In pratica il boss di mafia è paragonabile a una Divinità in terra, egli ha il rispetto di tutti, ha il dono di guadagnare senza lavorare, spesso è assunto fittiziamente dalle stesse ditte a cui garantisce “protezione”, dirige grossi giri di capitali, coordina grandi traffici di droga, tutti i concittadini lo rispettano e lo temono, decide chi deve aprire un’attività e chi deve chiuderla, è capace di trovare un posto di lavoro al padre di famiglia disoccupato o di fare laureare il figlio svogliato, è detentore del potere supremo per eccellenza: la vita, se lui vuole tu vivi oppure…».

Guglielmo Colombero

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