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domenica 23 novembre 2014




Accadde su una nave della marina militare  nel 1958

ASSASSINATO IL COMANDANTE

Il marinaio  si scagliò sull'ufficiale addormentato colpendolo con una sbarra di ferro ad uncino –

 

La tragedia a bordo della corvetta "Pomona,, attraccata nel porto di Napoli.

 

L’assassino è  il sottocapo segnalatore Giovanni Spaziano, di 22 anni, da Marzano Appio in provincia di Caserta –

 

 

Condannato all’ergastolo  -  pena confermata anche dalla Cassazione – Ridotta a 30 anni in Appello

 

Dalla cassaforte mancavano quattro milioni e mezzo –

 

La madre del nobile ufficiale perdona il marinaio assassino



IL DELITTO
      Il cadavere del tenente di vascello marchese  Cambiaso-Doria, da Genova fu trovato nella sua cabina, con il capo squarciato da una orrenda ferita.   Dalla cassaforte  mancavano quattro milioni e mezzo. Immediate  scattarono  le  inchieste da parte del Comando della Marina Militare e da parte della Procura della Repubblica del Tribunale di Napoli. La nave fu circondata da sentinelle e all’equipaggio, consegnato, e furono prelevate le impronte digitali. Il ministro della Difesa dell’epoca,  Paolo Emilio  Taviani,  incaricò  un ammiraglio di accertare se il delitto era  stato compiuto a scopo di rapina o di spionaggio: nel forziere vi erano, infatti, cifrari e ordini operativi.
      Il fatto,  mai accaduto a memoria d’uomo nella storia della Marina militare Italiana, si era  verificato all’alba del 24 febbraio del 1958, a bordo della corvetta Pomona, il cui comandante, tenente di vascello era  stato assassinato nel suo alloggio a scopo di rapina. Bettino Negrotto Cambiaso Doria, uno dei nomi più illustri della aristocrazia genovese, aveva 36 anni. Egli stava compiendo uno speciale corso di addestramento prescritto per tutti gli ufficiali del  “ruolo di vascello”, per questo motivo aveva ricevuto il comando della corvetta, della stazza di 800 tonnellate, in forza alla Scuola Comando di Augusta, dipendente dallo Stato Maggiore della Marina era  giunta in rada venerdì mattina, assieme ad altre navi, che  avevano  attraccato  parte al molo Pisacane  nell’area della base militare,  e parte fuori al molo del Carmine,  dove appunto si trovava  la Pomona.
     La scoperta del delitto avvenne la  mattina alle 10. Poiché verso le 11 gli equipaggi dovevano trovarsi radunati alla base per la celebrazione della Messa officiata da un cappellano militare, il comandante in seconda, non vedendo giungere nel quadrato ufficiali il tenente di vascello Negrotto-Doria, preoccupato chiedeva al marinaio addetto all’alloggio se avesse visto il comandante. Il marinaio precisava che il comandante non lo aveva chiamato, e manifestava inoltre la sua perplessità per questo fatto, del tutto insolito. L’ufficiale, allora, allarmato, si recava all’alloggio bussando più volte. Non avendo ricevuto risposta, dopo essersi consigliato con gli altri colleghi, decideva di fare sfondare la porta dal fabbro di bordo.
     Appena aperto l’uscio, uno spettacolo orribile si presentava: il tenente di vascello, che indossava il pigiama, giaceva di traverso sul letto insanguinato. Sulla sua fronte vi era un orribile squarcio che giungeva fino all’orecchio sinistro, quasi staccato. I colpi che avevano ucciso il comandante della nave erano stati vibrati con tale selvaggia violenza che brandelli di materia cerebrale erano schizzati intorno, macchiando la parete a sinistra del letto. Uno sguardo nella stanza faceva capire senza possibilità di dubbi il movente.  Infatti, nell’alloggio del comandante -  come prescritto – vi era la cassaforte blindata, un modello speciale caratterizzato da particolari doti. La stessa  conteneva, oltre al denaro, codici cifrati e altri documenti segreti militari.  Chi aveva  compiuto il barbaro omicidio doveva essere ben pratico dell’ambiente, perché sapeva dove il comandante teneva le chiavi della cassaforte, che apparivano infilate nella serratura: lo sportello era aperto e data la confusione nell’interno era chiaro che qualcuno vi aveva frugato in gran fretta. Appena constatato l’atroce fatto, il comandante in seconda ordinava che nessuno scendesse da bordo ed informava il comandante della formazione, capitano di vascello Eugenio Henke, il quale immediatamente, in sicurezza, dovendo custodire la base ai poteri conferitigli  dal Regolamento, iniziava le prime indagini, comunicando al tempo stesso l’accaduto all'Ammiragliato.
     Poco dopo giungevano a bordo il maggiore generale Bernardo Pacella, capo della Procura Militare, insieme al sostituto colonnello Ugo Foscolo; il capitano dei carabinieri Vittorio Dolzani, comandante lo speciale nucleo di polizia dell’Ammiragliato; il Procuratore della Repubblica Nicola Ranieri; il medico legale Alberto Dente e il commissario dirigente il servizio di polizia segnaletica della Questura, Vincenzo Carfora. Le prime indagini accertarono  che la notte precedente il comandante  si era trattenuto a cena fino alle 22 con alcuni ufficiali di altre unità in un elegante ristorante di S. Lucia. Quando era rientrato, aveva fatto un giro sul ponte ed era stato visto dalle tre sentinelle della Pomona disposte due a poppa e due a prua.
     Un’ispezione amministrativa, compiuta, subito dal colonnello Ugo Pesce, del Corpo di commissariato, accertava la mancanza nella cassaforte di circa 5 milioni di  lire. La cosa strana però era che, mentre tutte le tasche dell’uniforme  del comandante ucciso apparivano rovesciate, v’era intatta in un cassetto una borsa contenente gioielli da donna di ingente valore, di proprietà dell’ufficiale che viveva separato dalla moglie.
     La morte, secondo il medico legale, risaliva a cinque ore prima, il che significava che il delitto era  accaduto alle 5 del mattino di domenica. In base agli ordini del capitano di vascello Eugenio Henke che per legge, essendo il crimine accaduto a bordo, aveva  i pieni poteri di ufficiale di polizia giudiziaria, tutto l’equipaggio  - composto di 50 persone rimase  consegnato. Due marinai  che erano scesi alle 7 dalla corvetta per un breve permesso erano  rientrati regolarmente. Alcune sentinelle erano state poste sulla nave, per impedire che qualcuno scendesse e altre a terra, mentre vari motoscafi con carabinieri sostavano sottobordo in modo da isolare completamente l’unità.
     Mentre il cadavere dell’ufficiale era  stato trasportato all’ospedale di Marina di Fuorigrotta. Il capitano di vascello Henke  ordinava la presa delle  impronte digitali di tutti i componenti l’equipaggio della Pomona senza distinzione di grado.  
L’ASSASSINO IDENTIFICATO E ARRESTATO 
  Secondo una primo dispaccio dell’Ansa,  l’assassino del tenente di vascello era un sottufficiale arrestato nella notte. Il denaro scomparso dalla cassaforte era stato recuperato nella casa del colpevole, che dopo il delitto era sceso a terra in permesso. Secondo l’agenzia Ansa si trattava del sottocapo segnalatore Giovanni Spaziano, da Marzano Appio, in Provincia di Caserta. Da un rapido esame del registro matricolare, risultava che nella stessa mattinata di domenica due marinai avevano lasciato la nave per recarsi in permesso, a terra. Tra questi, il sottocapo segnalatore Giovanni Spaziano. I carabinieri si recarono nel Comune, di Marzano Appio, nei pressi di Caianello, dove risiedeva  la sua famiglia per perquisire la casa dello Spaziano. I militi ricercavano il denaro, circa 4 milioni e mezzo di lire, che risultava scomparso dalla cassaforte posta nella cabina del tenente di vascello ucciso. Questa prima perquisizione non dava alcun risultato, tuttavia il sottocapo segnalatore veniva fatto tornare a bordo dove nel frattempo tutto l’equipaggio era sottoposto ad un serrato interrogatorio. Nel pomeriggio i carabinieri si riportarono nuovamente  nella sua abitazione e dopo un altro sopraluogo ritrovarono  l’intera refurtiva.  
 E mentre lo Spaziano accusato di omicidio a scopo di rapina veniva trasferito nel carcere di S. Eframo, giungevano a Napoli alcuni familiari del tenente di vascello Bettino Negrotto Cambiaso: la madre marchesa Fiammetta Doria, il fratello Giorgio, lo zio Ambrogio, la marchesa Rosetta Bombrini e la signora Dora Pellegrinelli. Essi, accompagnati dal capo di Stato Maggiore dell’Ammiragliato, capitano di vascello Fernando Goretti, si recarono  all’ospedale di Marina a Fuorigrotta, dove la salma dell’ufficiale, poi rivestita dell’uniforme scura dalla stessa madre, era  vegliata nella camera ardente da un picchetto d’onore.
       Dopo la funzione religiosa, la bara partì diretta a La Spezia, per essere tumulata nel recinto di quel cimitero riservato agli appartenenti alla Marina Militare. In segno di lutto tutte le navi da guerra italiane  che erano nel Porto di Napoli  tennero per un giorno la bandiera a mezz’asta.


L’AGGHIACCIANTE CONFESSIONE DELL’ASSASSINO DEL  TENENTE
 I cronisti di nera che seguivano il caso avevano notato che alle tre di  quella notte, due velocissime auto scure erano  ritornate alla caserma “Pastrengo”, in piazza Monteoliveto: dentro v’erano un ufficiale del carabinieri, il magg. Mario De Maria, comandante del gruppo interno; il maresciallo Aniello Belluomo, dirigente la squadra speciale investigativa e vari sottufficiali e militi della Benemerita. Ritornavano da Marzano Appio, in provincia di Caserta, dopo  aver compiuto una lunga perquisizione nella casa di Giovanni Spaziano.   La piena e spontanea confessione dell’assassino si ebbe poco dopo le due di quella notte, in un ufficio della Base navale, in via ammiraglio Acton.
“Il comandante stava dormendo: pensai di ucciderlo prima che aprisse gli occhi lo colpii con la sbarra... Aprii piano la porta dell’alloggio. L’oblò era chiuso e coperto dalla tenda, ma dentro la cabina v’era un chiarore fioco. Avanzai piano verso la giacca e presi le chiavi, fra cui v’era quella della cassaforte. Fu a questo punto che il comandante  ebbe come un gemito e si mosse. Lo guardai. Era sempre col viso girato verso la parete a destra. Ancora un istante, però, e forse si sarebbe svegliato. Allora mi avrebbe visto. Così, prese dallo spavento, pensai di ucciderlo prima che aprisse gli occhi. Avevo portato con me una sbarra di ferro. Con quella lo colpii, non ricordo quante volte...”.

      La perizia del medici legali Alberto Dente e Vincenzo Maria Palmieri era stata precisa  su tutto: “Ben dieci colpi vibrati con selvaggia violenza sul capo del comandante della corvetta”. Poi il “graduato” illustrò il piano che aveva preparato per compiere il delitto. In settimana chiese e ottenne un permesso per la giornata di domenica. La mattina del giorno festivo, alle 5,30, dopo avere ucciso il comandante, lasciò la nave. Aveva gli abiti spruzzati di sangue e per nascondere le macchie si pose addosso l’impermeabile d’ordinanza, e a quell’ora, ancora col buio, nessuno lo notò. Si recò a casa sua a Marzano Appio, in provincia di Caserta, con sotto il braccio un fagotto. Sembrava biancheria, ma dentro c’erano 4 milioni e 600 mila lire presi dalla cassaforte. A casa, si cambiò e all’insaputa di tutti lavò la camicia inzuppata di sangue, lasciandola quindi in una bacinella. Nascose il pacco di  banconote nella cappa del camino, sapendo che non lo si usava. Nella stessa giornata, alle ore 19, ritornò a Napoli sulla corvetta.  “Volevo migliorare per sempre la mia posizione”. Questa la paradossale risposta del sottocapo Giovanni Spaziano alla commissione istruttoria che lo interrogava chiedendogli perché avesse ucciso il suo comandante. Il graduato ha aggiunto che, desiderando sposarsi, aveva pensato che il colpo alla cassaforte avrebbe potuto risolvere tutte le sue difficoltà.  .
    
    L’assassino aveva appena finito di confessare allorquando  i carabinieri si recavano a Marzano Appio, irrompendo nella casa dello Spaziano, ove dormivano i suoi unici parenti, il padre Alberto, falegname specializzato nella costruzione delle botti, e la madre Emilia. Essi ignoravano tutto. Svegliati di soprassalto, seguirono  stupiti i carabinieri che, senza esitare, frugando con un bastone nella cappa del camino, avevano fatto cadere un involto. Apertolo, ne uscivano biglietti e biglietti di banca di vari tagli, in tutto per 4 milioni e 600 mila lire. Poi i carabinieri, dopo avere interrogato i due vecchi, se ne andarono via lasciandoli, là, come inebetiti.
       Nel contempo la Procura militare della Repubblica aveva  escluso la celebrazione del “processo per direttissima”, ma aveva  confermato che essendo ormai tutto ben chiaro, data l’efferatezza del crimine e l’enorme impressione che esso aveva prodotto nell’opinione pubblica, il giudizio sarebbe stato  fatto a breve,  innanzi al Tribunale Militare territoriale di Napoli.   Lo Spaziano, rintracciato al suo paese, Marzano Appio, in provincia di Caserta, quando vide giungere la macchina si dominò molto bene, salutò il padre Alberto, che fa il falegname, e la madre Emilia e durante il percorso fu persino gaio e loquace. Nel frattempo i carabinieri di Marzano Appio, telefonicamente avvisati da Napoli, si recarono dai genitori dello Spaziano e domandarono ad essi se il figlio non avesse per caso lasciato una certa somma. I due risposero negativamente. Poiché lo Spaziano era fidanzato con una giovinetta, Teresa Di Bella, di anni 15, figliola di un ex-appuntato della Benemerita, si ritenne che una domanda rivolta al vecchio carabiniere avrebbe forse avuto maggior successo. E così fu in realtà. Il futuro suocero dello Spaziano disse di avere saputo una strana cosa: il fidanzato della figlia aveva lasciato in consegna a Teresa 150 mila lire, pregandola di nascondere la somma.
     Era già un indizio. Un secondo indizio fu appreso indagando come lo Spaziano era venuto in paese, giacché di domenica le corriere non funzionavano. Si seppe che da Napoli aveva successivamente noleggiato due auto pagando ognuno degli autisti con un biglietto da 10 mila lire senza prendere il resto. Come se tutto ciò non bastasse furono anche sue le impronte rilevate nell’alloggio dell’ufficiale.
      Quando il graduato tornò sulla corvetta gli si chiese a bruciapelo quanto avesse in tasca. Rispose: “Nove mila lire”. Una perquisizione immediata permise di accertare che nel portafogli teneva invece 32 mila lire. E ben 18 mila erano in biglietti da 500 nuovi, tenuti fermi con una fascettina di quelle che usano gli uffici della Tesoreria del Commissariato. Allora fu fermato. Anche per evitare reazioni dei suoi compagni sdegnati dall’atroce crimine, si ordinò che scendesse dalla corvetta e fu rinchiuso nella camera di sicurezza della base navale dove proseguirono gli interrogatori.


      Rivelò tutti i particolari del piano premeditato e attuato. Egli sapeva che il comandante la notte non chiudeva la porta del suo alloggio, tenendo le chiavi nella serratura. Infilati i guanti d’ordinanza di pelle nera, avendo ai piedi solo delle calze di lana per non lasciare impronte neanche sul pavimento ed evitare ogni rumore, si armò di una pesante sbarra di ferro con punta unghiata e ricurva usata per aprire i boccaporti incastrati dalla salsedine. Girò la maniglia ed entrò. Nella cabina vi era un lieve chiarore proveniente dalle mille luci del porto - globi delle banchine, fanali dei piroscafi - attraverso il vetro dell’oblò pur chiuso e velato dalla tendina di tulio. All'improvviso, udendo uno scricchiolio, il comandante della corvetta emise un flebile gemito e si girò. Lo Spaziano, che s’era chiusa alle spalle la porta, vibrò il primo colpo. L’ufficiale ebbe un sussulto, ma non potè reagire. I colpi si susseguirono a ritmo selvaggio. Dopo un po' l’assassino si fermò ansante ed accese la luce. Il sangue, spruzzato sulle lenzuola, lungo le pareti, sopra i suoi stessi abiti era tanto che egli si lordò tutti i guanti. Così se li tolse e per aprire la cassaforte senza lasciare tracce mise quelli bianchi dell’ufficiale. Poi prese il mazzo di chiavi, le provò una ad una, trovò la buona e frugò nella celletta blindata. V'era anche una borsa con dei gioielli. Ma preferì lasciarli al loro posto pensando che ognuno di essi avrebbe costituito una pista. Quindi spalancò l’oblò, gettò a mare la sbarra, i guanti, aprì la porta, la rinchiuse e lanciò nel discarico d’un servizio igienico le chiavi.
     Il resto è noto. I genitori dell’omicida, che fino al pomeriggio ignoravano la verità - come non la conosceva ancora il fratello Antonio, sergente carrista a Bolzano – rimasero  schiantati dal dolore. La madre, in un momento d’angoscia, tentò  di suicidarsi, lanciandosi a capofitto da un balcone. Circa i gioielli, è stato chiarito che essi appartengono alla moglie del comandante in seconda, il sottotenente di vascello Massimo Pirozzi. La signora, trasferendosi da Augusta li aveva consegnati al marito perché li custodisse e questi, a sua volta, aveva chiesto al comandante Negrotto Cambiaso di porli nella cassaforte. 
LA MADRE DELL'UFFICIALE PERDONA IL MARINAIO ASSASSINO

  La marchesa Fiammetta Doria Cambiaso, madre dell’ufficiale, dì marina ucciso dal sottocapo Giovanni Spaziano, ha inviato a Marzano Appio, in provincia di Caserta, una lettera di perdono per l’assassino del figlio, diretta all’altra madre, quella dell’omicida. Il processo al graduato non potrà svolgersi in marzo innanzi tutto perché la difesa chiederà certamente una perizia psichiatrica d’ufficio, oltre a quella di parte. In secondo luogo si deve risolvere un delicato problema procedurale. La legge   ha modificato l’art. 264 del Codice penale militare di pace, stabilendo che qualora una persona venga imputata per due reati, uno di competenza della magistratura militare e l’altro di quella ordinaria, è questa che dovrà giudicare per entrambi. La stessa legge stabilisce però che in taluni casi si può chiedere la separazione dei processi. E poi c'è l'art. 281 del Codice penale militare di pace, il quale precisa che se una persona viene incriminata per due delitti, dei quali uno di competenza del Tribunale militare di bordo e l’altro della Magistratura ordinaria, allora è il Tribunale militare territoriale che diventa competente per entrambi. La Procura militare di Napoli ha chiesto che il sottocapo Giovanni Spaziano venga giudicato due volte, una per  insubordinazione con omicidio  davanti al Tribunale militare competente per territorio, e una seconda per rapina  dai giudici ordinari. Si attende ora la risposta che sarà data dalla Cassazione a sezioni riunite.






RISOLTO IL CONFLITTO DI COMPETENZA  L'ASSASSINO DEL "POMONA,, PROCESSATO IN CORTE D'ASSISE
 La Cassazione ha confermato la priorità della magistratura ordinaria su quella militare il sottocapo segnalatore  verrà giudicato dalla Corte d’Assise e non dal Tribunale militare. I magistrati delle Sezioni Unite penali della Cassazione hanno confermato il principio - già sancito recentemente da una decisione della Corte Costituzionale - per cui qualora vi sia connessione fra un reato militare ed uno comune, competente a giudicare può essere soltanto l’autorità giudiziaria ordinaria. Il problema è stato sollevato dal Procuratore militare presso il Tribunale militare di Napoli una settimana dopo il delitto e la identificazione del colpevole.  
       Giovanni Spaziano venne accusato di insubordinazione con violenza nei confronti di un superiore (reato che è punito dal codice penale militare con l’ergastolo e la degradazione), con l’aggravante di essere un graduato e di aver compiuto il delitto a bordo di una nave militare, e di rapina. Se non che i magistrati della Cassazione non sono stati del medesimo avviso ed hanno stabilito che Giovanni Spaziano venga giudicato da una normale Corte d’Assise competente per territorio (e cioè quella di Napoli) perché - hanno sostanzialmente spiegato - la competenza per i procedimenti relativi a reati comuni connessi a procedimenti relativi a reati militari commessi da appartenenti alle forze armate è, in tempo di pace, dell'autorità giudiziaria ordinaria.  


UN PICCOLO DEBITO TRASFORMÒ IN ASSASSINO IL MARINAIO CHE UCCISE IL SUO COMANDANTE – IL PRIMO PROCESSO
     Giovanni Spaziano sbagliò i calcoli della spesa per il “miglioramento rancio” e da quel momento fu tormentato  dalla necessità di restituire un centinaio di migliaia di lire.
     L’otto dicembre del 1958 – dopo otto mesi dal delitto,  in  Castelcapuano, la cupa Reggia di Aragona, oggi palazzo di Giustizia, il ventitreenne sottocapo-segnalatore, Giovanni Spaziano, comparve  dinanzi alla Corte d’Assise per rispondere di un atroce delitto: l’’uccisione del suo comandante. Aveva spiegato in precedenza  che l’unico movente era stato la rapina. In questo modo cadde l’ipotesi che  attribuiva a un affare di spionaggio  il delitto sulla corvetta. Una ispezione ordinata dal Ministero della difesa, ed eseguita da un tenente colonnello dei carabinieri addetto al servizio informazioni permise di accertare che lo speciale reparto blindato della cassaforte, contenente cifrari e ordini di operazione, era del tutto intatto.
     L’istruttoria giudiziaria, compiuta dal giudice Ugo Del Matto, della Procura della Repubblica - come risultava dalla  sentenza di rinviò a giudizio -  chiarì anche il motivo per il quale Giovanni Spaziano era assillato da un urgente bisogno di denaro. Uno dei servizi svolti sulle navi militari è quello di capogamella. Consiste nel vigilare su tutto l’andamento dei viveri e sulla confezione del vitto. La  gamella  o  gamellino, nella terminologia marittima, è appunto la somma di denaro che va in dotazione  alla Cassa di bordo.   Spaziano – svolgendo il suo ruolo -  si ritrovò un ammanco  (una somma abbastanza notevole per la sua paga) di  centodiecimila lire. Una ispezione, constatando l’ammanco, poteva procurargli dei guai con la denuncia per avere speso più del consentito. E cosi egli scrive al padre, Alberto, che al suo paese, Marzano Appio, in provincia di Caserta, fa il mestiere del bottaio.
     Il vecchio provvedeva a inviare al figlio un vaglia telegrafico di ottantamila lire. Se non che la nave salpava da Augusta ed il vaglia non poteva essere riscosso. Il figlio scriveva allora una seconda volta a casa ed il padre provvedeva ad inviargli tutto ciò che poteva racimolare: altre ottanta mila lire.
       Negli interrogatori l’assassino tenterà di sostenere, una dopo l’altra, tre tesi. La prima: ha preso il denaro lasciato cadere da un altro compagno. La seconda, dopo la confessione: egli vide che il comandante si svegliava ed allora, per impedirgli di gridare, lo colpì senza però avere l’intenzione di ucciderlo. E infine, dirà che l’ufficiale, svegliatosi, lo aveva afferrato e che egli nella colluttazione, aveva reagito. La difesa affidata a  tre valorosi avvocati: Vittorio e Michele Verzillo di Santa Maria Capua Vetere e Federico De Pandis di Riardo - si batterà innanzitutto sull’assenza della premeditazione. Ma poiché lo Spaziano viene giudicato  da una Corte d’Assise, ma in base al Codice militare, per il suo maggiore delitto,  l’insubordinazione con omicidio, peraltro  aggravato dalla  rapina, si applica invece il Codice comune è ovvio che importerà assai poco se l’omicidio fu premeditato o no. Il Codice penale militare infatti e chiarissimo: l’omicidio verso il superiore sia volontario o preterintenzionale, o anche solo tentato, comporta sempre la pena dell’ergastolo.
     Ecco perché la difesa ha una sola via: ottenere il vizio parziale di mente. La pubblica accusa, però, aveva rincarato la dose ed aveva presentato un documento col quale asseriva che  lo Spaziano era un semi-alcoolizzato,  soleva dedicarsi a danze frenetiche fino a rimanere senza forze . Il processo - che si prevede durerà tre giorni - dovrebbe vedere sfilare vari testimoni. Primo fra tutti la vedova del tenente  di vascello Bottino Negrotto Cambiaso, la signora Camilla Salvago Raggi, figlia di un facoltoso industriale di Alessandria, che viveva divisa dal marito in attesa di una sentenza di annullamento di matrimonio, chiesto alla Sacra Romana Rota. E, successivamente, la madre, marchesa Fiammetta Doria, e il fratello Giorgio, costituitosi Parte Civile e rappresentato nel giudizio dagli avvocati Luca Ciurlo del Foro di Genova e Nicola Vitale di quello napoletano.  
     La difesa aveva  chiesto la lettura delle deposizioni di Alberto e Emilia Spaziano,  genitori dell’imputato, di Teresa Di Bello, la giovanissima fidanzata del marinaio, e di sua madre, Carmela. Giovanni Spaziano, dal forte di Sant’Elmo, dove venne imprigionato in un primo tempo, è stato trasferito al carcere giudiziario di Poggioreale, nel padiglione  Milano .  

     Giovanni Spaziano entrò in aula alle 11,15 fra un forte nerbo di carabinieri. Vestiva e un elegante, attillato abito color vinaccia. Sotto la giacca a un petto, appariva  uno spesso panciotto di lana blu. Il nodo della cravatta, le scarpe lucidissime, rivelavano la cura con cui si era  abbigliato, prima di venire in udienza. Il presidente lo chiamò e, nel silenzio dei presenti, egli rievocò nei minimi particolari come uccise  quella notte.  Una folla enorme gremiva  Castelcapuano. Solo un centinaio di persone, però, potettero entrare in aula. Il marinaio assassino negò di avere premeditato il delitto e mantenne un cinico contegno  dichiarando  sfacciatamente di essere profondamente onesto: “Non so come ebbi l’impulso di uccidere: quando il comandante si svegliò e mi vide, mi si rizzarono i capelli sulla testa”.  In mezzo alla calca vi era pure il padre dell’imputato, il falegname Alberto Spaziano. Per tutta la durata dell’udienza egli è rimasto in un angolo con il bavero del cappotto alzato, fissando ostinatamente lo sguardo a terra. Gli stava vicino l’altro figlio, Antonio, sergente di fanteria, venuto da Bolzano. Emilia, la madre dell'imputato, sofferente di cuore, è rimasta al paese, a Marzano Appio. Anche la madre della vittima, la marchesa Fiammetta Doria mancava. Citata quale testimone aveva scritto ima lettera al presidente della Corte, Luigi Peluso, chiedendogli di evitarle, un tale strazio: “Non riuscirei a guardare in faccia l’assassino di mio figlio”.   Era venuto, invece, Giorgio Negrotto Cambiaso, fratello dell’ufficiale assassinato. Alto, magro, gli somiglia in modo impressionante.
     Giovanni Spaziano era entrato in aula  con i polsi serrati nelle manette. Al posto della tuta grigio-blu, normale abbigliamento dei militari in stato di arresto, egli aveva indossato un elegante abito color vinaccia. La cravatta a tinte vivaci ben annodata, i mocassini, la camicia candida, rivelavano il desiderio ingenuo, quasi impudente, di staccarsi dalla massa, di figurare favorevolmente. Il marinaio assassino è di media statura, la fronte alta, lo sguardo pensoso. Il viso, pallidissimo, si direbbe quello di un giovane intellettuale. Guardando quelle mani lunghe, affusolate, con le unghie curate, si stenta a credere che abbiano potuto, impugnare il micidiale arnese e abbassarlo più volte con furia selvaggia sul capo del povero comandante.
     All’appello del presidente l’imputato uscì dalla gabbia, con passo lieve, si inchinò e sedette. La sua voce era calma, nitida, fredda, senza una sola inflessione che rivelasse un qualsiasi turbamento. E per l’aula passò un brivido allorché disse: ”Non ho mai fatto nulla di male. Mai profittato di nessuno, sono profondamente onesto”. Poi aggiunse: “Non so io stesso come sia nato in me quell'impulso”.
  Terminata la lunga deposizione, in cui lo Spaziano si era fra l’altro confessato, responsabile di un ammanco di novantamila lire, avvenuto durante la sua gestione di  capogamella», addetto al  miglioramento rancio, la difesa compì un unico disperato tentativo. Gli avvocati Vittorio Verzillo e Federico De Pandis chiedevano  una perizia psichiatrica. Il Pubblico Ministero e la parte civile  si opposero, non essendovi, a loro parere, gli elementi previsti dalla legge. Il presidente si riservava di interpellare la Corte dopo avere udito tutte le testimonianze.  


  Poi nella la seconda udienza del processo la Corte (di cui fanno parte come giudici popolari tre donne: Caterina Ferro, Annunziata Viglione e Maria Ferrise: una casalinga, una professoressa e un’impiegata) sentì la testimonianza di un ufficiale, il tenente Franco Agrimi, e di tre sottufficiali, i marescialli Vincenzo Auriemma, Giuseppe Quarto e Francesco Belluomo Aniello, appartenenti tutti all’Arma dei carabinieri e in servizio presso il nucleo della polizia militare addetto all'Ammiragliato.  Sono state poi lette le testimonianze dei genitori del marinaio, Alberto ed Emilia Spaziano, della fidanzata, Teresa Di Bello, e della madre di costei, Carmela.
  L’avv. Vittorio Verzillo, a difesa del marinaio - ha citato il classico caso di Nicola Misdea -  da cui è derivato il termine  misdeismo  il triste eroe di Pizzofalconce, come lo chiamava Filippo Saporito in un suo famoso studio Sulla delinquenza e sulla pazzia dei militari pubblicato nel 1903. Ma Misdea, che nella caserma napoletana di Pizzofalcone uccise cinque persone, venendo poi fucilato, nonostante la diagnosi di pazzia fatta da tre celebrità psichiatriche (Leonardo Bianchi, Cesare Lombroso e Biagio Miraglia), era pazzo davvero, mentre Giovanni Spaziano - come  provò  egli stesso nella lucida e fredda deposizione durata tre ore - è nel pieno possesso della sua ragione.


CONTRO IL MARINAIO ASSASSINO PARLA IL PUBBLICO ACCUSATORE

  La quarta giornata del processo  vide impegnato un avvocato della difesa, Michele Verzillo (figlio del penalista Vittorio, del Foro di Santa Maria Capua Vetere), uno della Parte Civile, Luca Ciurlo, del Foro di Genova, e il rappresentante della Pubblica Accusa, Nicolò Brayda. Tutti protesi nel duello per quella che, caduta la possibilità d’una perizia psichiatrica, è ormai l’ultima carta su cui disperatamente, puntano: la concessione delle attenuanti, sia le  comuni  che le  generiche, nella sempre più debole speranza di strappare l’imputato, dall’ergastolo.  


CONDANNATO ALL'ERGASTOLO IL MARINAIO CHE UCCISE NEL SONNO IL SUO COMANDANTE

     All’inizio dell'udienza l’ultimo difensore del marinaio, l’avv. Vittorio Verzillo,  prese la parola: “Sappiamo di non poter pronunciare  la parola pietà e  di  avere innanzi a noi la terribile legge militare, il cui rigore dice al giudice che l’omicidio ai danni di un superiore, anche se solo tentato, va punito con l’ergastolo in sostituzione dell’abolita pena di morte. E pertanto chiedo una pena che non superi i trent’anni, chiedendo la concessione delle attenuanti generiche e quelle specifiche per la giovane età,  per il passato incensurato, per la buona condotta militare e per avere egli contribuito a far recuperare la somma presa”.  
A chiusura  il presidente chiese al marinaio: Avete nulla da aggiungere?  A vostra discolpa?  Giovanni Spaziano uscì dalla gabbia calmo e,  postosi al centro dell’aula, con una voce rotta da pause studiate, disse: “Si è detto ieri che non ho versato una sola lacrima nella rievocazione del fatto. Però io ho un cuore e affermo che ho sofferto: e continuo a soffrire. Non mi si crede se dico, che non ho volato uccidere anche se poi ho ucciso. Ebbene, se per essere creduto merito l’ergastolo, sono io che chiedo questa pena”.
     Tre ore dopo, nel silenzio assoluto il presidente lesse la condanna inflitta al marinaio: ergastolo più quindici anni per la rapina aggravata, degradazione militare e pubblicazione della sentenza, oltre che su due quotidiani locali, anche su “La Nuova stampa”. Nell’udire la decisione, Giovanni Spaziano rimase immobile come una statua. Negli anni successivi,  dopo due giudizi,  la pena fu ridotta  e  l’ergastolo  ridotto a 30 anni. Pena definitiva confermata anche dalla Corte di Cassazione.  

  

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