Accadde
a Palermo nel 1946 ma coinvolse una suora di Marcianise - Un
atroce delitto per i begli occhi della suora e l’iniezione fatale
FILOMENA SALZILLO DIVENNE L’AMANTE DEL MEDICO CHE
UCCISE LA MOGLIE CON UN VELENO
Nel 1952 l’ex monaca che ispirò
la fosca passione viveva a Marcianise
con la sorella più piccola, Teresa, al
n. 101 di via G. E. Novelli, in un palazzetto con un cortile rustico pieno di carri agricoli, mucchi di
fieno, polli e i bambini. Il fratello
più grande, Agostino, che era sposato,
stava nello stesso edificio, mentre l’altra sorella Teresa era impiegata nell’Esattoria Comunale.
Un altro grave processo di uxoricidio,
che s’aggiunge alla non breve serie di tali dibattimenti, è passato al vaglio della Corte di Assise di Palermo. Si tratta di quel
medico siciliano Girolamo Lo Verso
che, spinto da una fosca passione per una suora dell’Ordine delle Figlie della Carità, uccise la giovane
moglie Sofia Malatto. Rimasto
vedovo, il Lo Verso che s’era recato a Napoli per alcuni giorni, si portò in casa una giovane infermiera di Marcianise
che era stata suora nell’Ospedale di Palermo. Era la venticinquenne Filomena Salzillo, bruna, con due occhi
nerissimi, intelligente e… prosperosa.
La sua breve vita era già stata un romanzo
a tinte rosee, anzi celesti perché, uscita a 18 anni dal collegio,
si rivelò creatura a fondo religioso, dedita alla preghiera. In
famiglia, in paese, si diceva ch’era un angelo e che sarebbe divenuta suora e
poi santa. Sbagliano talvolta le vocazioni? Certamente, come questa volta, ne è un eloquente
esempio quello della tresca tra il
dott. Girolamo Lo Verso, e la
bella marcianisana.
Filomena Salzillo, infatti, un bel giorno
si sentì attratta a frequentare un corso d’infermiera e infatti si diplomò e
chiese di entrare nelle Figlie della Carità. Fu accettata e dopo un anno di
prova, in un convento secondario, fu
inviata come novizia a Palermo, in un convento dove c’era già una sua
sorella, suor Rosa e qualche tempo
dopo, in forza del suo diploma di
infermiera, entrò nell’ospedale “Fatebenefratelli”, dove conobbe, tra gli altri sanitari, il
dott. Girolamo Lo Verso. Fu una passione
a prima vista! I loro sguardi s’incontrarono: erano neri occhi fatti per
colpirsi reciprocamente. Lui aveva 30 anni e lei 25. Era giunta la data in cui
suor Elena (il titolo di suora le era già stato dato, perché
aveva pronunciato i voti minori), avrebbe dovuto pronunciare i voti
solenni ed entrare definitivamente nell’Ordine.
Si presentò alla superiora e con serena e
decisa volontà le confessò che non si sentiva di prendere definitivamente il
velo. Vocazione perduta? Tuttavia il successivo
23 aprile del 1945 ( era da poco terminata la 2° Guerra Mondiale ) la Salzillo
s’impiegava all’ospedale Ascalesi di Napoli,
dove apprendeva che il dottore Lo
Verso, conosciuto qualche tempo prima,
era rimasto vedovo. Ma questa è una prima versione dei fatti un poco
confusa. Vediamo il seguito.
Che avvenne sotto il bel cielo di Napoli?
Particolari intimi se ne sono raccontati in giro e forse verranno ripetuti in udienza dai testi. Certo
è che i due s’incontrarono a Napoli e che il dottore le raccontò che la morte
della moglie era avvenuta per gravidanza tossica e collasso cardiaco. Tutto qui
l’episodio? Non era affatto vero, perché poi si scoprì, che la donna era stata avvelenata con una
siringa. Anzi, dati i rapporti della
bella suora di Marcianise col
dottore e la sua qualifica di infermiera, gli inquirenti addirittura sospettarono di lei come
l’esecutrice materiale del delitto. Cioè che avesse praticata lei la puntura
letale alla moglie del suo amante. Ma non era vero.
Vedremo al processo. Si afferma però che
dopo quell’incontro - taluni vogliono sia stato subito seguito da un idillio
tenerissimo - i due si scrissero e che
il dottore le offrì subito il posto di infermiera nel suo studio di
Palermo. Se non fosse intervenuto in questo romanzo amoroso un ignoto
personaggio con una lettera anonima alla Procura di Palermo, il dott. Lo Verso seguiterebbe tutt’oggi ( se
non fosse nel frattempo morto, però…) a visitare clienti e la Salzillo,
cambiato il ruolo da infermiera in quello di moglie, se ne vivrebbe accanto al
suo primo grande amore, felice come
fosse in cielo, a quel cielo al quale aveva guardato da fanciulla ignara dei
casi del mondo.
L’autorità giudiziaria – come detto -
indagò immediatamente, anche perché la
madre della morta si erse accusatrice implacabile del genero. Questi di fronte
al risultato dell’autopsia della vittima,
che rivelò forti residui di mercurio,
alluse a un errore per scambio di sostanze. Pare che alla stessa Salzillo il Lo Verso abbia confessato che la morte era dovuta
a “un suo sbaglio”. La moglie era al
sesto mese di gravidanza e ciò aveva reso più grave una sua malattia polmonare.
Perciò le aveva praticato una iniezione, ma aveva sbagliato farmaco. Aveva
usato bicloruro di mercurio. Giostreranno i
periti, come in tutti i processi per avvelenamento ma riusciranno a chiarire taluni dubbi?
Ci si domandava perché il Dr. Lo Verso avesse fatto uso proprio di mercurio quando è noto
che le sue tracce tardano molto tempo a scomparire dai tessuti? Fu allora un
errore e non un delitto premeditato? Si
rispose da taluni che la tossicosi
gravida ha una grossolana somiglianza con quella mercuriale e sull’equivoco
dovette giocare per ingannare quei
medici. Quindi delitto freddamente, scientificamente premeditato?
Ma ritorniamo al racconto della bella
suora di Marcianise. C’era nelle
risultanze della istruttoria uno scontrarsi di accuse e di difese, inesorabili
le prime, calorose le altre. Il marito - si affermava - si mostrò addolorato,
accasciato per la morte della moglie che per giunta gli aveva lasciato due
bimbi in tenera età. Era un sadico, il
carnefice di sua moglie -
controbatterono altre e si
appurò che spesso la minacciava e addirittura una volta, puntandole un bisturi al ventre, avrebbe gridato che voleva sopprimerla. E la
litania si prolunga: “Calcolatore cinico, accecato dalla
passione!”. “No, era un bravo marito e un buon padre ed è assurdo pensare a un
delitto!”.
Battaglia dunque piena e aperta tra le
due ipotesi: colpevole o innocente. Mentre si svolgevano le indagini e pareva
imminente il suo arresto, Lo Verso tentava
di sottrarsi all’onta e al rimorso iniettandosi lo stesso veleno che
aveva causato la morte di sua moglie. Fu trasportato in pericolo di vita a
quello stesso ospedale dove aveva trovato la sorgente della sua tragica
vicenda.
Responsabilità nell’ex suora di Carità
non emersero, sicché comparve solo come teste in Assise. All’epoca si
trovava a S. Andrea del Pizzone, una frazione di Francolise (Caserta) dove
dirigeva l’ambulatorio antimalarico e pare sia stata la benedizione dei contadini di quella
zona malati di perniciosa.
La testimonianza dell’ex suora al processo
di Palermo
Nell’udienza prevista per il 13 novembre
del 1948, dove doveva deporre l’ex-suora Filomena Salzillo, che risultava regolarmente citata a
Marcianise, la folla curiosa si accalcava al Palazzo di Giustizia
ancora più numerosa e rumorosa dei giorni precedenti. E le cronache dell’epoca chiosarono: ”Lei,
però, non è comparsa innanzi ai giudici. Si è appreso inoltre che un telegramma
del pretore ha avvertito che è stata citata regolarmente in sue mani,
ma il pubblico che gremisce in modo inverosimile l’aula, l’attendeva alla
ribalta con morbosa curiosità; si è udito persino qualche grido di: Vogliamo la suora .
Questo è l’enigmatico personaggio che nel
processo si inserisce quasi di straforo, ma che nel dramma del Lo Verso ha
avuto la parte di prima attrice giovane. Essa fu interrogata la prima volta nel
marzo del 1946 a Palermo, quando il dottore era già stato arrestato ed ella era
passata dalla sua casa a quella dei genitori di lui, con le delicate funzioni, a prestare servizio presso i genitori del Lo
Verso in Palermo, via Aurelio Amari, come educatrice delle bambine, figlie del
dottore.
L’amante del medico era giunta in incognito
con il diretto di Roma delle ore 17. A Villa Literno era partita alle 23 e,
riuscendo a viaggiare inosservata, era tornata a Palermo: nessuno l’ha
riconosciuta, nessuno è riuscito a scoprirla; è scivolata in silenzio tra le
prime ombre della sera, accolta e protetta dagli amici di Palermo, ai quali
aveva chiesto ospitalità in questa tempestosa vicenda della sua vita. “Lo Verso - ha testualmente dichiarato al
giudice nel suo interrogatorio del marzo del 1946 - mi disse che mi avrebbe sposata in occasione del nostro incontro di Napoli, dove abbiamo avuto relazioni
intime. Fu a Napoli, non a Palermo, che mi- disse che mi avrebbe sposata. Lo vidi
casualmente alla stazione ferroviaria”.
Poi comparve in aula la Salzillo e subito
si levò un morboso movimento di curiosità.
“Se seguita cosi – disse il presidente - faccio sgomberare l’aula”. E finalmente ecco l’attesissimo
personaggio. E una donnina piccola e insignificante che si avanza a passettini
un pò curvata con l’aria di monachella, è magra magra, di bassa statura,
vestita modestamente da provinciale, un fazzoletto a fiori annodato sotto la
gola che le fascia la testina sicché le spunta soltanto un lungo naso adunco su
cui ha inforcato un grosso paio di occhiali da sole. E’ una acconciatura
piuttosto da viaggio, in automobile scoperta. Il fazzoletto che nasconde quasi
tutto il viso lascia intravedere solo un pò di guance, con il trucco e la
cipria rosa carico e due labbra tinte di
rosso carminio. Il corpo è come insaccato in un golf di lana a maniche
cascanti, lungo e abbondante, di color verde chiaro, aperto su un petto piatto.
Sotto il golf, una sottanina di lana nera, calze carnicine, scarpe nere. Porta
alle mani guanti di filo nero a rete e con le dita mobilissime tormenta la
cinghia di una borsetta nera di seta, come se sgranasse il rosario. Forse è
l’abitudine di un tempo. Questa è la donna fatale, si domanda il pubblico per
cui un giovane medico ha ucciso la moglie e la madre delle sue due figliole e stroncata
la sua carriera? E’ la bellezza che ha determinato una tragedia di tanto
torbide proporzioni? Tutto è sgradevole in questa ragazza, persino il suo
accento e la sua voce dal tono stridulo e concitato.
Si propende piuttosto a ritenere che volontariamente
abbia inscenato tutta questa truccatura di cattivo gusto, ma anche sotto altri panni non
salterebbe fuori egualmente una figura di rilievo. “Raccontate che cosa vi è di vero” – disse il presidente. “Parlate,
parlate, avete parecchio da raccontare”.
“Mi faccia piuttosto delle
domande”. “Vi siete conosciuti entrambi
all'ospedale? Come vi siete comportati?” “ Con cordialità e rispetto” ( in aula si rise ). “Perchè usciste
dall'Ordine?”. “Io ero monaca...”…
La ragazza a poco a poco piglia l’aria;
senza guardare in faccia a nessuno, neppure a quel Cristo che sta sul banco del
presidente, raccontò che iniziò il suo noviziato a Napoli, poi fu mandata a
Palermo dove restò fino a 23 anni di età, quando cioè decise di ritornare in
famiglia. Fino ad allora non vi era
stato nulla col dottore che aveva conosciuto all’ospedale “perchè - essa disse ce - io era monaca”. Poi nel luglio del 1945
ebbe occasione di raccomandargli una sorella suora che doveva essere ricoverata
in sanatorio e raccomandò pure se stessa perchè aveva bisogno di trovare un
impiego. “Lo rividi per caso a Napoli;
parlammo di cose indifferenti... La teste tace e il presidente allora
domanda: “Poi vi recaste in albergo Insieme?”.
“Si è vero!”.
Ma a questo punto la narrazione si arresta
e il pubblico rimane sconcertato perchè il presidente salta l’episodio di
Napoli e riporta la teste a Palermo. “Avevo bisogno di una occupazione ed il
dottore mi aveva assunta come infermiera nel suo studio, dove dovevo occuparmi
della casa e delle figliolette”. Afferma che non indossò mai i vestiti
della defunta nè mise mai i suoi orecchini o le calze o le scarpe ( come era
invece emerso da una testimonianza ) “E prima non foste mai in casa Lo Verso?” “No,
signore, non potevamo uscire da soli”.
“Sapete perchè il dottore tentò di suicidarsi?”. “Non lo seppi, non me lo disse”. “E’ strano
che non vi abbia detto nulla”. “No,
perchè fu immediatamente trasportato all’ospedale”.
Il
presidente vorrebbe prendere in
contraddizione la teste e perciò lesse brani dei suoi interrogatori
d’istruttoria. Il pubblico rumoreggiò ancora una volta - avido di curiosità e
si abbandonava a lunghi mormorii e
commenti, cosicché il presidente fece
squillare il campanello e minacciò di far sgomberare l’aula. Persino il
difensore De Marsico fece a richiesta perchè questa parte delicata
dell’interrogatorio fosse svolta a porte chiuse. E’ forse questa la prima volta
in una aula giudiziaria che un difensore chiese l’allontanamento del pubblico.
E’ vero però che non è un pubblico che dimostri soverchia simpatia per le parti
in causa. Finalmente la folla si fa
quieta e più raccolta e non si abbandona più a commenti irriverenti.
L’imputato - dalla sua gabbia - nasconde
di quando in quando il volto tra le mani e l’ex monaca assume un atteggiamento rassegnato a tutto quello che le si dovrà chiedere.
Tuttavia non si riesce a farle precisare,
come ha già fatto in istruttoria, quando siano cominciati i rapporti intimi con
il dottore. La parte civile trova strano
che le relazioni siano diventate intime solo per due o tre quarti d’ora di
colloquio in piedi, nell’atrio della stazione di Napoli. La teste in udienza
non ricorda nemmeno più se la promessa di matrimonio sia stata fatta prima o
dopo l’incontro nell’albergo di Napoli. Però i rapporti intimi cominciarono a
Napoli, finalmente ammette la teste “perchè
allora - disse - ero signorina e non più suora”. L’Avv.
Gullo di P. C. si spinge oltre e domanda tout
court se prima che con il Lo Verso ebbe rapporti con altri. Qui
l’ex-suora fa una confessione netta e precisa come si trovasse davanti al
tribunale dell'Eterno: “ Mi trovavo in convento a Pescopagano, avevo
15 anni e conobbi un giovanotto che
veniva a villeggiare colà, certo Salvatore Di Maria, fummo fidanzati due anni.
La Salzillo tacque pensierosa e il
presidente la incoraggia: “Parlate
parlate”. “Ma devo proprio parlare davanti a tutti?”. “Spiegatevi con delicatezza”.
E la teste racconta: “Fino allora ci eravamo scambiate delle lettere tenerissime e qualche bacio furtivo. Una sera ottenni il
permesso di uscire dal convento per fare qualche passo...”. Nuova pausa della teste e il presidente: “Abbiamo capito, il passo del precipizio”. “Avevo
17 anni”. Il pubblico rumoreggia e
il presidente ammonisce. Il prof. De Marsico grida: “Non siamo a uno spettacolo; si discute un processo” Allora si fa
silenzio perfetto e la Salzillo aggiunge: “Quindici
giorni dopo, il Di Maria partiva per
l’America, e da allora non ho avuto più notizia alcuna. Provai una grande
delusione, e il convento mi aperse le sue porte”.
La Salzillo ai alza e cerca di schivare gli
obiettivi dei fotografi, mentre il commissario di pubblica sicurezza di
servizio nell’aula l’accompagna fuori, facendole largo fra la folla che preme
da ogni parte. Pare che la madre della vittima l’abbia accompagnala, con questa
frase: ”Dovresti ardere dello stesso
fuoco di cui arse la mia figliola”.
Come viveva nel 1952 l’ex-monaca che ispirò la fosca passione
Nel 1952
mentre si stava celebrando il processo in Cassazione – e la vicenda
venne alla ribalta della cronaca - in
molti si domandarono: “Ma come vive oggi
l’ex-monaca che ispirò la fosca passione?”
Si appurò che aveva ricevuto molte offerte d’amore, a nessuna aveva risposto.
Per anni curò i malarici in devastate regioni… poi si iscrisse a Napoli al corso di ostetricia. Si disse ch’ella amava ancora il medico ergastolano, e ne riceveva qualche lettera. Chiusa in casa, trascorreva ore d’ansia e di speranza. Si era sparsa la voce che la Salzillo si
fosse ormai sposata. Ma fino ad allora le domande di matrimonio erano rimaste senza risposta, e la Salzillo, (sono sette anni da quando, deposto l’abito
religioso di novizia alla vigilia dei voti solenni, ella ripartì dalla Sicilia)
oggi vive a Marcianise dove trascorre una vita ritirata, solo pensando al
suo lavoro. Il padre, Antonio, è
morto da tempo, ed essa abita con la madre Maria, una vecchia donna di casa assai
religiosa e la sorella più piccola, Teresa,
al n. 101 di via G. E. Novelli, in un palazzetto con un cortile rustico pieno di carri agricoli, mucchi di
fieno, polli e i bambini.
Il fratello più grande, Agostino, che è sposato, sta nello
stesso edificio. Una volta i Salzillo erano agiati mezzadri ma oggi l’agiatezza
è passata, e mentre Teresa s’è
impiegata nell’Esattoria Comunale, Filomena
esce ogni mattina assai presto sulla sua
bicicletta e, pedalando veloce, va a
Napoli dove frequenta un corso per diventare ostetrica o si reca in giro a fare iniezioni, soffermandosi sopra tutto a
Sant’Andrea del Pizzone, una borgata di Francolise dove, fino a tutto il 48, diresse un
ambulatorio del Consorzio provinciale antimalarico. Fu poco dopo il suo ritorno
a Marcianise che chiese e ottenne quel
pesante lavoro. Il Basso Volturno –
infatti - è da tempo antico una zona in
cui sibila la malaria e serpeggia la febbre.
L’accusa: ergastolo per il dr. Girolamo Lo Verso - La difesa: fu un errore lo scambio del veleno
va assolto.
I GIUDIZI DI APPELLLO E CASSAZIONE: CARCERE A VITA - RIFIUTO’ LA GRAZIA – MORI’ NEL 1960 IN
MANICOMIO
Instauratosi il processo la Corte di
Assise di Palermo ( Presidente Pietro
Merla, a latere Francesco
Badalamenti, pubblico ministero Franz
Sesti ) alla difesa del medico si
schierò il prof. Alfredo De Marsico, del Foro
di Napoli, e gli avvocati
palermitani Domenico Battaglia e Giuseppe
Vizzini; e alla Parte Civile l’on. Rocco
Gullo e Roberto Viviani del Foro di Palermo.
Dopo un anno di processo la sentenza,
emessa in poche ore: Ergastolo per Girolamo
Lo Verso. Lui pianse alla richiesta dell’ergastolo. Contro l’imputato pesarono i fatti che si era andato ad
informare se il veleno lasciava tracce. La pubblica accusa sostenne infatti che
si trattò di un delitto scientifico. La difesa insistete invece nell’errore
dello scambio delle fiale. A Palermo –
sostenne la difesa – Lo Verso assunse la
Salzillo essendo sorta la necessità di ricostruire il suo studio professionale
ed essendo la ex-monaca valente nei servizi di infermiera.
Si accusò esplicitamente dicendo di avere
sbagliato: “Solo di errore si può parlare
in questa causa, di un errore fatale, del quale non sento di dover chiedere
perdono agli altri, ma alla stessa mia adorata sposa, alla quale l’ho chiesto
proprio quando, con le mie mani, l’ho collocata nella bara. Sento sempre più grave - egli disse -
il peso dell'accusa. E mostruoso
- egli protestò - quello che mi si
contesta, e le mie creature potrebbero apparire figlie di un mostro che avrebbe
ucciso la loro stessa madre”. Nel processo delle fiale della morte il
medico palermitano ebbe anche a dichiarare che avrebbe avuto ben altri modi per
sopprimere la moglie che non il veleno.
L’Avv. Alfredo De Marsico sostenne, tra l’altro, che il tentativo di
suicidio dell’imputato doveva costituire la sua prova dell’innocenza. E anche questa volta nella tragica vicenda si
inserisce un altro errore: innocuo piramidone invece di sublimato corrosivo. Lo
aveva indotto al disperato gesto lo strazio per avere causato la morte della
moglie, e fedele al giuramento voleva sopprimersi collo stesso tossico: ma
anche questa volta aveva sbagliato fiala.
Nel corso di oltre un anno di dibattimento
passarono al vaglio delle Corte le vite parallele dell’imputato, della moglie,
sua vittima e dell’amante, la suora marcianisana. Per molti, Filomena Salzillo fu al centro della tragedia. Poi fu
raccontata la vita della povera signora Sofia Lo Verso attraverso la
testimonianza di un’amica: “In quella
casa c’era qualcosa di tragico”. Poi ci fu la sfilata dei periti, dei
consulenti, dei medici. Quello che più impressionò, tuttavia era la bruttezza
della ex suora la quale sollevava dubbi sul veneficio. Filomena Salzillo –
dissero in molti – che era apparsa un rottame umano non una donna per la quale
un uomo possa uccidere. In contrapposizione ad una moglie giovane, bella ed
affascinante. La vita in casa del Dr. Lo Verso – secondo una cameriera – era
caotica: litigi, piatti che volavano, spesso si stagliava l’ombra della ex
suora. Poi il passo fatale, il Dr. Lo
Verso – risultò da una testimonianza – prima del delitto si era andato ad
informare da un valente medico palermitano se il mercurio lasciava traccia. Gli fu fatale anche la saldature delle fiale. Venendo a parlare della morte della signora,
la portinaia narra che una delle figliolette della defunta un giorno le
raccontò: “Sai che abbiamo in casa una
bella cameriera giovane la quale non è più suora come una volta ed ora ha le
vesti bianche e le scarpette rosse, sai quando è venuta ci ha portato una
quantità di dolci”.
La
madre della vittima, riferì che
una sera la Giuseppina ( cioè la
cameriera ) riferì quello che intese fra i due
amanti allorquando la Filomena Salzillo ( che già prestava servizio come
educatrice presso la famiglia Lo Verso ) disse al dr. Lo Verso: “Non vieni a letto?” – “Fra un quarto d’ora - rispose il dottore.
La pena dell’ergastolo fu confermata nei
tre gradi di giudizio. Nel 1960 le due figlie del dottore, Linae e Ellide chiesero la grazia al Presidente della
Repubblica Giovanni Gronchi, ma
prima che fosse concessa, il Dr.
Girolamo Lo Verso detenuto, che scontava la pena dell’ergastolo da oltre 20 anni all’Ucciardone, si oppose e dichiarò che lui voleva essere proclamato
innocente. Nel marzo di quello stesso anno morì per collasso cardio circolatorio.
.
Nessun commento:
Posta un commento