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domenica 30 novembre 2014

Accadde a  Palermo nel 1946  ma coinvolse una suora di Marcianise - Un atroce delitto per  i  begli occhi della suora e l’iniezione fatale



FILOMENA SALZILLO DIVENNE L’AMANTE DEL MEDICO CHE UCCISE LA MOGLIE CON UN VELENO

Nel 1952   l’ex monaca che ispirò la fosca passione  viveva a Marcianise con  la sorella più piccola, Teresa, al n. 101 di via G. E. Novelli, in un palazzetto con un cortile  rustico pieno di carri agricoli, mucchi di fieno, polli e i bambini.  Il fratello più grande, Agostino, che era  sposato, stava  nello stesso edificio,  mentre l’altra sorella Teresa era  impiegata nell’Esattoria  Comunale.




      Un altro grave processo di uxoricidio, che s’aggiunge alla non breve serie di tali dibattimenti, è passato  al vaglio della  Corte di Assise di Palermo. Si tratta di quel medico siciliano Girolamo Lo Verso che, spinto da una fosca passione per una suora dell’Ordine  delle Figlie della Carità, uccise la giovane moglie Sofia Malatto. Rimasto vedovo, il Lo Verso che s’era recato a Napoli per alcuni giorni, si portò  in casa una giovane infermiera di Marcianise che era stata suora nell’Ospedale di Palermo. Era la venticinquenne Filomena Salzillo, bruna, con due occhi nerissimi, intelligente e… prosperosa.
     La sua breve vita era già stata un romanzo a tinte rosee, anzi celesti perché, uscita a 18 anni dal  collegio,  si rivelò creatura a fondo religioso, dedita alla preghiera. In famiglia, in paese, si diceva ch’era un angelo e che sarebbe divenuta suora e poi santa. Sbagliano talvolta le vocazioni? Certamente,  come questa volta, ne è un eloquente esempio  quello  della tresca tra  il  dott. Girolamo Lo Verso,  e la bella marcianisana. 
      Filomena Salzillo, infatti, un bel giorno si sentì attratta a frequentare un corso d’infermiera e infatti si diplomò e chiese di entrare nelle Figlie della Carità. Fu accettata e dopo un anno di prova,  in un convento secondario, fu inviata come novizia  a Palermo,  in un convento dove c’era già una sua sorella, suor Rosa e qualche tempo dopo,  in forza del suo diploma di infermiera,   entrò nell’ospedale  “Fatebenefratelli”,  dove conobbe, tra gli altri sanitari, il dott. Girolamo  Lo Verso. Fu una passione a prima vista! I loro sguardi s’incontrarono: erano neri occhi fatti per colpirsi reciprocamente. Lui aveva 30 anni e lei 25. Era giunta la data in cui suor Elena (il  titolo di suora le era già stato dato,  perché  aveva pronunciato i voti minori), avrebbe dovuto pronunciare i voti solenni ed entrare definitivamente nell’Ordine.
     Si presentò alla superiora e con serena e decisa volontà le confessò che non si sentiva di prendere definitivamente il velo. Vocazione perduta? Tuttavia il successivo  23 aprile  del 1945  ( era da poco terminata  la 2° Guerra Mondiale ) la Salzillo s’impiegava all’ospedale Ascalesi di Napoli,  dove apprendeva che il  dottore Lo Verso, conosciuto qualche tempo prima,   era rimasto vedovo. Ma questa è una prima versione dei fatti un poco confusa. Vediamo il seguito.
     Che avvenne sotto il bel cielo di Napoli? Particolari intimi se ne sono raccontati in giro e forse  verranno ripetuti in udienza dai testi. Certo è che i due s’incontrarono a Napoli e che il dottore le raccontò che la morte della moglie era avvenuta per gravidanza tossica e collasso cardiaco. Tutto qui l’episodio?  Non era affatto vero,  perché poi si scoprì,  che la donna era stata avvelenata con una siringa. Anzi,  dati i rapporti della bella suora  di Marcianise col dottore  e la sua qualifica  di infermiera,   gli inquirenti  addirittura sospettarono di lei come l’esecutrice materiale del delitto. Cioè che avesse praticata lei la puntura letale alla moglie del suo amante. Ma non era vero.
    Vedremo al processo. Si afferma però che dopo quell’incontro - taluni vogliono sia stato subito seguito da un idillio tenerissimo - i due si scrissero e che  il dottore le offrì subito il posto di infermiera nel suo studio di Palermo. Se non fosse intervenuto in questo romanzo amoroso un ignoto personaggio con una lettera anonima alla Procura di Palermo, il  dott. Lo Verso seguiterebbe tutt’oggi ( se non fosse nel frattempo morto, però…) a visitare clienti e la Salzillo, cambiato il ruolo da infermiera in quello di moglie, se ne vivrebbe accanto al suo primo grande amore,  felice come fosse in cielo, a quel cielo al quale aveva guardato da fanciulla ignara dei casi del mondo.
     L’autorità giudiziaria – come detto - indagò immediatamente, anche perché  la madre della morta si erse accusatrice implacabile del genero. Questi di fronte al risultato dell’autopsia della vittima,  che rivelò forti residui di mercurio,  alluse a un errore per scambio di sostanze. Pare che alla stessa  Salzillo il Lo Verso   abbia confessato che la morte era dovuta a  “un suo sbaglio”. La moglie era al sesto mese di gravidanza e ciò aveva reso più grave una sua malattia polmonare. Perciò le aveva praticato una iniezione, ma aveva sbagliato farmaco. Aveva usato bicloruro di mercurio. Giostreranno i  periti, come in tutti i processi per avvelenamento ma  riusciranno a chiarire  taluni dubbi?
     Ci si domandava perché il  Dr. Lo Verso avesse   fatto uso proprio di mercurio quando è noto che le sue tracce tardano molto tempo a scomparire dai tessuti? Fu allora un errore e non un delitto premeditato?  Si rispose  da taluni che la tossicosi gravida ha una grossolana somiglianza con quella mercuriale e sull’equivoco dovette giocare  per ingannare quei medici. Quindi delitto freddamente, scientificamente premeditato?
      Ma ritorniamo al racconto della bella suora di Marcianise. C’era  nelle risultanze della istruttoria uno scontrarsi di accuse e di difese, inesorabili le prime, calorose le altre. Il marito - si affermava - si mostrò addolorato, accasciato per la morte della moglie che per giunta gli aveva lasciato due bimbi in tenera età. Era un sadico, il  carnefice di sua moglie -  controbatterono  altre  e  si appurò che spesso la minacciava e addirittura una volta,  puntandole un bisturi al ventre,  avrebbe gridato che voleva sopprimerla. E la litania si prolunga:  “Calcolatore cinico, accecato dalla passione!”. “No, era un bravo marito e un buon padre ed è assurdo pensare a un delitto!”. 
      Battaglia dunque piena e aperta tra le due ipotesi: colpevole o innocente. Mentre si svolgevano le indagini e pareva imminente il suo arresto, Lo Verso tentava  di sottrarsi all’onta e al rimorso iniettandosi lo stesso veleno che aveva causato la morte di sua moglie. Fu trasportato in pericolo di vita a quello stesso ospedale dove aveva trovato la sorgente della sua tragica vicenda.
     Responsabilità nell’ex suora di Carità non  emersero, sicché comparve  solo come teste in Assise. All’epoca si trovava a S. Andrea del Pizzone,   una frazione di Francolise (Caserta) dove dirigeva l’ambulatorio antimalarico e pare sia  stata la benedizione dei contadini di quella zona malati di perniciosa.  

La testimonianza dell’ex suora al processo di Palermo
 


     Nell’udienza prevista per il 13 novembre del 1948, dove doveva deporre l’ex-suora Filomena Salzillo,  che risultava regolarmente citata a Marcianise,   la folla  curiosa si accalcava al Palazzo di Giustizia ancora più numerosa e rumorosa dei giorni precedenti.  E le cronache dell’epoca chiosarono: ”Lei, però, non è comparsa innanzi ai giudici. Si è appreso inoltre che un telegramma del pretore  ha avvertito  che è stata citata regolarmente in sue mani, ma il pubblico che gremisce in modo inverosimile l’aula, l’attendeva alla ribalta con morbosa curiosità; si è udito persino qualche grido di: Vogliamo la suora .
     Questo è l’enigmatico personaggio che nel processo si inserisce quasi di straforo, ma che nel dramma del Lo Verso ha avuto la parte di prima attrice giovane. Essa fu interrogata la prima volta nel marzo del 1946 a Palermo, quando il dottore era già stato arrestato ed ella era passata dalla sua casa a quella dei genitori di lui, con  le delicate funzioni,  a prestare servizio presso i genitori del Lo Verso in Palermo, via Aurelio Amari, come educatrice delle bambine, figlie del dottore.  
  L’amante del medico era giunta in incognito con il diretto di Roma delle ore 17. A Villa Literno era partita alle 23 e, riuscendo a viaggiare inosservata, era tornata a Palermo: nessuno l’ha riconosciuta, nessuno è riuscito a scoprirla; è scivolata in silenzio tra le prime ombre della sera, accolta e protetta dagli amici di Palermo, ai quali aveva chiesto ospitalità in questa tempestosa vicenda della sua vita. “Lo Verso - ha testualmente dichiarato al giudice nel suo interrogatorio del marzo del 1946 - mi disse che mi avrebbe sposata in occasione del nostro incontro  di Napoli, dove abbiamo avuto relazioni intime.  Fu a Napoli, non a Palermo,  che mi- disse che mi avrebbe sposata. Lo vidi casualmente alla stazione ferroviaria”. 
    Poi comparve in aula la Salzillo e subito si levò un morboso movimento di curiosità.  “Se seguita cosi – disse  il presidente - faccio sgomberare l’aula”. E finalmente ecco l’attesissimo personaggio. E una donnina piccola e insignificante che si avanza a passettini un pò curvata con l’aria di monachella, è magra magra, di bassa statura, vestita modestamente da provinciale, un fazzoletto a fiori annodato sotto la gola che le fascia la testina sicché le spunta soltanto un lungo naso adunco su cui ha inforcato un grosso paio di occhiali da sole. E’ una acconciatura piuttosto da viaggio, in automobile scoperta. Il fazzoletto che nasconde quasi tutto il viso lascia intravedere solo un pò di guance, con il trucco e la cipria rosa carico e due labbra  tinte di rosso carminio. Il corpo è come insaccato in un golf di lana a maniche cascanti, lungo e abbondante, di color verde chiaro, aperto su un petto piatto. Sotto il golf, una sottanina di lana nera, calze carnicine, scarpe nere. Porta alle mani guanti di filo nero a rete e con le dita mobilissime tormenta la cinghia di una borsetta nera di seta, come se sgranasse il rosario. Forse è l’abitudine di un tempo. Questa è la donna fatale, si domanda il pubblico per cui un giovane medico ha ucciso la moglie e la madre delle sue due figliole e stroncata la sua carriera? E’ la bellezza che ha determinato una tragedia di tanto torbide proporzioni? Tutto è sgradevole in questa ragazza, persino il suo accento e la sua voce dal tono stridulo e concitato.
     Si propende piuttosto a ritenere che volontariamente abbia inscenato tutta questa truccatura di cattivo  gusto, ma anche sotto altri panni non salterebbe fuori egualmente una figura di rilievo. “Raccontate che cosa vi è di vero” – disse  il presidente.  “Parlate, parlate, avete parecchio da raccontare”.  “Mi faccia piuttosto delle domande”.  “Vi siete conosciuti entrambi all'ospedale? Come vi siete comportati?” “ Con cordialità e rispetto” ( in aula si rise ).  “Perchè usciste dall'Ordine?”. “Io ero monaca...”… 
     La ragazza a poco a poco piglia l’aria; senza guardare in faccia a nessuno, neppure a quel Cristo che sta sul banco del presidente, raccontò che iniziò il suo noviziato a Napoli, poi fu mandata a Palermo dove restò fino a 23 anni di età, quando cioè decise di ritornare in famiglia. Fino ad  allora non vi era stato nulla col dottore che aveva conosciuto all’ospedale “perchè - essa disse ce -  io era monaca”. Poi nel luglio del 1945 ebbe occasione di raccomandargli una sorella suora che doveva essere ricoverata in sanatorio e raccomandò pure se stessa perchè aveva bisogno di trovare un impiego. “Lo rividi per caso a Napoli; parlammo di cose indifferenti... La teste tace e il presidente allora domanda:  “Poi vi recaste in albergo Insieme?”.  “Si è vero!”.
     Ma a questo punto la narrazione si arresta e il pubblico rimane sconcertato perchè il presidente salta l’episodio di Napoli e riporta la teste a Palermo.  “Avevo bisogno di una occupazione ed il dottore mi aveva assunta come infermiera nel suo studio, dove dovevo occuparmi della casa e delle figliolette”. Afferma che non indossò mai i vestiti della defunta nè mise mai i suoi orecchini o le calze o le scarpe ( come era invece emerso da una testimonianza )   “E prima non foste mai in casa Lo Verso?”  “No, signore, non potevamo uscire da soli”.   “Sapete perchè il dottore tentò di suicidarsi?”. “Non lo seppi, non me lo disse”. “E’ strano che non vi abbia detto nulla”.  “No, perchè fu immediatamente trasportato all’ospedale”.


      Il  presidente vorrebbe  prendere in contraddizione la teste e perciò lesse brani dei suoi interrogatori d’istruttoria. Il pubblico rumoreggiò ancora una volta - avido di curiosità e si abbandonava  a lunghi mormorii e commenti, cosicché il presidente fece  squillare il campanello e minacciò di far sgomberare l’aula. Persino il difensore De Marsico fece a richiesta perchè questa parte delicata dell’interrogatorio fosse svolta a porte chiuse. E’ forse questa la prima volta in una aula giudiziaria che un difensore chiese l’allontanamento del pubblico. E’ vero però che non è un pubblico che dimostri soverchia simpatia per le parti in causa.  Finalmente la folla si fa quieta e più raccolta e non si abbandona più a commenti irriverenti. L’imputato  - dalla sua gabbia - nasconde di quando in quando il volto tra le mani e l’ex monaca  assume un atteggiamento rassegnato  a tutto quello che le si dovrà chiedere.
     Tuttavia non si riesce a farle precisare, come ha già fatto in istruttoria, quando siano cominciati i rapporti intimi con il dottore. La parte civile  trova strano che le relazioni siano diventate intime solo per due o tre quarti d’ora di colloquio in piedi, nell’atrio della stazione di Napoli. La teste in udienza non ricorda nemmeno più se la promessa di matrimonio sia stata fatta prima o dopo l’incontro nell’albergo di Napoli. Però i rapporti intimi cominciarono a Napoli, finalmente ammette la teste “perchè allora -  disse  -  ero signorina e non più suora”. L’Avv. Gullo di P. C. si spinge oltre e domanda tout court  se prima che con il  Lo Verso ebbe rapporti con altri. Qui l’ex-suora fa una confessione netta e precisa come si trovasse davanti al tribunale dell'Eterno: “  Mi trovavo in convento a Pescopagano, avevo 15 anni e conobbi un giovanotto che veniva a villeggiare colà, certo Salvatore Di Maria, fummo fidanzati due anni. La Salzillo tacque  pensierosa e il presidente la incoraggia: “Parlate parlate”.    “Ma devo proprio parlare davanti a tutti?”. “Spiegatevi con delicatezza”.      
     E la teste racconta: “Fino allora ci eravamo scambiate delle lettere tenerissime e  qualche bacio furtivo. Una sera ottenni il permesso di uscire dal convento per fare qualche passo...”.  Nuova pausa della teste e il presidente: “Abbiamo capito, il passo del precipizio”.  “Avevo 17 anni”. Il  pubblico rumoreggia e il presidente ammonisce. Il prof. De Marsico grida: “Non siamo a uno spettacolo; si discute un processo” Allora si fa silenzio perfetto e la Salzillo aggiunge: “Quindici giorni dopo, il Di Maria partiva  per l’America, e da allora non ho avuto più notizia alcuna. Provai una grande delusione, e il convento mi aperse le sue porte”.

   La Salzillo ai alza e cerca di schivare gli obiettivi dei fotografi, mentre il commissario di pubblica sicurezza di servizio nell’aula l’accompagna fuori, facendole largo fra la folla che preme da ogni parte. Pare che la madre della vittima l’abbia accompagnala, con questa frase: ”Dovresti ardere dello stesso fuoco di cui arse la mia figliola”.  

 Come viveva nel 1952  l’ex-monaca che ispirò la fosca passione
      Nel 1952  mentre si stava celebrando il processo in Cassazione – e la vicenda venne alla ribalta della cronaca  - in molti si domandarono:  “Ma come vive oggi l’ex-monaca che ispirò la fosca passione?”  Si appurò che aveva ricevuto molte offerte d’amore, a nessuna aveva  risposto.   Per anni curò i malarici in devastate regioni… poi si iscrisse   a Napoli al corso di ostetricia.   Si disse  ch’ella amava  ancora il medico ergastolano, e ne riceveva  qualche lettera.   Chiusa in casa, trascorreva  ore d’ansia e di speranza.  Si era sparsa la voce che la Salzillo si fosse ormai sposata. Ma fino ad allora le domande di matrimonio erano  rimaste senza risposta, e la Salzillo, (sono  sette anni da quando, deposto l’abito religioso di novizia alla vigilia dei voti solenni, ella ripartì dalla Sicilia) oggi  vive a Marcianise dove  trascorre una vita ritirata, solo pensando al suo lavoro. Il padre, Antonio, è morto da tempo, ed essa abita con la madre  Maria, una vecchia donna di casa assai religiosa e la sorella più piccola, Teresa, al n. 101 di via G. E. Novelli, in un palazzetto con un cortile  rustico pieno di carri agricoli, mucchi di fieno, polli e i bambini.
     Il fratello più grande, Agostino, che è sposato, sta nello stesso edificio. Una volta i Salzillo erano agiati mezzadri ma oggi l’agiatezza è passata, e mentre Teresa s’è impiegata nell’Esattoria  Comunale,  Filomena esce  ogni mattina assai presto sulla sua bicicletta e, pedalando  veloce, va a Napoli dove frequenta un corso per diventare ostetrica o si reca in giro a  fare iniezioni, soffermandosi sopra tutto a Sant’Andrea del Pizzone, una borgata di Francolise  dove, fino a tutto il 48, diresse un ambulatorio del Consorzio provinciale antimalarico. Fu poco dopo il suo ritorno a Marcianise che  chiese e ottenne quel pesante  lavoro. Il Basso Volturno – infatti -  è da tempo antico una zona in cui sibila la malaria e serpeggia la febbre.





 L’accusa: ergastolo per il dr. Girolamo Lo Verso -  La difesa: fu un errore lo scambio del veleno va assolto.
I GIUDIZI DI APPELLLO E CASSAZIONE:  CARCERE A VITA  - RIFIUTO’ LA GRAZIA – MORI’ NEL 1960 IN MANICOMIO


         Instauratosi il processo la Corte di Assise di Palermo ( Presidente Pietro Merla, a latere Francesco Badalamenti, pubblico ministero Franz Sesti ) alla difesa del medico  si schierò il prof.  Alfredo De Marsico,  del Foro di  Napoli, e gli avvocati palermitani  Domenico Battaglia e Giuseppe Vizzini; e alla Parte Civile l’on. Rocco GulloRoberto Viviani del Foro di  Palermo.   Dopo un anno di processo la sentenza,  emessa in poche ore: Ergastolo per Girolamo Lo Verso. Lui pianse alla richiesta dell’ergastolo. Contro l’imputato  pesarono i fatti che si era andato ad informare se il veleno lasciava tracce. La pubblica accusa sostenne infatti che si trattò di un delitto scientifico. La difesa insistete invece nell’errore dello scambio delle fiale.  A Palermo – sostenne la difesa – Lo Verso  assunse la Salzillo essendo sorta la necessità di ricostruire il suo studio professionale ed essendo la ex-monaca valente nei servizi di infermiera. 
     Si accusò esplicitamente dicendo di avere sbagliato: “Solo di errore si può parlare in questa causa, di un errore fatale, del quale non sento di dover chiedere perdono agli altri, ma alla stessa mia adorata sposa, alla quale l’ho chiesto proprio quando, con le mie mani, l’ho collocata nella bara.  Sento sempre più grave -  egli disse -  il peso dell'accusa.  E mostruoso - egli protestò -  quello che mi si contesta, e le mie creature potrebbero apparire figlie di un mostro che avrebbe ucciso la loro stessa madre”. Nel processo delle fiale della morte il medico palermitano ebbe anche a dichiarare che avrebbe avuto ben altri modi per sopprimere la moglie che non il veleno.
L’Avv. Alfredo De Marsico sostenne, tra l’altro, che il tentativo di suicidio dell’imputato doveva costituire la sua prova dell’innocenza. E  anche questa volta nella tragica vicenda si inserisce un altro errore: innocuo piramidone invece di sublimato corrosivo. Lo aveva indotto al disperato gesto lo strazio per avere causato la morte della moglie, e fedele al giuramento voleva sopprimersi collo stesso tossico: ma anche questa volta aveva sbagliato fiala.
     Nel corso di oltre un anno di dibattimento passarono al vaglio delle Corte le vite parallele dell’imputato, della moglie, sua vittima  e dell’amante,  la suora marcianisana. Per molti, Filomena  Salzillo fu al centro della tragedia. Poi fu raccontata la vita  della povera signora Sofia Lo Verso attraverso la testimonianza di un’amica: “In quella casa c’era qualcosa di tragico”. Poi ci fu la sfilata dei periti, dei consulenti, dei medici. Quello che più impressionò, tuttavia era la bruttezza della ex suora la quale sollevava dubbi sul veneficio. Filomena Salzillo – dissero in molti – che era apparsa un rottame umano non una donna per la quale un uomo possa uccidere. In contrapposizione ad una moglie giovane, bella ed affascinante. La vita in casa del Dr. Lo Verso – secondo una cameriera – era caotica: litigi, piatti che volavano, spesso si stagliava l’ombra della ex suora.  Poi il passo fatale, il Dr. Lo Verso – risultò da una testimonianza – prima del delitto si era andato ad informare da un valente medico palermitano se il  mercurio lasciava traccia. Gli fu  fatale anche la saldature delle fiale.  Venendo a parlare della morte della signora, la portinaia narra che una delle figliolette della defunta un giorno le raccontò: “Sai che abbiamo in casa una bella cameriera giovane la quale non è più suora come una volta ed ora ha le vesti bianche e le scarpette rosse, sai quando è venuta ci ha portato una quantità di dolci”. 
     La  madre della vittima,  riferì che una sera la Giuseppina  ( cioè la cameriera ) riferì quello che intese fra i due  amanti allorquando la Filomena Salzillo ( che già prestava servizio come educatrice presso la famiglia Lo Verso ) disse al  dr. Lo Verso: “Non vieni a letto?” – “Fra un quarto d’ora -  rispose il dottore.
     La pena dell’ergastolo fu confermata nei tre gradi di giudizio. Nel 1960 le due figlie del dottore, Linae e Ellide  chiesero la grazia al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, ma prima che fosse concessa,  il Dr. Girolamo Lo Verso detenuto, che scontava la pena dell’ergastolo  da oltre 20 anni all’Ucciardone, si oppose e dichiarò che lui voleva essere proclamato innocente. Nel marzo di quello stesso anno morì per collasso cardio circolatorio.  






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