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domenica 22 marzo 2015



Accadde Il 17 ottobre del 1947 alle 22,45 in Maddaloni


UN OSCURO  MOVENTE PER L’OMICIDIO

Leonardo Romano e il cognato  Pasquale Romano accusati di avere ucciso Vincenzo Abbruzzese – Gelosia? Contrasti sulla spartizione del bottino? Sei colpi di pistola dopo una serata in cantina.  L’allegra vita di una compagnia di gitani. 


IL FATTO

Il 17 ottobre del 1947 alle 22,45 in Maddaloni, i carabinieri venivano avvisati che in località “Molini” e propriamente in via Ponte Cardino era avvenuta una zuffa tra nomadi e che uno di essi giaceva a terra gravemente ferito. I carabinieri sul posto infatti rinvennero Vincenzo Abbruzzese, quasi morente,  il quale però fece il nome del suo assassino e disse che trattavasi  di tale Narduccio alias Leonardo Romano e del cognato di costui a nome Pasquale Romano che gli aveva passato la pistola dalla quale erano partiti i colpi che lo avevano attinto “limite inferiore lipocandrio”.
I carabinieri dopo aver accompagnato il ferito all’ospedale di Maddaloni si diressero verso l’abitazione dei due Romano. Nel frangente fortunatamente la Gazzella dei carabinieri( il cui equipaggio era composto dal brig. Vincenzo Panipucci e Francesco Zevola) incrociò i due fuggiaschi. Al Leonardo Romano i carabinieri sequestrarono una rivoltella militare inglese marca Webbleng a rotazione cal.10.42 che dichiarò – però - di aver raccolto per terra vicino al corpo del soggetto da lui ferito. Entrambi si protestavano innocenti della zuffa e della conseguente sparatoria addirittura sostennero di non conoscere nulla di quanto era accaduto. Poi in caserma, messi a confronto con quanto aveva dichiarato il Vincenzo Abbruzzese,  i due prospettarono una versione dei fatti adombrando una presumibile legittima difesa ed una esclusione totale per la sparatoria di Leonardo Romano. Nella circostanza il Leonardo Romano raccontò si carabinieri che Vincenzo Abbruzzese era l’amante della sorella di sua moglie e quel giorno erano stati ospiti di alcuni parenti della moglie. Nella stessa serata alla comitiva si era aggiunto anche Pasquale Romano marito di Felicia Romano sorella del Leonardo e quindi suocera di Pasquale. Ad un certo momento della serata Vincenzo Abbruzzese e Pasquale Romano si recarono presso l’Osteria gestita da Andrea Merola dove cenarono e bevvero e si trattennero fino a notte inoltrata. Quasi all’una di notte la moglie di Pasquale Romano preoccupata per la lunga assenza del marito volle recarsi a chiamarlo facendosi accompagnare da Leonardo Romano. Giunti nei pressi della cantina chiamarono l’Abbruzzese e Pasquale Romano i quali pur invitati ripetutamente non volevano abbandonare il vino e l’oste. Finalmente dopo alcune esitazioni si avviarono tutti insieme verso casa. Ma appena giunti nella casa di Generosa Romano, Vincenzo Abbruzzese - alquanto alticcio - incominciò ad inveire contro l’amante, Carmela Bevilacqua, che percosse e minacciò estraendo la sua rivoltella che portava alla cintola. A questo punto intervenne Pasquale Romano invitandolo a desistere, ma l’altro, esasperato rivolse con di lui l’arma ingiungendogli di uscire fuori: ”Uomo di merda se hai coraggio esci fuori”. Ma il Romano, prevedendo la reazione dell’uomo abbastanza ubbriaco, per essere stato nella cantina assieme a lui ed avendo assistito anche ad altre provocazioni con la pistola in pugno che l’Abbruzzese estraeva con molta facilità ad ogni piè sospinto iniziò a scappare per sottrarsi ad eventuali rappresaglie. L’Abbruzzese – invece di desistere – iniziò un inseguimento impugnando l’arma e minacciando di esplodere colpi al suo indirizzo: “Pover’uomo…fermato…ti sparo”…nello stesso istante fece partire quattro, cinque colpi di pistola all’indirizzo del Romano…

Dalla casa Leonardo Romano e gli altri familiari sentirono – dato il silenzio delle tenebre – le detonazioni e la reiterazione dei colpi. Nella corsa Leonardo Romano era giunto fino alla località “Molini”. In quel frangente – secondo il suo fantasioso racconto – aveva trovato l’Abbruzzese gravemente ferito e vicino a questi una rivoltella che aveva raccolto andando subito nella caserma dei carabinieri che, però, stranamente, aveva trovato chiusa.
Nel tornare indietro – continuò nel suo fantasioso racconto Leonardo Romano – si era imbattuto in Pasquale Romano e questi gli aveva dichiarato che era stato fatto segno a numerosi colpi di arma da fuoco di rivoltella e che però era stato costretto a difendersi e di far fuoco egli stesso colpendo così l’Abbruzzese. Un racconto che secondo l’esperienza degli investigatori non era assolutamente credibile. Anche in ospedale, però, l’Abbruzzese - così come fatto ai carabinieri – prima di morire – confermò che essere stato sparato da Leonardo Romano e non nominò neppure il Pasquale Romano. Tuttavia i carabinieri denunciarono entrambi i Romano per omicidio.
Nel prosieguo delle indagini si accertò che l’Abbruzzese era stato ferito con una zappa alla testa e fatto successivamente segno a numerosi colpi di rivoltella. Il giorno dopo – diagnosticarono i medici – a causa da una emorragia interna – l’uomo cessò di vivere. Le successive investigazioni degli inquirenti accertarono che Vincenzo Abbruzzese quella sera, dopo aver bevuto a casa, si era presentato nella cantina già alticcio e che in un frangente aveva anche minacciato l’oste, sfoderando la sua pistola che, vistolo ubriaco fradicio si era rifiutato di mescere altro vino rosso. L’Abbruzzese aveva anche più volte minacciato gli avventori chiedendo loro delle sigarette ed arrivando addirittura a mettere la canna della pistola in gola ad uno di essi che si era rifiutato di dargli una sigaretta, proprio quella che in quel momento si stava fumando ma che, purtroppo, era l’ultima in suo possesso.




LA PERIZIA BALISTICA
E’ inesatto ritenere – si accertò nella perizia  – che l’Abbruzzese fosse stato ferito con la stessa rivoltella che sarebbe stata quella consegnata ai carabinieri quella sera stessa subito dopo il fatto da parte di Leonardo Romano. Vero che questi ebbe a consegnare ai carabinieri una pistola che disse di aver raccolto vicino al ferito, quando questi giaceva a terra sanguinante, ma trattasi di una delle tante affermazioni fatte dal Leonardo in modo falso o incompleto. La storiella della rivoltella rinvenuta a terra, ad una distanza dal ferito, riferita diversamente era in un modo o in un altro dallo stesso Leonardo, in quelle circostanze di tempo e di luogo si presenta quanto mai dubbia ed equivoca. Se veramente la rivoltella fosse stata lasciata in quel posto dallo stesso ferito, non si riesce a spiegare come mai la stessa pistola era scarica di tutti i suoi bossoli che pur dovevano essere rimasti nel tamburo – dopo che l’Abbruzzese ebbe a farne uso fuori la casa di Leonardo Romano e di sua madre Generosa. E giustamente fu osservato che, se il Leonardo dopo avvenuto il ferimento, ebbe ad uscire di casa ed avvicinarsi al ferito avrebbe avuto cura più che di portare in caserma la rivoltella – con inspiegabile urgenza – di portare o far portare soccorso al ferito che sanguinava terra e fu rimosso per essere portato in ospedale solo quando – dopo circa mezz’ora – sopravvennero i carabinieri.
Poi successivamente,  Pasquale Romano,  contrariamente a quanto aveva sempre affermato ai carabinieri, uscì col dire che l’arma sequestrata dai carabinieri – cioè quella rinvenuta a terra da Leonardo Romano – presso il ferito – si apparteneva ad esso Pasquale Romano. Ma tale affermazione – fu chiarito – era indubbiamente falsa perché il calibro della pistola sequestrata era di 10,42 non poteva essere esploso da quella canna il proiettile che colpì l’Abbruzzese, la cui ferita da arma da fuoco alla regione ipocondriaca sinistra (foro di entrata)era di mezzo centimetro, e quello posteriore in corrispondenza della loggia renale sinistra (foro d’uscita)  il cui proiettile fece assumere alla ferita una forma non più  ovulare ma rettangolare – di misura maggiore ma certo non tale da provenire da un proiettile d’arma da fuoco di calibro 10,42. Il che sta a dimostrare che il proiettile omicida proveniva da altra rivoltella, che non quella sequestrata, così come lo stesso Pasquale Romano aveva sempre affermato e se poi ebbe costui ad affermare il contrario se ne deve dedurre che trattasi di un altro tentativo per intorbidare le acque e nascondere la verità. Una cosa è certa l’Abbruzzese fu ferito da altra pistola e che quindi anche quelli coi quali era avvenuta la lite – per lo meno uno di essi – era armato.
L’Abbruzzese quindi – fu raggiunto – secondo i periti – da colpi esplosi a breve distanza e ciò fa dedurre che lui era un inseguito (ubriaco e barcollante) e non un inseguitore.


LE TESTIMONIANZE
Chiara è, tra l’altro, la deposizione di Carmela Bevilacqua, resa ai carabinieri, in un momento in cui non si sapeva dell’esistenza di altre lesioni ( infatti non era stata ancora depositata la perizia generica)prodotte con una zappa e nella quale dichiarazioni si accenna appunto a colpi di zappa inferti da Pasquale Romano. Tale particolare – stigmatizzarono gli inquirenti - vale a ribadire l’esattezza della perizia generica che vale anche a comprovare che quando in un primo tempo la Bevilacqua, amante e concubina dell’Abbruzzese e sorella alla moglie del Leonardo ebbe a deporre dichiarò la verità. Anche questa volta la versione di Leonardo Romano combacia perfettamente  con quella di Pasquale Romano, il quale assumeva che fu costretto ad uscire fuori casa della suocera dalle minacce dell’Abbruzzese, che, inseguendolo sulla strada  gli esplose contro 5 colpi della sua arma, fortunatamente andati a vuoto, continuando ad inseguirlo ed a sparare.
LA RICOSTRUZIONE DEL  DELITTO
Mentre stava per essere raggiunto aveva estratto a sua volta una pistola a tamburo ed aveva esploso un colpo contro l’altro, dileguandosi verso le campagne, senza rendersi conto se l’Abbruzzese fosse stato ferito. Tornato sui propri passi aveva visto l’Abbruzzese – che è suo zio – a terra incontrandosi poi con il Leonardo e quindi coi carabinieri. Soggiunse che l’arma di cui si era servito l’aveva buttata per terra nella campagna. Questa seconda versione dei due Romano si combacia però con quella resa da Felicia Romano, sorella del Leonardo e moglie di Pasquale. Costui, infatti, narrava che quando l’Abbruzzese  uscì dalla cantina si unì al di lei fratello e al di lei marito e che prima di rincasare venne a lite con il Leonardo col quale venne alle mani. E siccome il Lonardo era privo di arma, mentre l’Abbruzzese si era provvisto, Pasquale Romano intervenne in suo aiuto. Fu allora che l’Abbruzzese esplose due o tre colpi di pistola andati a vuoto e poi scappò verso via Ponte Cardino inseguito dai due. Identica deposizione fu resa da Maria Romano, sorella di Leonardo, la quale però precisava che il fratello Leonardo l’aveva sorpresa nell’atto di abbracciarla a viva forza. E la stessa Carmela Bevilacqua – che pur essendo l’amante dell’Abbruzzese – era sorella della moglie  di Leonardo Romano -  affermò recisamente che aveva sentito gridare l’Abbruzzese che diceva: “Madonna Pasquale mi ha dato una zappata”. I carabinieri, tra l’altro, riferirono che non fu possibile raccogliere altre testimonianze, in quanto sia l’oste che gli avventori avevano paura di rappresaglie da parte dei cugini Leonardo e Pasquale Romano che era preceduti di avere fama di ladri, rissosi, criminali e violenti vendicatori. Ma se la causale del delitto -  ipotizzarono ancora i giudici - non risulta  e non è dato precisarla non può tale lacuna arrestare il corso della giustizia che segue il suo verso con le risultanze che offre e niente altro. Nella specie trattasi di delitto compiuto fra soggetti che vivono appartati dal resto della società ( nomadi ) una vita oscura e misteriosa e spesse volte dedicata ad attività imprecisabili in cui il concetto morale dell’onestà e dell’onore è tutto proprio ed i rapporti di parentado e di affinità  si confondono con quelli del comparaggio e dell’incesto. In mezzo a tale groviglio di rapporti non è possibile individuare una causale chiara e precisa né gli imputati l’hanno offerta per avvalorare sempre più la tesi dell’ubriachezza dell’Abbruzzese ed il suo contegno arrogante e provocatorio. 




IL PROCESSO

 

La Corte di Assise di S. Maria C.V. il 21 marzo del 1951, ritenne entrambi gli imputati responsabili di concorso in omicidio volontario e col beneficio, della provocazione e delle attenuanti generiche, li condannò a 10 anni di reclusione ciascuno.



Durante il processo di primo grado svoltosi innanzi alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Pasquale Taglialatela, Pubblico Ministero Angelo Peluso) un testimone oculare (falso) nominato dagli avvocati difensori degli imputati a discarico degli stessi, ebbe a dichiarare che all’ora del delitto aveva visto Pasquale Romano sparare un colpo di pistola all’indirizzo di Vincenzo Abbruzzese che stava per raggiungerlo. Gli stessi parenti dell’ucciso – che erano anche parenti degli imputati – confessarono, nelle loro diverse deposizioni, nel prospettare una completa estromissione di Leonardo Romano ed una legittima difesa ( studiata a tavolino ma non credibile) per Pasquale Romano.
Nonostante le diverse tesi difensive la Sezione Istruttoria (un istituto che si potrebbe paragonare al Gip e Gup di oggi) decretò il rinvio a giudizio per entrambi gli imputati per omicidio volontario. La Corte di Assise di S. Maria C.V. il 21 marzo del 1951, ritenne entrambi gli imputati responsabili di concorso in omicidio volontario e col beneficio, per entrambi, della provocazione e delle attenuanti generiche, li condannò a 10 anni di reclusione ciascuno. Solo Leonardo Romano impugnò la sentenza ed il successivo ricorso per cassazione. Mentre Pasquale Romano, dal canto suo scontò per intera la pena. Nel processo di appello ( Presidente Pasquale Falciatore, pubblica accusa Federico Putaturo) Leonardo Romano, difeso dagli Avv.ti Alberto Martucci e Ettore Botti, che insistettero per una sentenza che riconoscesse al loro assistito, quantomeno una assoluzione per insufficienza di prove, se non la legittima difesa, si battettero strenuamente sia in appello che in cassazione. I giudici di appello furono scrupolosi e fecero le seguenti considerazioni: ”Se doveva bastare il contrasto fra quello che fu il frutto delle prime indagini , scaturite dalle deposizioni del ferito prima di morire e quelle riferite dai prossimi congiunti degli imputati – sorrette da precise ed inequivocabili prove generiche – e quelle che fu il frutto delle prove scaturite dopo, senza affatto dimostrare la infondatezza e l’inattendibilità delle prime, si arriverebbe alla bancarotta della giustizia punitiva. Tutto sta – continuarono i giudici nella motivazione della loro sentenza – a sapere scorgere nel contrasto dove sta la maggiore aderenza alla verità, dove sta la maggiore attendibilità e verosimiglianza e soprattutto, dove porta la logica delle cose e la voce delle prove accertate. Qui appare fin troppo evidente il gioco degli imputati che in primo tempo si appalesarono entrambi innocenti – ma quando poi videro che il ferito aveva parlato – accusandoli entrambi e specificando la partecipazione delittuosa di ciascuno, si resero conto che il diniego assoluto non andava bene per le loro tesi e pensarono di affrontare la responsabilità col minimo mezzo e cioè quello di una persona sola e non di due e più propriamente di quella persona che pei suoi precedenti penali, si prestava più facilmente ad affrontare un giudizio penale ed uscirsene con maggiore vantaggio. I giudici accertarono, infatti, che Pasquale Romano era incensurato mentre Leonardo Romano aveva già riportato numerose e gravi condanne tali da non poter godere del beneficio del condono e doveva finanche incappare nell’aggravante della recidiva (per aver commesso altro delitto anni prima).

Appare fin troppo chiaro – spiegarono i giudici – infine che quando Leonardo Romano non aveva escluso e lontano dalla perpetrazione del delitto riusciva facile per Pasquale Romano sbandierare una legittima difesa di fronte ad un ubriaco armato di grossa pistola a tamburo. Di qui si scorge che in un primo tempo, sul fervore delle prime indagini, quando cioè le parti ed i parenti stessi dell’imputato e dell’ucciso non avevano avuto tempo di mettersi d’accordo e di scegliere una  via di difesa, questi stessi parenti, ebbero a dire la verità e descrivono il Leonardo  insieme col Pasquale inseguire l’Abbruzzese, dopo che questi, nell’esaltazione della sua ubriachezza ebbe ad esplodere i colpi della sua rivoltella. L’Abbruzzese, quindi, era un inseguito e non un inseguitore e quelli che lo inseguirono non possono certo in tali condizioni parlare di legittima difesa, una volta che tale era stata da essi liberamente e volontariamente scelta.


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