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domenica 24 maggio 2015


Accadde a Casaluce il 19 agosto del 1948
UN DELITTO PER IL FURTO DI ALCUNE
PIANTE DI GRANTURCO

Il fratello più giovane confessò il delitto ma era innocente. Una rissa con falce, zappe e una lupara caricata a pellettoni… l’attaccamento alle tradizioni contadini di farsi giustizia da sé.


L’antefatto

Il mattino del 19 agosto del 1948, in  agro Casaluce, il contadino 18enne Pasquale Giannino, venne ucciso con un colpo di fucile da caccia esploso alla nuca a meno di un metro di distanza ( a bruciapelo). Nella sera dello stesso giorno il capraio Armando Sannino, di Luigi, da Aversa, si presentò ai locali carabinieri e si dichiarò autore del delitto consegnando, tra l’altro anche, anche l’arma del delitto: un fucile a 2 canne cal. 16 con retrocarica. Raccontò che il mattino precedente, assieme al fratello Nicola Sannino, mentre lavorava nel fondo paterno, contiguo a quello di Antonio Sannino e Filomena Corvino, genitori dell’ucciso, allorquando la  donna aveva affrontato il fratello Nicola, accusandolo di averle rubato numerose piante di granturco nei giorni precedenti. Ne era nata una lite ed in appoggio alla Corvino erano intervenuti quattro suoi figli e cioè: Pasquale Giannino, un fratello e due sorelle,  queste ultime con un falcetto avevano ferito suo fratello Nicola. Nel frattempo, il Pasquale Giannino si era armato di un fucile da caccia,  prelevato dalla sua vicina abitazione, tornando minacciosamente sul posto ed egli si era affrettato a cercare di disarmarlo; ma nella colluttazione era partito accidentalmente un colpo,  e mentre il fucile era rimasto nelle sue mani,  il Giannino era caduto ucciso. Sembrava un racconto logico ed esatto sulla dinamica del delitto,  ma non era né logico (come si accerterà in seguito) né esatto. Nella stessa serata, infatti, si presentava ai carabinieri anche Nicola Sannino, il quale confermava le dichiarazioni di suo fratello Armando e, sottoposto a visita medica, risultò ferito  di escoriazioni all’avanbraccio destro e lesioni  da taglio per colpi di falcetto alla regione super scapolare destra con una guarigione di circa 10 giorni. La competenza delle indagini venne spostata per territorio in quel di Casaluce e gli inquirenti – dopo diligenti indagini della Fedelissima – accertarono (contrariamente al fantasioso racconto fatto ai colleghi di Aversa) che autore del delitto non era stato Armando Sannino, così come aveva confessato ai carabinieri di Aversa, bensì Nicola Sannino. In base alle indagini si accertò che nella notte tra il 7 e 8 agosto e il 25 e 16 agosto del 1948, ignoti ladri avevano tagliato e asportato un migliaia di piante di granturco dal terreno dei coniugi Antonio Giannino e Filomena Corvino, e il comandante della stazione, alla denuncia del furto, aveva convocato in caserma Luigi Sannino, vicino di fondo dei due coniugi, per chiederli se avesse visto o saputo qualcosa e per esortarlo a domandare ai suoi figli – ritenuti capacissimi di commettere furti del genere. Luigi  Sannino, presentatosi in caserma per essere interrogato,  disse persino di ignorare che i suoi vicini avessero subito dei furti e si impegnò a comunicare  ai carabinieri ogni notizia che avesse appreso inerenti i furti stessi e subito si allontanò, apparentemente tranquillo.
Il delitto

Un’ora dopo Luigi Sannino, giunto in campagna e visti i due figli dei suoi vicini, i giovani Alfonso e Armando Giannino,  fece chiamare la loro madre Filomena Corvino, e appena sopraggiunta la donna, la investì con insulti,   ingiurie e minacce e lagnandosi che  - per colpa sua – i carabinieri lo avessero convocato in caserma e siccome era accorso sul luogo il marito della Corvino, Antonio Giannino, cercando di calmarlo, pure contro di lui si rivolse il Giannino con frasi di grave minacce, senza che l’altro – uomo di estrema mitezza e remissività – si azzardasse a reagire. Indi, richiamato dal fischio del padre dal vicino terreno era sbucato come un bolide il figlio Nicola Giannino, armato di falcetto, lanciandosi contro la Corvino.  Lo aveva affrontato una figlia ventenne della Corvino, Natalina Giannino, afferrandolo e stringendolo a sé per immobilizzarlo e dare tempo alla madre di fuggire, ma quegli aveva colpito la ragazza con il manico del falcetto al dorso e le aveva assestato vari schiaffi,  riuscendo a liberarsi della sua stretta e raggiunto la Corvino l’aveva gettata a terra assieme al marito percuotendola – in ciò coadiuvato dal padre Luigi Sannino, nonché dal fratello Armando e gli altri fratelli Carlo e Luigi,  ugualmente accorsi sul posto. Nella zuffa la corvino era riuscita a togliere il falcetto dalle mani del Sannino e Armando Sannino, a sua volta, aveva tolto la zappa al ragazzo Alfonso Sannino e con essa aveva cercato di colpire Natalina Giannino  che, però, aggrappandosi al suo collo,  aveva potuto in parte schivare il colpo. Intanto erano pure accorsi Fiorinda Caterino, figlio di primo letto della Corvino, e quindi il suo giovane fratellastro Pasquale Giannino e contemporaneamente Nicola Sannino si era distaccato  dal gruppo dei contendenti per riapparire,  poco dopo, armato di fucile a due canne e von esso aveva esploso un colpo contro Pasquale Sannino uccidendolo. Secondo gli inquirenti,  Nicola Sannino (come del resto tutti a quell’epoca ed in quella zona dell’agro aversano)  teneva il fucile celato in una baracca,  situata ad una trentina di metri di distanza nel fondo di tale Nicola Perfetto,  presso la quale i carabinieri avevano rilevato sul terreno una impronta di piede che era risultato corrispondente – anche per il segno di una leggera imperfezione al piede sinistro di Nicola Sannino. Questi, in due diverse dichiarazioni rese ai carabinieri di Casaluce, aveva finito con riconoscersi autore del delitto scagionando il fratello Armando – accusatosi in sua vece – ma insisteva col dire che la questione era sorta per iniziativa della Corvino,  e dhe il fucile non era affatto suo bensì della vittima Pasquale Giannino al quale – a suo dire – era riuscito a toglierlo. In particolare sulla circostanza – in un primo momento – il Sannino dichiarò che nel corso della zuffa aveva visto il Pasquale  Giannino che correva verso la sua abitazione e ne era ritornato subito portando un fucile in mano a due canne.

Il falso racconto dell’assassino
“Allora -  raccontò falsamente l’assassino – appena giunto a lui vicino, con atto fulmineo, mi sono impossessato del fucile e ho diretto l’arma alla sua nuca e contemporaneamente l’ho sparato. Non avevo, tuttavia, volontà di ucciderlo unicamente perché in quel momento avevo perduto i sensi e non sapevo ciò che facevo”.
In  una seconda deposizione volle aggiustare,  ai fini difensivi il tiro,  e  dichiarò: “Preciso che quando corsi incontro al  Pasquale Giannino per togliergli il fucile gli diedi uno schiaffo, ma egli trattenne ancora l’arma che tentò di dirigere contro di me – al che il padre Antonio Giannino gli assestò un altro schiaffo in conseguenza del quale egli abbandonò l’arma in mano e si girò verso la strada di San Lorenzo. Fu allora che puntai l’arma e feci partire il colpo. Appena egli cadde a terra la madre Filomena  Corvino si avventò contro di me per togliermi il fucile e nella circostanza mi diede un colpo di falce allo avanbraccio destro”.
Dal canto suo Antonio Sannino, al fine evidente di salvare suo  fratello essendo lo stesso – essendo lo ste4sso coniugato e con prole  ed egli celibe – insisteva ancora nel dichiararsi autore del delitto ma, dopo la prima confessione del fratello a sua volta confessava ma ripeteva che la Corvino aveva dato causa alla lite accusando  dei furti lui e suo fratello e quindi aggiungeva a maggiore chiarimento: “ Nicola andò contro di lei ma ella si difesa con uno zoccolo. Io che tagliavo l’erba accorsi con la falce in mano. Rincorremmo  la Corvino – che si era data alla fuga – e la raggiungemmo dopo breve distanza. Ebbe luogo, allora, una colluttazione nella quale ella cadde a terra e io e Nicola la colpimmo  più volte con le mani e io le assestai anche un colpo di falce dopo di che reagii con due schiaffi anche contro il marito Antonio Giannino – accorso dopo – il quale implorava di non usare violenza  contro di lor. Subito dopo – vedendo il figlio Alfonso Giannino con una zappa in mano -  gliela tolsi e l’alzai contro Natalina Giannino la quale si fece a me sotto e mi cinse il collo con le sue braccia e la zappa cadde. Nel frattempo mio fratello Nicola – vedendo che Pasquale Giannino arrivava con un fucile in mano – gli corse incontro e, dopo avergli assestato uno  schiaffo gli tolse detto fucile. Il Giannino,  intimorito,  si girò indietro e stava per scapparsene, ma mio fratello Nicola gli puntò il fucile contro e lo sparò”.   Ma all’epoca non era molto conosciuto lo stub o il guanto di paraffina, (tecniche investigative per sottoporre ad esame lo sparatore) per cui difficile era la perizia per stabilire se l’arma che sparò nel corso del delitto era il fucile esibito ai carabinieri e se era vero o meno che si appartenesse  all’ucciso o all’uccisore.  Come è noto la tecnica si basava sul rilevamento di diverse componenti dell’innesco e delle polveri di lancio dei proiettili di arma da fuoco (solfuro di antimonio, nitrato di bario, stifnato di piombo, nitrocellulosa, ecc.) che si vaporizzano all’atto dello sparo, risolidificano rapidamente e si depositano sulle mani (specie sulle prime due dita della mano che impugna l’arma), sul viso e sugli abiti della persona che ha sparato, sotto forma di particelle microscopiche. Queste possono essere rilevate chimicamente anche dopo alcuni giorni. L’inconveniente principale, che ha portato gradualmente all’abbandono di tale tecnica, risiede nel fatto che i reagenti utilizzati nella prova si comportano allo stesso modo con una molteplicità di altre sostanze (fertilizzanti, saponi, solventi, ecc etc...), offrendo un troppo elevato rischio di rilevare un “falso positivo”, e quindi, in pratica, di portare all’incriminazione per delitti gravissimi anche persone che fossero venute in contatto con una di queste sostanze per ragioni diverse da quelle delittuose. A causa di tali inconvenienti, questo metodo è stato soppiantato da una tecnica più specifica per la raccolta dei residui, denominata stub (tampone) che consiste in un particolare tampone (o in alternativa delle strisce adesive fissate a un supporto metallico) che viene passato sulle mani e sugli abiti del sospettato. Le particelle sensibili sopra descritte ed eventualmente raccolte in questo modo vengono poi individuate in laboratori specializzati con l’ausilio di microscopi elettronici (associati a microspettrofotometri), o mediante attivazione neutronica ed altre metodiche.






  


La Corte di Assise di Santa Matia Capua Vetere con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione lo condannava ad anni 14 di reclusione.


Al termine delle indagini i carabinieri, con un loro rapporto,  denunciarono i fratelli Nicola e Antonio Sannino, il padre Luigi, e gli altri fratelli,  Carlo e Luigi per concorso in omicidio e rissa aggravata ed inoltre denunciarono anche Filomena Corvino, e i figli Alfonso e Natalina e la figlia di primo letto,  Fiorinda Caterino.  Intanto l’autopsia aveva accertato che la morte di Pasquale Giannino era avvenuta con un unico colpo di arma da fuoco a canna lunga cal.16,  caricato a pallettoni, ( la cosiddetta “lupara” molto usata dalla mafia),  esploso a distanza ravvicinata a meno di un metro e mezzo e leggermente dal basso verso l’alto e da tergo per il quale la vittima aveva riportato una grossa ferita del diametro di 5 cm. all’occipite e alla base del cranio, con spappolamento e fuoriuscita di sostanza celebrale. Si accertava, inoltre, che Nicola Sannino era guarito in giorni 30, dalle sue lesioni e la Corvino  e la figlia in giorni venti; l’una per una ferita lacero-contusa e da varie escoriazioni ed ecchimosi e l’altra da una contusione escoriata. La sezione istruttoria della Corte di Appello di Napoli con sentenza del 4 maggio 1950, rinviava al giudizio della Corte di Assise del Tribunale di S. Maria C.V. i fratelli Nicola e Armando Sannino e il loro padre Luigi,  per rispondere il Nicola di omicidio volontario, omessa denuncia e porto abuso di arma; tutti di lesioni con arma in danno della  Corvino e della  Fiorinda Caterino. Nicola e Luigi Sannino, inoltre, di ricettazione di effetti e oggetti dell’amministrazione militare; (refurtiva rinvenuta in casa di Luigi dai carabinieri). Con la stessa sentenza la sezione istruttoria proscioglieva Armando e il padre Luigi dall’addebito di concorso in omicidio per insufficienza di prove. Proscioglieva la Corvino  ed il marito Antonio Giannino, e i figli Alfonso, Natalina e Fiorinda Caterino, per la rissa per non aver commesso il fatto e per ingiurie e minacce perché il fatto non sussisteva. Infine proscioglieva la Filomena Corvino da lesioni con arma in danno di Nicola Sannino per aver agito in stato di legittima difesa.  


La Corte di Assise di Santa Matia Capua Vetere, composta da: Presidente Giuliano La Marca, giudice a latere, Domenico Musiccò, pubblico ministero, Filippo D’Errico, ufficiale giudiziario Luigi D’Isa, giudici popolari: Fabrizio Zarone, Domenico Barbato, Francesco Balsamo, Renato Bova e Andrea Gentile, cancelliere Domenico Aniello condannò Nicola Sannino per omicidio con la concessione delle attenuanti della provocazione e quelle generiche ad anni 14 di reclusione.  Del verdetto – come è ovvio – nessuno fu contento e pubblico ministero e parti si appellarono. L’imputato invocava la mancata concessione del  motivo della legittima difesa ed in subordine il beneficio dell’eccesso colposo di legittima difesa, l’esclusione della volontà omicida e  il minimo della pena.  La Corte di Assise di Appello di Napoli,  (Presidente Pasquale Falciatore, giudice a latere, Mario Sabelli, procuratore generale, Filippo D’Errico), giudicando Nicola Sannino, di anni  23 all’epoca dei fatti, accusato di omicidio premeditato  aggravato in danno Pasquale Giannino, appellante, contro la sentenza della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del 24 aprile 1951,  con la quale era stato condannato con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione lo condannava ad anni 14 di reclusione. Nei tre gradi di giudizio furono  impegnati gli avvocati: Biagio D’Angelo, Enrico Altavilla, Alberto Narni Mancinelli, Cesare Di Benedetto e Ciro Maffuccini. La Corte di Cassazione,  intervenuta a decidere sul ricorso,  dopo l’appello,  acclarò che il conteggio  della pena inflitta dalla Corte di Assise  di Santa Maria Capua Vetere  era pianamente  aderente alla realtà dei fatti anche se non aveva indicato in modo esplicito  le ragioni che imponevano di limitare a quattro e a tre anni rispettivamente la riduzione di pena per la provocazione e per le attenuanti generiche, tuttavia, non ha mancato di giustificare  la sua decisione  attraverso tutta la motivazione della sentenza sicché l’imputato a nulla si può dolere.


 Il primo giudice – dissero i magistrati in ermellino – ha valutato con indulgenza anche eccessiva la posizione dell’imputato in rapporto alle attenuanti”. Quanto alla provocazione, infatti, l’attenuante risulta concessa perchè l’imputato nel commettere il suo delitto – avrebbe agito in stato d‘ira  - dovuto al duplice fatto ingiusto altrui; in quanto egli già sarebbe stato  ferito e in quanto avrebbe avuto torto il giovane Pasquale Giannino ad intervenire e armato in una lite che si svolgeva “a parole e con violenza di lieve entità”. La Corte di Cassazione confermò in toto la sentenza.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta 





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