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domenica 28 giugno 2015









Accadde a Marcianise il 28 agosto del 1949

PROFESSORE  UCCISO DAL COLONO CHE AVEVA SFRATTATO
 La storia

La mattina del 28 agosto del 1949, in località “Castello Lariano” in agro di Marcianise l’agricoltore Francesco Pasquariello esplodeva due colpi di fucile  da caccia contro il professore Nicola Di Benedetto, Preside della Scuola Media, cagionandone la morte per gravissime lesioni all’organo cardiaco e del polmone sinistro.  L’omicida si dava quindi alla fuga disfacendosi dell’arma che veniva più tardi – su indicazione del colpevole – recuperata in un pozzo in contrada “Cesaro” a circa un chilometro dal luogo del delitto. La vittima, inutilmente soccorsa dalla moglie – sopraggiunta qualche minuto dopo – veniva trasportata a braccia in un ambiente terraneo della sua abitazione distante poche decine di metri. Il Dr. Giuliano Foglia con studio in  Marcianise, chiamata di urgenza ne constatava la morte. Il Prof. Di Benedetto, risultò poi dalla perizia autoptica che era stato attinto dai colpi di fucile alla regione tempore-molare di sinistra,  lesione che aveva interessato anche la regione sopracciliare e l’angolo dell’occhio destro.  I caratteri delle riscontrate lesioni consentivano ai periti – in risposta ad analogo quesito del magistrato inquirente – di argomentare con sicurezza che il colpo al dorso fu esploso alla distanza di tre o quattro metri con tramite da destra verso sinistra leggermente basso verso l’alto (l’offensore doveva trovarsi  più in posizione più bassa rispetto alla vittima) il colpo alla regione mascellare fu esploso a bruciapelo e con direzione dall’alto in basso – come stava ad indicare la bruciacchiatura, la vasta distruzione dei tessuti e la penetrazione profonda in cavità dei pallini,  uno dei quali rinvenuto nell’apice del polmone sinistro.

Francesco Pasquariello si costituiva - alcune ore dopo il delitto – ai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere confessando l’omicidio.



  La vittima doveva essere a terra e l’offensore in piedi nell’atto dell’esplosione di questo ultimo colpo.



Il Pasquariello si costituiva - alcune ore dopo il delitto – ai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere confessando l’omicidio. Rendeva ampio interrogatorio dichiarando di aver ucciso il Di Benedetto per averlo costui ingiustamente sfrattato dal fondo-giardino condotto in fitto nel quale – sin dal 1937 – aveva egli profuso lavoro, danaro e passione per il progressivo miglioramento tecnico del terreno. Dopo tanti anni di pacifica conduzione il proprietario pretese gli aumenti sulle originarie condizioni di fitto.  Egli,  resistendo anche alle esagerate richieste, corrispose l’estaglio in ragione di tre fasci di canapa oltre le prestazioni. Per tale divergenza il Di Benedetto nel 1941 chiese nei suoi confronti ingiunzione di sfratto conciliando poi la lite. Instaurò, però poco dopo, altri giudizi chiedendo maggiorazioni sul prezzo della canapa in relazione alle annate coloniche 1947,1948 e rispettivamente del 20% e dell’8%. Restando egli inadempiente in rapporto a tali richieste, per le quali il Pretore adito gli aveva imposto un deposito di 43 mila lire fu pronunciata a suo carico ordinanza di sfratto per morosità previa imposizione all’attore di cauzione in lire 200 mila.
Ho  ucciso il Di Benedetto perché  costui  mi ha ingiustamente sfrattato dal fondo condotto in fitto nel quale – sin dal 1937 – ho profuso lavoro, danaro e passione per il progressivo miglioramento tecnico del terreno.





Una considerazione: 43 mila lire per il povero contadino di Marcianise dovevano rappresentare una bella cifra (circa 20 euro di oggi!); allora il terreno agricolo in zona era quasi tutto coltivato a canapa. Si consideri il fatto che – per avere una idea del costo della vita – un chilo di pane costava 110  lire; la pasta 186 lire, la carne 915; due uova 65 lire, un litro di vino, 105 lire; un paia di scarpe da uomo meno di 5 mila lire; un biglietto per il cinema 90 lire ed un giornale quotidiano 15 lire. Ma ritorniamo al delitto del colono.
Estromesso quindi dal fondo – che rappresentava il suo unico cespite – risultata vane tutte le aspettative di una opportuna sistemazione in altra zona – egli si sentì spinto al delitto da una intera esigenza che guadagnava progressivamente il suo campo spirituale. In definitiva, per dirla breve, il povero colono si sentì schiacciato da quella pretesa del prof. Di Benedetto. Ma a volta anche il diavolo ci mette la coda. Ed appunto quella mattina del 28 agosto mentre se ne stava tutto solo  in casa (la moglie in chiesa e i figli diretti a Napoli) ebbe modo di vedere – dalla finestra della sua abitazione – sita di fronte all’edificio occupato dal Prof. Di Benedetto, di sorprendere in amichevole colloquio il preside suddetto e tal Vincenzo Valentino che lo aveva preceduto nella conduzione del fondo in parola fino al 1937. Intuendo che tra i due si stesse gettando le basi di un accordo avente ad oggetto il terreno del quale egli Pasquariello era stato così sconsideratamente spossessato fu preso da una scarica emotiva incontenibile che lo fece emergere nella sua coscienza – come entità ormai insopprimibile – il non recente proposito di uccidere  il suo nemico unitamente al Valentino che sotto gli occhi gli portava via quel “fondo-giardino” abbietto delle sue aspirazioni.
Il colono aveva divisato di ucciderli entrambi:
 “Vincenzo Valentino sei vivo per miracolo!”
Nel percorrere il giro della sua abitazione che avrebbe dovuto permettergli – inavvertitamente di piombare sui due – trascorse tutta una frazione di tempo sufficiente all’inconsapevole Valentino di sfuggire alla sorte riservatagli. Questi, infatti, si era nell’intervallo allontanato in bicicletta in direzione di Marcianise mentre all’irrompere del Pasquariello il Di Benedetto stava accingendosi a lasciare le appartenenze della sua casa, diretto ad una prossima chiesetta campestre, ove si sarebbe ricongiunto alla moglie che lo aveva preceduto. Il Pasquariello gli esplose contro un primo colpo di fucile. Il preside si volse un istante a guardarlo; si diede quindi alla fuga imboccando la strada che mena verso la frazione Trentola. Il Pasquariello lo inseguì e raggiuntolo, lo fece segno ad una seconda fucilata, dopo la quale l’altro si abbatté.
Nel corso delle indagini i carabinieri interrogarono la moglie dell’ucciso Caterina Santoro la quale informava dell’inadempienze contrattuali del Pasquariello, delle minacce di costui al marito del deesiderio comuine dei coniugi di risolvere il contratto nei riguardi  di quel fittuario dalla condotta preoccupante. Il Vincenzo Valentino (scampato alla morte ignaro) si era recato in casa loro quella mattina come soleva fare spesso per la parentela spirituale contratta col Di Benedetto che aveva accettato di cresimare un suo figliolo. Nessuna offerta o richiesta di affitto in relazione al fondo-giardino sottratto al Pasquariello. La moglie di quest’ultimo Angelina Rossetti dichiarava che dopo la procedura di sfratto ingiustamente subita il marito era totalmente trasformato manifestando spesso in famiglia il proposito di finire con la morte quegli che l’aveva messo alla sbaraglio  dopo tanti sacrifici. Ella ed i figliuoli  lo avevano continuamente esortato a sgombrare il suo animo da questi sentimenti di vendetta ed attendere con fiducia l’esito del giudizio di appello. Appena lei apprese dell’uccisione del preside, ricollegò – ancora prima che se ne indicasse l’autore – quell’evento all’insano divisamento del congiunto.

Vincenzo Valentino,  opportunamente interrogato dichiarò di essersi recato a casa del professore per consegnare del pane biscottato confezionato dalla moglie molto gradito al professore medesimo. Ribadì che non si parlò affatto – in quella occasione – di un eventuale fitto del fondo-giardino; ed in ogni caso egli avrebbe declinato ogni richiesta in proposito sia per non far torto al Pasquariello (che però ignorando la cosa lo voleva uccidere) suo buon amico sia perché già molto impegnato nella conduzione di altri terreni. Egli discese col professore al piano terreno e si accomiatò subito dallo stesso per proseguire nel suo cammino.
Una testa oculare tale Pasqualina Smeragliuolo – la quale essendo dinanzi alla chiesetta campestre – udì d’improvviso una prima esplosione voltatasi ad osservare notò una  persona correre nella strada  che mena verso Trentola inseguita da un’altra persona armata di fucile. L’inseguito procedeva a ritroso e faceva gesti con la mano,   come per potersi scagionare. L’inseguitore fece fuoco, l’altro cadde. Ella non riconobbe alcuno dei protagonisti e non occorse con gli altri ad osservare ancora posseduta dal panico. Instauratasi l’azione penale contro il Pasquariello per omicidio premedito nei confronti del professore e di tentato omicidio in persona del Valentino l’imputato nelle sue numerose dichiarazioni confermò il movente: lo sfratto. 


Confermava di voler sopprimere anche il Valentino credendo nel subentro del fondo-giardino. Poi cambiò versione (forse il suo avvocato gli aveva riferito che il Valentino  negli interrogatori aveva dichiarato non aspirava alla conduzione del fondo da cui lui era stato sfrattato) e negò di aver voluto uccidere oltre al professore anche il Valentino. Furono ascoltato numerosi testi sulla cronistoria dell’annosa vicenda. Furono escussi: Salvatore Foglia, l’avv. Alfredo Mele, Nicola Moriello, Pietro Letizia, Francesco Smeragliuolo, Vincenzo Grillo, Raffaele Smeragliuolo, Antonio Piccolo, Pasquale Cirillo, Vincenzo Rossi, Maria Tartaglione, il sindaco Girolamo Viciglione, il segretario comunale  Francesco Delli Paoli e il prof. Ferdinando Guerriero, successore del preside ucciso e il geom. Ignazio Cipolletta,  che aveva redatto la perizia di stima dei terreni. 

Il maresciallo dei carabinieri riferito alla Corte di alcuni gesti di intimidazioni inflitti alla vedova da ignoti dopo il delitto consistenti nello sparo di alcuni colpi contr4o le finestre della sua abitazione  e in replicate molestie ai danni del guardiano incaricato alla vigilanza del fondo-giardino. Emerse la sorda ostinazione del Di Benedetto, a tener conto delle giuste esigenze del colono; che aveva notevolmente incrementato l’avviamento tecnico-culturale del fondo-giardino; allo sfacelo economico del Pasquariello che per tener fece agli impegni assunti col proprietario era totalmente decotto al punto di non trovare neppure più credito. Si apprendeva delle sue peregrinazioni e della ricerca in agro di Mondragone di un pezzo di terra che gli consentisse di ricostruirsi una vita; di volontarie lontananze dal luogo del dissidio allo scopo di imporre una diversione all’istintivo insorgere di  impulsi di violenza. La Sezione Istruttoria disponeva del rinvio per omicidio premeditato e porto abusivo di arma,  nonché di sparo in luogo pubblico. Proscioglieva, però, l’imput5ato per il tentativo di omicidio in danno di Vincenzo Valentino perché il fatto non costituiva reato.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta     
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 Non ci fu provocazione ma la Corte non riconobbe le attenuanti generiche in quanto l’imputato era recidivo. La condanna fu ad anni 23 e mesi sei. Tre anni di libertà vigilata.
La Corte di Assise di S. Maria C.V.,  con sentenza del 16 febbraio 1952 (Presidente Paolo De Lise, giudice a latere Victor Ugo De Donato, pubblico ministero Pasquale Allegretti, giudici popolari: Giuseppe De Rosa, Giuseppe Iovane, Giuseppe De Chiara, Riccardo Ricciardi, Gennaro Cervo e Pietro Sanfelice) si occupò del processo a carico di Francesco Pasquariello,  nato a Marcianise di anni 55,  arrestato  il 28 agosto del 1949, accusato di omicidio con premeditazione  perché con due colpi di fucile volontariamente uccideva  il professore Nicola Di Benedetto di anni 42 da Marcianise Preside della locale Scuola Media. Nel corso del dibattimento il Pasquariello contestava di aver premedito il delitto assumendo di essere stato indotto ad agire sol quando – al momento del colloquio – che si svolgeva tra il Di Benedetto  ed il Valentino egli occorse di intercettare una frase che gli fu motivo di estrema apprensione. Il professore  - alludendo al colono di recente sfrattato annunziò al suo interlocutore che egli avrebbe estromesso anche i figliuoli di lui da altri fondi ceduti in fitto agli stessi in agro di Trentola. Fu la frase che lo condannò a morte. La moglie della vittima Caterina Santoro,  dichiarava che  anche il figliuolo del Pasquariello recatosi da lei,  per chiedere l’intercessione presso il professore in favore del padre, le manifestò i suoi timori in rapporto a talune inequivoche minacce espresse dal Pasquariello all’indirizzo del proprietario inflessibile alle sue decisioni.  Ella apprese anche da altri – posteriormente al delitto – dei foschi    propositi dell’omicida pubblicamente palesati in odine ai quali – tuttavia – nessuno era disposto a testimoniare.   La moglie dell’imputato negava di aver mai riferito delle intenzioni omicida del marito tratto al delitto da improvvisa determinazione. Il nipote dell’imputato Giacomo Pasquariello  informava che lo zio – durante la sua permanenza a Mondragone  - era riuscito ad assicurarsi l’affittanza di un certo numero di moggia di terreno di proprietà di Giuseppe Irace trattando con il fattore della famiglia Irace. I difensori dell’imputato, gli avvocati  Generose Iodice, Alfredo De Marsico  e Alberto Narni Mancinelli, chiedevano l’esclusione dell’aggravante della premeditazione e le attenuanti della provocazione e quelle generiche. Il Pubblico Ministero con la concessione delle generiche chiedeva una condanna a 27 anni di reclusione. Alla richiesta si associava la parte civile rappresentata dagli avvocati: Alberto Martucci, Ciro Maffuccini e Giuseppe Adinolfi. La Corte emetteva il proprio verdetto escludendo le aggravanti della premeditazione, con la motivazione che  “la premeditazione va sorpresa in segni inequivocabili quali la piena  preordinazione dei mezzi e la scelta accurata del momento propizio non essendo agevole per altre vie penetrare negli anfratti reconditi dell’animo umano.  L’odio implacabile, l’acuto desiderio della vendetta, quello assaporamento remoto della folgore che ristabilirà l’occhio fuorviante del colpevole, l’ordine violato della vittima, sono sì espressioni macroscopiche del tendere di quell’animo al delitto ma non esauriscono in poche pennellate il chiaro-scuro  che è nelle coscienze del tumulto.  Sono i motivi che sospingono al male; ma questo precipitare all’evento ha le sue tappe, le sue ansie e i suoi ritorni di luce!  Finché il rigore di un supremo schianto non avrà rotto l’ormeggio e quell’anima pur nel fremito della annunziata decida consensi marginalmente il controllo delle ambizioni – il terreno del cimento psicologico è ancora nella fase di preludio;  la “risoluzione” ultima conquista  delle forze  devastatrici non si è ancora insediata alle leve del comando l’onore per la terra – tema ricco di letteratura -  faceva da fulcro all’estendersi di quel complesso di oscillazioni che rappresenta graficamente l’evoluzione di un impulso. Alla carica psichica mancava un ultimo stimolo che chiudesse il circuito. Inopinatamente e selvaggiamente all’apparire del Valentino – vecchio fittuario del fondo perduto – la somma di tutte le sofferenze patite, delle rinunzie impostegli, della menomazione morale che soluzioni del genere comportano, ruppe l’instabile equilibrio interiore imprimendo alla sua azione il moto distruttivo che lo trasse all’epilogo!”. Non ci fu provocazione neppure ma la Corte non riconobbe le attenuanti generiche in quanto l’imputato era recidivo. La condanna fu ad anni 23 e mesi sei. Tre anni di libertà vigilata.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta     








     

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