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domenica 5 luglio 2015





Accadde a Casal di Principe nel 1949

UCCISE IL FRATELLO PER IL SOLCO DEL CONFINE TRACCIATO SUL SUO TERRENO
Caino e Abele degli anni Cinquanta si scontrarono per l’appoggio di un muro divisore, per il furto di un sacco di  noci e  di  un pioppo - 

 

Tre colpi  di pistola  al cuore per  regolare la vertenza-

 

La vittima si era confrontata con Ruggiero Pignata e Vincenzo Di Bello i mammasantissima  del posto.  Epoca in cui Bardellino e Sandokan erano ragazzi

L’imputo  infatti lamentava che nella divisione dell’eredità paterna il fratello ucciso  avesse avuto una parte maggiore ed i migliori terreni


Casal di Principe“Il sangue – si dice a Casale – si mazzica ma non si sputa”;  per dire  che nelle vicende che coinvolgono consanguinei non bisogna inveire, ma soffrire, sopportare e abbozzare qualsiasi conseguenza comporti. Ma la regola, a volte, è infranta.  Come per esempio nel caso dei “pentiti”, che accusano  i familiari. Viene così infranto il codice non scritto dell’etica del vivere… e allora si uccide, anche il fratello carnale. Brutta vicenda. Vediamo come e perché.  La mattina del 22 novembre del 1949 in località “Pietra Bianca”,  in agro di Casal di Principe,  Michele D’Angelo, di anni 47, esplodeva all’indirizzo del fratello Nicola Bernardo, di anni 51, agricoltore come lui, con un colpo di pistola uccidendolo. L’autopsia – ordinata dal magistrato inquirente – ed eseguita dal Dr. Ruggiero Ferraiuolo, accertava che il proiettile cal.8 penetrato nella regione sotto clavicolare sinistra, aveva leso il lobo superiore del polmone dello stesso lato, il pericardio ed il cuore. Le lesioni avevano prodotto una cospicua, irrefranabile emorragia che in breve tempo aveva cagionato la mote. I periti settori giudicarono che il colpo era stato esploso da una certa distanza e ciò sia per l’assenza di tatuaggi, affumicature o bruciature, sia perché il proiettile, pur avendo leso tessuti molli e pur senza essere fermato nel suo tragitto da tessuti ossei non aveva avuto tanta forza viva da generare una lesione trasfosso attraverso il corpo dell’ucciso.  Il colpo stesso aveva una direzione da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso e dall’avanti all’indietro; e l’offeso – al momento del fatto – doveva trovarsi in una delle seguenti posizioni: o in posizione curva verso l’avanti e quasi ad angolo retto, oppure in una posizione di molto più bassa rispetto a quella dell’uccisore.  Infatti – osservarono  i periti – se l’offeso si fosse trovato in posizione eretta, o se offeso ed offensore si fossero trovati sullo stesso piano, il proiettile, penetrato dalla regione sotto clavicolare sinistra sarebbe dovuto fuoriuscire dalla regione scapolare o nelle sue vicinanze, ma mai avrebbe potuto avere un tragitto che iniziasse dalla regione sotto clavicolare sinistra e terminava alla regione mediartinica.
L’uomo era stato ucciso proditoriamente e non in duello, così come voleva far credere l’assassino.


I carabinieri recatisi sul posto – verso le ore 12 – non trovarono il  cadavere perché già rimosso e trasportato in paese. E’ una usanza locale. Non aspettare  gli inquirenti e farsi giustizia da sé. Rilevarono, però, dall’ispezione dei luoghi che la vittima,  quado era stata raggiunta dal primo colpo di pistola, si trovava intento al lavoro nel suo fondo, precisamente a circa 3 metri  di distanza dal fondo del fratello Michele situato allo stesso livello. Infatti, a circa sei metri dal luogo dove Bernardo era caduto – luogo indicato da una larga chiazza di sangue – trovavasi un sacco di tela contenente attrezzi agricoli, più lontano, un cavalletto di legno, arnese occorrente ai contadini per la potatura delle viti, quando queste (le viti) come in quel posto, vengono associate alle piante di pioppo. Ciò faceva presumere che era stato ucciso proditoriamente e non in duello così come poi farà credere l’assassino. Alcune viti erano a terra e, sempre vicino al cadavere, del ferro filato. Accanto al cadavere – infine – a cinque, sei centimetri dalla mano destra, alcuni testimoni e dalla moglie dell’ucciso – venne rinvenuto un coltello a serramanico (molletta) con lama acuminata  lunga otto centimetri identico a quello che i contadini sogliono portare seco in campagna  per i lavori agricoli. Quando il coltello venne così rinvenuto aveva la lama spiegata.
Venticinque anni di dispetti e dissidi tra i due fratelli


Il primo ad essere interrogato dai carabinieri fu tale Paolo Corvino – cugino dell’ucciso e dell’uccisore – il quale dichiarava che verso le 11 di quella mattina (ma in cuor suo aveva già divisato il fatto che vanno aiutati i vivi a danno dei morti) mentre si trovava sul suo fondo in zona “Cesa Volpe”, in agro di Casal di Principe  erasi a lui presentato Michele D’Angelo, che dopo essersi seduto sull’erba gli aveva detto: “Finalmente è finita la questione con mio fratello. Mi ha inguaiato perché insisteva nel dire che avevo tirato un solco sulla sua proprietà  e quindi si  è avventato contro di  me con un coltello; io che mi trovavo a distanza ravvicinata, ho estratto la pistola e gli ho sparato contro. Non so se sia ferito o è morto; so soltanto che è caduto; vai tu a vedere cosa è successo”. Aderendo all’invito esso Corvino si era recato sul posto unitamente Francesco De Angelis, da lui incontrato per la via. Sul posto poi era giunta anche la moglie dell’ucciso. Nel prosieguo delle indagini  i carabinieri accertarono che tra i due fratelli non correvano buoni rapporti fin dal 1925, epoca dell’apertura della successione paterna e che tali rapporti si erano acuiti quando Michele D’Angelo aveva iniziato la costruzione di una casa appoggiando uno dei muri maestri ad un muro della casa di appartenenza al fratello Nicola  Bernardo. Quest’ultimo aveva presentato ricorso al Pretore ottenendo la sospensione dei lavori e la lite – anche per altri episodi – sopravvenuti nell’aprile  e nel luglio del 1948 – non si era ancora risolta nonostante l’intervento di persone amiche. Il giorno 25 di quello stesso mese di novembre – in una casa colonica  del cognato Michele Cantelli veniva tratto in arresto Michele D’angelo e rinvenuta la pistola con la quale l’omicidio era stato consumato. L’arma, capace di nove colpi, era carica di sei e di un bossolo esploso. Il D’Angelo – sottoposto ad interrogatorio – dichiarava che tre anni prima aveva iniziato la costruzione di una casa appoggiando ad un muro dello stabile del fratello Bernardo, ma questi si era opposto rivolgendosi al Pretore di Trentola  il quale aveva ordinato la sospensione dei lavori.
Il rancore che ha determinato il delitto

Il 18 aprile del 1948, il fratello Bernardo lo aveva minacciato  con una  scure tanto che egli era stato costretto a darsi alla fuga. Il 18 luglio dello stesso anno, a seguito di una lite verificatasi tra la figlia Teresa e la moglie del Bernardo, questi, armato di un fucile da caccia dall’alto di un terrazzo dove abitava,  aveva profferito contro di lui parole di minaccia. I carabinieri interventi dietro sua denuncia avevano sequestrato in casa di Michele D’angelo un moschetto militare e anche lui era stato tratto in arresto e tradotto nelle carceri di Trentola ove era rimasto  detenuto per circa un mese. Riferendosi al delitto dichiarava che la mattina del 22 novembre verso le ore 9,30 mentre montato a cavallo percorreva la strada campestre “San Donato”, per recarsi in un terreno di sua proprietà sito in località “Maisone” giunto in contrada “Pietra Bianca”,  ove era altro suo appezzamento di terreno era stato chiamato dal fratello Bernardo – che i trovava in un fondo di sua proprietà – il quale mostrandogli il confine esistente tra i due fondi – lo aveva accusato di aver tracciato con l’aratro  un solco di terreno nella sua proprietà. Egli aveva energicamente protestato per l’accusa infondata ma il fratello lo aveva accompagnato nel suo fondo attribuendogli anche l’asportazione di un tronco di pioppo che faceva da sostegno alle viti. Egli aveva risposto che non era un ladro ma il fratello incalzando lo aveva accusato inoltre di avere – nel novembre precedente – asportato delle noci da alcune piante esistenti in quello stesso fondo. Non contento di ciò, si era scagliato contro di lui dicendo: “Se non la finisci ti uccido” e contemporaneamente aveva tentato di colpirlo con un coltello a serramanico che stringeva nella mano destra. Egli vedendosi minacciato aveva estratto dalla cintola la pistola a rotazione ed aveva esploso un colpo contro il fratello – il quale facendo un passo indietro e roteando – su se stesso si era abbattuto al suolo. Dopo  di ciò era risalito a cavallo ed era ritornato in paese ed aveva raccontato ogni cosa alla moglie poscia si era allontanato dirigendosi in località “Cesa Volpe”,  ove aveva ripetuto il racconto al cugino Paolo Corvino.
Il racconto dell’assassino poco credibile


 Aveva sostanzialmente confermato il racconto anche innanzi al Giudice Istruttore – precisando, però, che quando il fratello lo aveva aggredito con il coltello aveva estratto la pistola ed era partito accidentalmente un colpo. Precisava altresì che l’arma la portava per difesa  personale e che quel giorno era diretto ad un fondo coltivato  ad orzo ed avrebbe dovuto pernottare in una casupola in campagna. Altre perplessità rilevarono sul comportamento predelictum   dell’imputato. Come per esempio sulla circostanza del fatto che quella mattina era uscito di casa  armato di pistola – i carabinieri lo avevano infatti denunciato per omicidio premeditato perché alcuni testi avevano riferito che l’assassino  aveva atteso  che il fratello si recasse in campagna seguendolo poi alla distan
za di 200 metri – disse, invece,  che aveva portato seco l’arma perché era diretto alla contrada Maisone per pernottarci. Tale giustificazione fu ritenuta non veritiera perché la teste Concetta Zaccariello, trovandosi in compagnia della moglie dell’imputato sentì questa ultima raccomandare al marito di portare al suo ritorno delle rape e fargli presente che avrebbe cucinato soltanto al suo ritorno.   Smentendo la parola dell’imputato che aveva dichiarato che quella sera non sarebbe ritornato a casa. E’ vero che vicino al cadavere – osservarono gli investigatori  – a pochi centimetri dalla mano destra fu rinvenuto un coltello  dalla lama aperto ma questa circostanza non chiarisce “se l’imputato si trovò nella necessità di fare uso della pistola”. La vittima  fu uccisa mentre era intenta al lavoro. Anche su questa circostanza l’imputato mentì. Fallì anche il tentativo che fece dichiarare  ad  un uomo  che si trovava nei pressi del luogo  del delitto, tale  Raffaele Monaco,  che dalla distanza di due, trecento metri  sentì i due fratelli litigare. Gli inquirenti  lo ritennero un teste compiacente e prezzolato in quanto, essendo di mestiere stagnino non poteva trovarsi in campagna a fare lavori campestri. Altri testi ritenuti falsi furono: Paolo Canino,  Cristofaro Garofalo, Maria Jovino e  Salvatore Diana,  i quali dichiararono che, mentre erano  intenti ai lavori di semina nei loro campi – nel giorno e nell’ora del delitto – avrebbero visto passare un uomo a cavallo il quale avrebbe chiesto loro se avessero visto passare qualcuno ed alla risposta  negativa avrebbe  aggiunto:  “Come… non avete visto quello là che ha tirato il coltello a causa del confino?”.  Questi testi furono ritenuti: tardivi, falsi, prezzolati e compiacenti. Non vi fu dunque nessuna aggressione perché chi aggredisce non rimane accovacciato. La vittima non aveva ragione di aggredire il fratello. Era quest’ultimo invece che aveva ragioni di astio contro l’altro. Il Michele infatti lamentava che nella divisione dell’eredità paterna il Nicola Bernardo avesse avuto una parte maggiore ed i migliori terreni. Aveva cercato poi di appoggiare una sua costruzione ad un muro di proprietà del fratello ma questi – come detto – si era rivolto al Pretore ottenendo la sospensione dei lavori. Un altro piccolo “ricatto”   era stato ordito dall’assassino -  nel giudizio civile in corso al momento del delitto – instaurato da Bernardo,  il Michele si era dichiarato disposto nella eventuale transazione al pagamento di una parte delle spese legali e di lire duemila per l’appoggio – a condizione che il fratello avesse consentito alla permuta di un terreno. Poi si rifiutò di firmare per consiglio dell’avv. Giuseppe Scuotri, anche se andava ripetendo: “ Avvocato, questo accordo si deve fare!”.  Su questa circostanza depose il geom. Ulderico Petrillo, consulente di parte. Ai fini dell’aggressione la difesa ha descritto la vittima come un prepotente mentre il Michele sarebbe stato “pacifico ed arrendevole”. Vi era, infatti, un precedente a carico della vittima il 22 dicembre del 1934 il tribunale di S. Maria C.V,. aveva condannato Nicola Bernardo a 2 anni di reclusione per lesioni  con arma,  contro tale Teresa D’Angelo – ma questo solo fatto non basta a definire un uomo – tanto più che,  in quella circostanza,  il tribunale riconobbe le attenuanti della provocazione! I due fratelli non si scambiavano neppure il saluto. Appoggiò al muro senza neppure avvertire il fratello e dimostrò di non tenere in alcun conto i vincoli di sangue onde non può ritenersi prepotente  il Nicola Bernardo se, fidando su quello che ritenere un suo diritto ricorse al Pretore dimostrando così di rifuggire da gesti  “inconsulti e incontrollabili”. Le minacce  con il fucile e con la scure tutte inventate: non vi è prova. Vero invece il possesso,   l’arresto e il sequestro,   per detenzione da parte dell’ imputato di armi da guerra. Determinante fu anche la testimonianza  del tecnico geometra Francesco Corvino,  sulle modalità della posa di un picchetto per la costruzione di un  muro col quale aveva invaso il terreno del fratello. Un muratore spostò il picchetto ma Michele D’Angelo lo ammonì: “ Non muoverlo di qui, altrimenti finisce male!”. 
Fonte: Archivio di Stato di Caserta.
Prof. Alfredo De Marsico 




 La  condanna  per l’omicidio a 20 anni di reclusione; per l’arma  ad un anno di reclusione e a  3 anni di libertà vigilata a pena espiata, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici. In appello pena ridotta ad anni 16.

La Corte di Assise di S. Maria C.V. (Presidente Paolo De Lise, giudice a latere Victor Ugo de Donato, pubblico ministero,  Pasquale Allegretti; giudici popolari: Giuseppe De Chiara, Gaetano Papa, Vincenzo Fava, Oreste Boggia e Luigi Cantiello; pubblico ministero Pasquale Allegretti),   con sentenza del 3 aprile 1952, dichiarava Michele D’Angelo, colpevole di omicidio preterintenzionale in danno del fratello Nicola Bernardo D’Angelo, così modificato l’originario relativo capo di imputazione, nonché di porto abusivo di armi e lo condannava  per l’omicidio a 20 anni di reclusione (pena base anni 15, più 5 per le aggravanti dell’arma e  del rapporto di parentela) e per l’arma  ad un anno di reclusione e a 3 anni di libertà vigilata a pena espiata, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici. Avverso questa sentenza pronunciavano appello sia il pubblico ministero che l’imputato. Il P.M. lamentava che i giudici avessero escluso la volontà omicida seguendo criteri che dovevano ritenersi erronei, come l’unicità del colpo, la circostanza che la posizione accosciata di Nicola Bernardo D’angelo non aveva consentito allo sparatore di prendere di mira una regione non vitale del corpo e la causale reputata di non notevoli dimensioni.  L’imputato – attraverso i suoi difensori – lamentava invece che la Corte  avrebbe dovuto assolverlo  per legittima difesa o quantomeno per eccesso colposo di legittima difesa. In linea ancora più subordinata, avrebbe dovuto ritenere che egli aveva agito in stato d’ira determinato da fatto ingiusto del fratello e riconoscere altresì la esistenza di circostanze attenuanti generiche ed applicare – in ogni caso – il minimo della pena e per l’omicidio preterintenzione e per il porto  abusivo di pistola. 


La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Giulio La Marca, giudice a latere Antonio Grieco, procuratore generale, Francesco Ventriglia, giudici popolari: Pasquale Cozzolino, Agnello Quatrano, Pietrangelo Russo, Gaetano Ferolla e Vittorio Trombetti) emise il verdetto contro Michele D’angelo, di anni 57 da Casal di Principe, appellante contro la sentenza di primo grado. Negò la scriminante della legittima difesa. Motivando che la stessa non poteva essere concessa in quanto la discussione prima del delitto sarebbe avvenuta nel terreno della vittima e il racconto dell’assassino  “improvvisamente minacciato col coltello avrebbe, per difendersi, estratto la pistola e fatto partire un colpo”, non era credibile.  Del resto – scrissero i giudici di appello – che gli avvenimenti non si svolsero proprio così lo confessò l’imputato nel corso del primo processo – quando dichiarò che il fratello trovavasi  quasi sul confine tra i due fondi ed egli nell’interno del suo a distanza di circa tre  metri. Le contestazioni, dunque, sarebbero avvenute  a distanza ed egli non sarebbe mai penetrato nel fondo del fratello il quale – ad un tratto – con un coltello tra le mani si sarebbe avventato contro di lui chinando sensibilmente il capo e il busto.  Se questa ultima versione fosse vero – precisarono i giudici di appello – il Nicola Bernardo sarebbe  dovuto cadere nel terreno del Michele D’Angelo o quantomeno sul confine tra i due fondi, ma ciò non è perché – come risulta dal rapporto dei carabinieri  - cadde sotto una pianta di pioppo a tre metri di distanza dal fondo del fratello Michele. La Corte, quindi non diede credito alla versione dell’imputato; e neppure credette al colpo partito accidentalmente o come lui disse “per disgrazia”.  La Corte d’Appello emise la sua sentenza negando la legittima difesa, la provocazione e lo stato d’ira, (la vedova dell’ucciso in dibattimento dichiarò che il solco era stato tracciato il giorno precedente al delitto e che non era vero  il furto delle noci e del fusto di pioppo);  concedendo soltanto le attenuanti generiche  con una condanna ridotta a 16 anni. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo De Marsico, Enrico Altavilla, Vittorio Verzillo, Ciro Maffuccini e Salvatore Fusco. 
Fonte: Archivio di Stato di Caserta.
 
Avv. Vittorio Verzillo 





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