Accadde a Casal di Principe nel 1949
UCCISE IL FRATELLO PER IL SOLCO DEL CONFINE TRACCIATO
SUL SUO TERRENO
Caino e Abele degli anni Cinquanta si
scontrarono per l’appoggio di un muro divisore, per il furto di un sacco
di noci e di un
pioppo -
Tre colpi di pistola al cuore per
regolare la vertenza-
La vittima si era confrontata con Ruggiero Pignata e Vincenzo Di Bello
i mammasantissima del posto. Epoca in cui Bardellino e Sandokan erano
ragazzi
L’imputo
infatti lamentava che nella divisione
dell’eredità paterna il fratello ucciso avesse avuto una parte maggiore ed i migliori
terreni
Casal
di Principe – “Il
sangue – si dice a Casale – si
mazzica ma non si sputa”; per dire che nelle vicende che coinvolgono consanguinei
non bisogna inveire, ma soffrire, sopportare e abbozzare qualsiasi conseguenza
comporti. Ma la regola, a volte, è infranta. Come per esempio nel caso dei “pentiti”, che accusano i familiari. Viene così infranto il codice non
scritto dell’etica del vivere… e allora si uccide, anche il fratello carnale.
Brutta vicenda. Vediamo come e perché. La mattina del 22 novembre del 1949 in
località “Pietra Bianca”, in agro
di Casal di Principe, Michele D’Angelo, di anni 47, esplodeva
all’indirizzo del fratello Nicola
Bernardo, di anni 51, agricoltore come lui, con un colpo di pistola
uccidendolo. L’autopsia – ordinata dal magistrato inquirente – ed eseguita dal
Dr. Ruggiero Ferraiuolo, accertava
che il proiettile cal.8 penetrato nella regione sotto clavicolare sinistra,
aveva leso il lobo superiore del polmone dello stesso lato, il pericardio ed il
cuore. Le lesioni avevano prodotto una cospicua, irrefranabile emorragia che in
breve tempo aveva cagionato la mote. I periti settori giudicarono che il colpo
era stato esploso da una certa distanza e ciò sia per l’assenza di tatuaggi,
affumicature o bruciature, sia perché il proiettile, pur avendo leso tessuti
molli e pur senza essere fermato nel suo tragitto da tessuti ossei non aveva
avuto tanta forza viva da generare una lesione trasfosso attraverso il corpo
dell’ucciso. Il colpo stesso aveva una
direzione da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso e dall’avanti
all’indietro; e l’offeso – al momento del fatto – doveva trovarsi in una delle
seguenti posizioni: o in posizione curva verso l’avanti e quasi ad angolo
retto, oppure in una posizione di molto più bassa rispetto a quella
dell’uccisore. Infatti –
osservarono i periti – se l’offeso si
fosse trovato in posizione eretta, o se offeso ed offensore si fossero trovati
sullo stesso piano, il proiettile, penetrato dalla regione sotto clavicolare
sinistra sarebbe dovuto fuoriuscire dalla regione scapolare o nelle sue
vicinanze, ma mai avrebbe potuto avere un tragitto che iniziasse dalla regione
sotto clavicolare sinistra e terminava alla regione mediartinica.
L’uomo
era stato ucciso proditoriamente e non in duello, così come voleva far credere
l’assassino.
I carabinieri recatisi sul
posto – verso le ore 12 – non trovarono il
cadavere perché già rimosso e trasportato in paese. E’ una usanza
locale. Non aspettare gli inquirenti e
farsi giustizia da sé. Rilevarono, però, dall’ispezione dei luoghi che la
vittima, quado era stata raggiunta dal
primo colpo di pistola, si trovava intento al lavoro nel suo fondo,
precisamente a circa 3 metri di distanza
dal fondo del fratello Michele situato allo stesso livello. Infatti, a circa
sei metri dal luogo dove Bernardo era caduto – luogo indicato da una larga
chiazza di sangue – trovavasi un sacco di tela contenente attrezzi agricoli,
più lontano, un cavalletto di legno, arnese occorrente ai contadini per la
potatura delle viti, quando queste (le viti) come in quel posto, vengono
associate alle piante di pioppo. Ciò faceva presumere che era stato ucciso
proditoriamente e non in duello così come poi farà credere l’assassino. Alcune
viti erano a terra e, sempre vicino al cadavere, del ferro filato. Accanto al
cadavere – infine – a cinque, sei centimetri dalla mano destra, alcuni
testimoni e dalla moglie dell’ucciso – venne rinvenuto un coltello a serramanico
(molletta) con lama acuminata lunga otto
centimetri identico a quello che i contadini sogliono portare seco in
campagna per i lavori agricoli. Quando
il coltello venne così rinvenuto aveva la lama spiegata.
Venticinque
anni di dispetti e dissidi tra i due fratelli
Il primo ad essere interrogato
dai carabinieri fu tale Paolo Corvino
– cugino dell’ucciso e dell’uccisore – il quale dichiarava che verso le 11 di
quella mattina (ma in cuor suo aveva già divisato il fatto che vanno aiutati i
vivi a danno dei morti) mentre si trovava sul suo fondo in zona “Cesa
Volpe”, in agro di Casal di
Principe erasi a lui presentato Michele
D’Angelo, che dopo essersi seduto sull’erba gli aveva detto: “Finalmente è finita la questione con mio
fratello. Mi ha inguaiato perché insisteva nel dire che avevo tirato un solco
sulla sua proprietà e quindi si è avventato contro di me con un coltello; io che mi trovavo a
distanza ravvicinata, ho estratto la pistola e gli ho sparato contro. Non so se
sia ferito o è morto; so soltanto che è caduto; vai tu a vedere cosa è
successo”. Aderendo all’invito esso Corvino si era recato sul posto
unitamente Francesco De Angelis, da
lui incontrato per la via. Sul posto poi era giunta anche la moglie
dell’ucciso. Nel prosieguo delle indagini
i carabinieri accertarono che tra i due fratelli non correvano buoni
rapporti fin dal 1925, epoca dell’apertura della successione paterna e che tali
rapporti si erano acuiti quando Michele D’Angelo aveva iniziato la costruzione di
una casa appoggiando uno dei muri maestri ad un muro della casa di appartenenza
al fratello Nicola Bernardo. Quest’ultimo
aveva presentato ricorso al Pretore ottenendo la sospensione dei lavori e la
lite – anche per altri episodi – sopravvenuti nell’aprile e nel luglio del 1948 – non si era ancora
risolta nonostante l’intervento di persone amiche. Il giorno 25 di quello
stesso mese di novembre – in una casa colonica
del cognato Michele Cantelli veniva
tratto in arresto Michele D’angelo e rinvenuta la pistola con la quale
l’omicidio era stato consumato. L’arma, capace di nove colpi, era carica di sei
e di un bossolo esploso. Il D’Angelo – sottoposto ad interrogatorio –
dichiarava che tre anni prima aveva iniziato la costruzione di una casa
appoggiando ad un muro dello stabile del fratello Bernardo, ma questi si era
opposto rivolgendosi al Pretore di Trentola il quale aveva ordinato la sospensione dei
lavori.
Il
rancore che ha determinato il delitto
Il 18 aprile del 1948, il
fratello Bernardo lo aveva minacciato
con una scure tanto che egli era
stato costretto a darsi alla fuga. Il 18 luglio dello stesso anno, a seguito di
una lite verificatasi tra la figlia Teresa
e la moglie del Bernardo, questi, armato di un fucile da caccia dall’alto
di un terrazzo dove abitava, aveva
profferito contro di lui parole di minaccia. I carabinieri interventi dietro
sua denuncia avevano sequestrato in casa di Michele D’angelo un moschetto
militare e anche lui era stato tratto in arresto e tradotto nelle carceri di
Trentola ove era rimasto detenuto per
circa un mese. Riferendosi al delitto dichiarava che la mattina del 22 novembre
verso le ore 9,30 mentre montato a cavallo percorreva la strada campestre “San
Donato”, per recarsi in un
terreno di sua proprietà sito in località “Maisone” giunto in contrada “Pietra
Bianca”, ove era altro suo
appezzamento di terreno era stato chiamato dal fratello Bernardo – che i
trovava in un fondo di sua proprietà – il quale mostrandogli il confine
esistente tra i due fondi – lo aveva accusato di aver tracciato con
l’aratro un solco di terreno nella sua
proprietà. Egli aveva energicamente protestato per l’accusa infondata ma il
fratello lo aveva accompagnato nel suo fondo attribuendogli anche
l’asportazione di un tronco di pioppo che faceva da sostegno alle viti. Egli
aveva risposto che non era un ladro ma il fratello incalzando lo aveva accusato
inoltre di avere – nel novembre precedente – asportato delle noci da alcune
piante esistenti in quello stesso fondo. Non contento di ciò, si era scagliato
contro di lui dicendo: “Se non la finisci
ti uccido” e contemporaneamente aveva tentato di colpirlo con un coltello a
serramanico che stringeva nella mano destra. Egli vedendosi minacciato aveva
estratto dalla cintola la pistola a rotazione ed aveva esploso un colpo contro
il fratello – il quale facendo un passo indietro e roteando – su se stesso si
era abbattuto al suolo. Dopo di ciò era
risalito a cavallo ed era ritornato in paese ed aveva raccontato ogni cosa alla
moglie poscia si era allontanato dirigendosi in località “Cesa Volpe”, ove aveva ripetuto il racconto al cugino
Paolo Corvino.
Il
racconto dell’assassino poco credibile
Aveva sostanzialmente confermato
il racconto anche innanzi al Giudice Istruttore – precisando, però, che quando
il fratello lo aveva aggredito con il coltello aveva estratto la pistola ed era
partito accidentalmente un colpo. Precisava altresì che l’arma la portava per
difesa personale e che quel giorno era
diretto ad un fondo coltivato ad orzo ed
avrebbe dovuto pernottare in una casupola in campagna. Altre perplessità
rilevarono sul comportamento predelictum
dell’imputato. Come per esempio sulla circostanza del fatto che quella
mattina era uscito di casa armato di
pistola – i carabinieri lo avevano infatti denunciato per omicidio premeditato
perché alcuni testi avevano riferito che l’assassino aveva atteso
che il fratello si recasse in campagna seguendolo poi alla distan
za di
200 metri – disse, invece, che aveva
portato seco l’arma perché era diretto alla contrada Maisone per pernottarci. Tale giustificazione fu ritenuta non
veritiera perché la teste Concetta
Zaccariello, trovandosi in compagnia della moglie dell’imputato sentì
questa ultima raccomandare al marito di portare al suo ritorno delle rape e
fargli presente che avrebbe cucinato soltanto al suo ritorno. Smentendo la parola dell’imputato che aveva
dichiarato che quella sera non sarebbe ritornato a casa. E’ vero che vicino al cadavere
– osservarono gli investigatori – a
pochi centimetri dalla mano destra fu rinvenuto un coltello dalla lama aperto ma questa circostanza non
chiarisce “se l’imputato si trovò nella
necessità di fare uso della pistola”. La vittima fu uccisa mentre era intenta al lavoro. Anche
su questa circostanza l’imputato mentì. Fallì anche il tentativo che fece
dichiarare ad un uomo
che si trovava nei pressi del luogo
del delitto, tale Raffaele Monaco, che dalla distanza di due, trecento
metri sentì i due fratelli litigare. Gli
inquirenti lo ritennero un teste
compiacente e prezzolato in quanto, essendo di mestiere stagnino non poteva
trovarsi in campagna a fare lavori campestri. Altri testi ritenuti falsi
furono: Paolo Canino, Cristofaro
Garofalo, Maria Jovino e Salvatore Diana, i quali dichiararono che, mentre erano intenti ai lavori di semina nei loro campi –
nel giorno e nell’ora del delitto – avrebbero visto passare un uomo a cavallo
il quale avrebbe chiesto loro se avessero visto passare qualcuno ed alla risposta negativa avrebbe aggiunto: “Come…
non avete visto quello là che ha tirato il coltello a causa del confino?”. Questi testi furono ritenuti: tardivi, falsi,
prezzolati e compiacenti. Non vi fu dunque nessuna aggressione perché chi
aggredisce non rimane accovacciato. La vittima non aveva ragione di aggredire
il fratello. Era quest’ultimo invece che aveva ragioni di astio contro l’altro.
Il Michele infatti lamentava che nella divisione dell’eredità paterna il Nicola
Bernardo avesse avuto una parte maggiore ed i migliori terreni. Aveva cercato
poi di appoggiare una sua costruzione ad un muro di proprietà del fratello ma
questi – come detto – si era rivolto al Pretore ottenendo la sospensione dei
lavori. Un altro piccolo “ricatto” era stato ordito dall’assassino - nel giudizio civile in corso al momento del
delitto – instaurato da Bernardo, il
Michele si era dichiarato disposto nella eventuale transazione al pagamento di
una parte delle spese legali e di lire duemila per l’appoggio – a condizione
che il fratello avesse consentito alla permuta di un terreno. Poi si rifiutò di
firmare per consiglio dell’avv. Giuseppe
Scuotri, anche se andava ripetendo: “ Avvocato,
questo accordo si deve fare!”. Su
questa circostanza depose il geom. Ulderico
Petrillo, consulente di parte. Ai fini dell’aggressione la difesa ha
descritto la vittima come un prepotente mentre il Michele sarebbe stato “pacifico ed arrendevole”. Vi era,
infatti, un precedente a carico della vittima il 22 dicembre del 1934 il
tribunale di S. Maria C.V,. aveva condannato Nicola Bernardo a 2 anni di
reclusione per lesioni con arma, contro tale Teresa D’Angelo – ma questo solo fatto non basta a definire un uomo
– tanto più che, in quella
circostanza, il tribunale riconobbe le
attenuanti della provocazione! I due fratelli non si scambiavano neppure il
saluto. Appoggiò al muro senza neppure avvertire il fratello e dimostrò di non
tenere in alcun conto i vincoli di sangue onde non può ritenersi
prepotente il Nicola Bernardo se,
fidando su quello che ritenere un suo diritto ricorse al Pretore dimostrando
così di rifuggire da gesti “inconsulti e incontrollabili”. Le minacce con il fucile e con la scure tutte inventate:
non vi è prova. Vero invece il possesso,
l’arresto e il sequestro, per
detenzione da parte dell’ imputato di armi da guerra. Determinante fu anche la
testimonianza del tecnico geometra
Francesco Corvino, sulle modalità della
posa di un picchetto per la costruzione di un
muro col quale aveva invaso il terreno del fratello. Un muratore spostò
il picchetto ma Michele D’Angelo lo ammonì: “ Non muoverlo di qui, altrimenti finisce male!”.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta.
Prof. Alfredo De Marsico |
La condanna per l’omicidio a 20 anni di reclusione; per
l’arma ad un anno di reclusione e a 3 anni di libertà vigilata a pena espiata,
con la interdizione perpetua dai pubblici uffici. In appello pena ridotta ad
anni 16.
La Corte di Assise di S. Maria
C.V. (Presidente Paolo De Lise, giudice
a latere Victor Ugo de Donato,
pubblico ministero, Pasquale Allegretti; giudici popolari: Giuseppe De Chiara, Gaetano Papa, Vincenzo Fava, Oreste Boggia e Luigi Cantiello; pubblico ministero Pasquale Allegretti), con sentenza del 3 aprile 1952, dichiarava Michele D’Angelo, colpevole di omicidio
preterintenzionale in danno del fratello Nicola
Bernardo D’Angelo, così modificato l’originario relativo capo di
imputazione, nonché di porto abusivo di armi e lo condannava per l’omicidio a 20 anni di reclusione (pena
base anni 15, più 5 per le aggravanti dell’arma e del rapporto di parentela) e per l’arma ad un anno di reclusione e a 3 anni di
libertà vigilata a pena espiata, con la interdizione perpetua dai pubblici
uffici. Avverso questa sentenza pronunciavano appello sia il pubblico ministero
che l’imputato. Il P.M. lamentava che i giudici avessero escluso la volontà
omicida seguendo criteri che dovevano ritenersi erronei, come l’unicità del
colpo, la circostanza che la posizione accosciata di Nicola Bernardo D’angelo
non aveva consentito allo sparatore di prendere di mira una regione non vitale
del corpo e la causale reputata di non notevoli dimensioni. L’imputato – attraverso i suoi difensori –
lamentava invece che la Corte avrebbe
dovuto assolverlo per legittima difesa o
quantomeno per eccesso colposo di legittima difesa. In linea ancora più
subordinata, avrebbe dovuto ritenere che egli aveva agito in stato d’ira
determinato da fatto ingiusto del fratello e riconoscere altresì la esistenza
di circostanze attenuanti generiche ed applicare – in ogni caso – il minimo
della pena e per l’omicidio preterintenzione e per il porto abusivo di pistola.
La Corte di Assise di
Appello di Napoli (Presidente Giulio La
Marca, giudice a latere Antonio
Grieco, procuratore generale, Francesco
Ventriglia, giudici popolari: Pasquale
Cozzolino, Agnello Quatrano, Pietrangelo Russo, Gaetano Ferolla e Vittorio Trombetti) emise il verdetto
contro Michele D’angelo, di anni 57 da Casal di Principe, appellante contro la
sentenza di primo grado. Negò la scriminante della legittima difesa. Motivando
che la stessa non poteva essere concessa in quanto la discussione prima del delitto
sarebbe avvenuta nel terreno della vittima e il racconto dell’assassino “improvvisamente minacciato col coltello
avrebbe, per difendersi, estratto la pistola e fatto partire un colpo”, non era
credibile. Del resto – scrissero i
giudici di appello – che gli avvenimenti non si svolsero proprio così lo
confessò l’imputato nel corso del primo processo – quando dichiarò che il
fratello trovavasi quasi sul confine tra
i due fondi ed egli nell’interno del suo a distanza di circa tre metri. Le contestazioni, dunque, sarebbero
avvenute a distanza ed egli non sarebbe
mai penetrato nel fondo del fratello il quale – ad un tratto – con un coltello
tra le mani si sarebbe avventato contro di lui chinando sensibilmente il capo e
il busto. Se questa ultima versione
fosse vero – precisarono i giudici di appello – il Nicola Bernardo sarebbe dovuto cadere nel terreno del Michele
D’Angelo o quantomeno sul confine tra i due fondi, ma ciò non è perché – come
risulta dal rapporto dei carabinieri -
cadde sotto una pianta di pioppo a tre metri di distanza dal fondo del fratello
Michele. La Corte, quindi non diede credito alla versione dell’imputato; e
neppure credette al colpo partito accidentalmente o come lui disse “per
disgrazia”. La Corte d’Appello emise la
sua sentenza negando la legittima difesa, la provocazione e lo stato d’ira, (la
vedova dell’ucciso in dibattimento dichiarò che il solco era stato tracciato il
giorno precedente al delitto e che non era vero
il furto delle noci e del fusto di pioppo); concedendo soltanto le attenuanti generiche con una condanna ridotta a 16 anni. Nei
processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo
De Marsico, Enrico Altavilla, Vittorio Verzillo, Ciro Maffuccini e Salvatore Fusco.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta.
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