Accadde a Mondragone il 10 gennaio e l’11 aprile del 1950
Due assurdi delitti: il primo per motivi di vicinato mentre transitava la processione della madonna Incaldana. L’altro ucciso un uomo mentre rubava alcuni cavoli.
I moventi: Il dissidio dei “casigliani” per
l’acqua stagnante . La moglie incinta e tre
figli da sfamare lo indussero a rubare pochi
cavoli.
Il delitto mentre passava la
processione della Madonna
dell’Incaldana
Il cortile dove avvenne il delitto |
Mondragone
- L’undici aprile del 1950, in Mondragone, il
contadino Rocco Miraglia, di anni 60,
cagionava la morte del suo vicino di casa Antonio
Marotta di anni 47, il quale decedeva per emorragia endocranica conseguente
a trauma violento in corrispondenza dell’occipite, prodotto dall’urto del
cranio contro il suolo nel corso di una colluttazione impegnata tra i due nel
cortile comune in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna Incaldana.
I carabinieri della Stazione di Mondragone, in particolare il
Mar. Carmine Calabrese e il Brig. Antonio Chionna, che condussero le
indagini, accertarono che tra il Miraglia ed il Marotta esistevano dei
rancori in quanto il Marotta aveva acquistato per compravendita gli ambienti
occupati dal Miraglia verso il quale
aveva anche intentato azione di sfratto per morosità ottenendo il rilascio
dell’immobile sito alla via Campanile, 33. Un ulteriore motivo dell’attrito –
accertarono gli inquirenti – era il fatto che il Marotta come gli altri “casigliani” nonostante le ripetuto
proteste del Miraglia, che si era
alloggiato in altri ambianti del medesimo comprensorio, usava versare nel
cortile comune l’acqua di rifiuto che ristagnava dinanzi all’abitazione del
Miraglia, non defluendo adeguatamente nella cunetta ivi esistente. L’11 aprile del 1950, il Miraglia era intento
ad osservare – sul limitare del portone di ingresso della propria abitazione – il
passaggio della processione allorché il Marotta, sopravvenuto dall’interno, di
buon passo, nel tentativo di portarsi nelle prime file – urtò malamente il
Miraglia che per poco non perdette l’equilibrio. Questi, ritenendo intenzionale
il comportamento dell’avversario gli rivolse, sottovoce, parole risentite. Il
Marotta ritornato sui propri passi diede un pugno al Miraglia. I due si
azzuffarono cadendo per terra. Il Miraglia di sotto e l’altro su di lui. Divisi
dagli occorsi i due si riacciuffarono finendo, ancora una volta per terra; il
Marotta di sotto e il Miraglia di sopra. Separati anche questa volta i
contendenti abbandonarono il campo rientrando nelle rispettive abitazioni.
Pochi minuti dopo il Marotta decedeva. Il Dr. Mario Fusco, chiamato di urgenza, esprimeva il parere che la morte
fosse stata determinata da emorragia cerebrale d’origine traumatica sulla
scorta delle informazioni fornite dalla moglie della vittima, Filomena Gnasso, la quale gli aveva
riferito che nella colluttazione il marito era caduto a terra ed aveva battuto
con la testa sul selciato. “Alcuni testi
nel corso del processo – scrissero i giudici – secondo un modello imperante nelle nostre zone – col quale bisogna
sempre aiutare il vivo e non il morto tentarono di accreditare una tesi secondo
la quale la morte era principalmente dovuta alla caduta della vittima nel corso
della colluttazione”. La moglie della vittima, invece, assumeva di avere
sorpreso il Miraglia nell’atto di vibrare al suo avversario un calcio
all’inguine. Ella corse in aiuto al marito che soggiaceva alle violenze del
Miraglia il quale selvaggiamente lo graffiava al viso e lo percuoteva. Liberato
dalla stretta di costui il congiunto la
seguì nella sua abitazione ed alla rampogna della moglie si discolpò dicendo di
non aver voluto lui la zuffa. Le disse,
altresì, di aver ricevuto un calcio ai genitali. La difesa si avvaleva
dell’opera di un consulente tecnico il quale – limitandosi alle sole deduzioni
dei periti ne confutava diffusamente gli argomenti concludendo per la
inutilizzabilità degli accertamenti generici avendo i periti trascurato l’esame
delle altre zone cerebrali nelle quali forse era la soluzione dell’arduo
problema dal momento che i dati acquisiti non potevano fornire all’interprete
alcun indirizzo univoco decisivo. Il Miraglia, intanto, subito dopo il fatto si
allontanava dal proprio domicilio e si rendeva irreperibile. I carabinieri
acquisirono le prime prove. La morte del Marotta fu ritenuta senza intenzione. Chiusa
la formale istruttoria si procedeva a carico di Rocco Miraglia, per omicidio preterintenzionale per avere con atti
diretti a percuotere e ledere cagionato la morte di Antonio Marotta. Pertanto i periti conclusero osservando che la
morte fu determinata da emorragia cerebrale traumatica in seguito all’urto del
cranio contro il suolo.
Il secondo fatto di sangue: Il
delitto dei sette cavoli
Mondragone- Il mattino del 10
gennaio del 1950 verso le ore 8,15 sulla strada campestre che mena nella
località, “Carranola”, in agro di Mondragone fu rinvenuto cadavere Antonio Mesolella, di anni 34, il quale
presentava una vasta ferita da arma da fuoco nella regione tra il collo e la
spalla sinistra. Due donne, Anna
Mangiapelo e Francesca Buonanno,
abitante a circa 100 metri dal luogo del delitto, riferirono di avere udito,
verso le ore 21 della sera precedente, la detonazione prodotta da un colpo di fucile da caccia. La moglie
dell’ucciso Rosina Pratillo,
dichiarava che la sera precedente essendo disoccupato il suo disgraziato marito
era uscito di casa verso le ore 18,00, munito di un sacchetto di tela nonché di
un pezzo di corda, col manifesto proposito di rubare pochi cavolfiori al fine
di sfamare lei, incinta al sesto mese ed altre tre tenere creature. Manifestava
altresì il sospetto che ad uccidere il marito potesse essere stato Antonio Di
Toro – dato che il cadavere era stato rinvenuto ad una ventina di metri dal
fondo del Di Toro – il quale abitava in una casa rurale a circa un centinaia
metri. Attraverso le relative indagini,
i carabinieri di Mondragone, acclararono che il fondo del Di Toro era
coltivato in parte a cavolfiori ed in parte a grano e che sette cavoli apparivano recisi assai di
fresco e che nelle immediate vicinanze si notava una impronta di scarpa che
esattamente corrispondeva alle scarpe calzate dal Mesolella; altre orme furono
rilevate – quasi simili – alla pianta di un paia di stivaloni di gomma
rinvenuti in casa del Di Toro ed al medesimo appartenenti. Nella parte del
fondo del Di Toro coltivato a grano – a circa 20 metri dalla coltivazione di cavoli
– fu rinvenuto un sacchetto di tela e a
circa tre metri più oltre, un pezzo di
corda. Sia il sacchetto che la corda
venivano dalla moglie dell’ucciso riconosciuti per quelli di pertinenza del
marito. I carabinieri portatisi in casa del Di Toro vi rinvenivano soltanto due
figliuoli uno di dieci e l’altro di otto anni; i medesimi dichiararono che quel mattino i
genitori si erano recati – col corretto – al lavoro in un altro loro fondo e
che il padre aveva portato con sé il fucile da caccia. I carabinieri nella
perquisizione acquisirono un taglia tacchetti di ferro per tacchetti da
cartucce cal. 16, un pezzo di cartone ed alcuni tacchetti già incisi, nonché
una certa quantità di pallini di piombo per fucili da caccia. La perizia
necroscopica accertò che il Mesolella era stato attinto da un colpo
di fucile da caccia cal. 16 esploso da distanza assai breve – come era
dato di desumere – sia dalla ristrettezza della rosa di tiro e sia dal
ritrovamento nella ferita – del tacchetto e dalla crusca usata per il
borraggio; nonché da numerosi pallini metallici alcuni a forma sferica ed altri
deformati ma tutti del diametro di circa 3 metri. Accertava, altresì, che la
morte era stata immediata per la distruzione dei grossi vasi del collo, della
carotide e della giagulare, fino alla colonna vertebrale.
Sono innocente ma…
Il secondo da sinistra è l'Avv. Arturo Tucci |
La difesa chiedeva
anche perizia balistica che
veniva affidata al perito Dr. Ing. Franco Del Re da Napoli. Nel frattempo
l’accusato si dava alla latitanza e questo destava ancora più sospetto nei
carabinieri ma poi si costituiva il 19 gennaio e protestava la sua innocenza.
Intanto su procedeva all’istruttoria col rito formale ed il Di Toro veniva
accusato di omicidio volontario con mandato di cattura. Egli insisteva nel
protestarsi innocente. A conclusione dell’istruttoria il Giudice
Istruttore – su parere conforme della Procura Generale – riteneva fondati tutti
gli indizi e rinviava il Di Toro per omicidio volontario al giudizio della
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. “Una
verità compatta e sicura – scrissero i giudici della Sezione istruttoria nella
loro decisione - quella
che fu il Di toro a sparare contro il Mesolella cagionandone la morte salvo a
procedere alla identificazione dell’elemento psicologico dell’azione delittuosa.
Gli elementi sono ritenuti - dalla Corte – assolutamente tranquilli in
merito alla colpevolezza del giudicabile”. Concorsero a rafforzare il
convincimento dei giudici: 1) il proposito del Mesolella manifestato dalla
moglie di andare quella sera a rubare i
cavolfiori per sfamare lei e suoi figliuoli; 2) il freschissimo taglio dei sei
sette cavoli nel fondo del Di Toro; 3) le impronte delle scarpe del Mesolella;
4) il rinvenimento del cadavere e della corda,
come i carabinieri riferirono, a pochi passi dal viottolo che menava al
podere del Di Toro. Il Mesolella, sorpreso proprio nell’atto in cui commetteva
il furto, cercò scampo nella fuga, nel corso della quale si liberò del
sacchetto e della corda, se non ché inseguito, venne attinto quando era già
fuori dal fondo dall’unico colpo di fucile da caccia al suo indirizzo esploso dall’inseguitore. La causale? Dunque il delitto fu commesso in
dipendenza del furto ed in relazione ad esso. La perizia di confronto tra i
pallini repertati sul cadavere e quelli trovati a casa del Di Toro accertava
che gli uni e gli altri erano identici per forma, peso, e composizione chimica essendo
costituiti dalla medesima percentuale di piombo e di antimonio. “Per il principio del libero convincimento
del giudice dominante nel nostro diritto positivo – scrisse il collegio
giudicante – fa la Corte pianamente
convinta della colpevolezza del Di Toro che trova anche conferma nel
comportamento dello stesso dopo il delitto si allontanava e si costituiva solo
dopo 10 giorni; se era estraneo avrebbe
dovuto presentarsi immediatamente alle
autorità competenti. Ma ove occorresse - chiarirono infine i giudici - una riprova della
responsabilità del Di Toro, si potrebbe agevolmente coglierla nella assai
incauta introduzione da lui fatta con esposto del 6 marzo 1950 di due testi
manifestamente e spudoratamente mendaci Antonio Biondillo e Giuseppe Piazza (il primo
dichiarò di avere incontrato il Mesolella alticcio: morto di fame va a rubare
ubriaco?). Il Pizza energicamente
ammonito a manifestare il vero, ha sostanzialmente – ritrattando la precedente
deposizione – affermato che la sera del delitto imbattutosi nel Mesolella ma
che il medesimo – che non era ubriaco ma alticcio – onde non aveva bevuto
affatto - e presentava al viso non con
una lividura, bensì una crosta, ossia traccia di lesioni di data non recente,
onde deve nettamente escludersi proprio
quanto l’imputato aveva creduto di porre in essere al fine di allontanare i
sospetti che gravavano su di lui: che il Mesolella avesse, quella sera,
litigato con qualcuno, subendone le violenze. Sufficiente giustificazione della “ratio decidenti”.
Fonte:
Archivio Storico di Caserta
La condanna in definitiva di 4 anni e mesi 5 per il
delitto della processione.- Per il furto dei cavoli la Corte condannò ad anni 6 e mesi 8 di carcere.
In esito all’esaurita
istruttoria il Procuratore Generale chiedeva disporsi il rinvio di Rocco Miraglia al giudizio della Corte
di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Pietro Giordana, giudice a latere,
Victor Ugo De Donato,
pubblico ministero, Pasquale Allegretti)
per rispondere di omicidio preterintenzionale. Il Miraglia non si costituiva in carcere neppure nella fase dibattimentale
onde si procedeva alla celebrazione del dibattimento in sua contumacia. Dopo le
conclusioni della parte civile, il pubblico ministero chiedeva affermarsi la
responsabilità dell’imputato con la concessione delle attenuanti generiche e
della provocazione. La difesa invece insisteva sulla piena assoluzione del reo
e chiedeva pertanto l’assoluzione perché
il fatto non costituiva reato; in subordine ritenersi che l’imputato avesse
agito in stato di legittima difesa sia pure eccedendo colposamente i limiti
della difesa medesima e chiedeva ancora più subordinatamente ritenersi
ricorrere nella specie di omicidio colposo e concedersi la sospensione
condizionale della pena. In ultime
analisi accogliere le richieste della pubblica accusa concedendo le attenuanti
generiche e quelle della provocazione. La moglie della vittima Filomena Gnasso si costituiva parte civile. La Corte di Assise del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere affermava a conclusione della istruttoria
dibattimentale la piena responsabilità di Rocco Miraglia chiarendo che “l’evento letale deve infatti attribuirsi
alla condotta come effetto e causa. La morte del Marotta fu cagionata da
emorragia cerebrale in effetti il Miraglia fece sbattere la testa della vittima
più volte sul selciato”, come riferirono i testi Maria Massaro e Giuseppe
Langione. La Corte di Assise, in definitiva, escluse la legittima difesa, l’eccesso
colposo ma riconobbe la provocazione della vittima per aver pronunciato la frase: “ Stu fetente non vuole lasciarmi in pace”; mentre
a pochi passi – conclusero i giudici – si
compiva un rito religioso che esigeva silenzio e raccoglimento”. Furono
concesse al Miraglia le attenuanti generiche per la buona condotta e la condanna
definitiva fu di 4 anni e mesi 5. Nel processo furono impegnati gli avvocati: Arturo Tucci, Giuseppe Fusco, Andrea Della
Pietra e Ciro Maffuccini. Per
l’omicidio dei cavoli, invece, la
moglie della vittima si costituiva parte civile anche nell’interesse dei figli
minori e l’imputato.
La Corte – ritenuta l’assoluta necessità disponeva il
proprio accesso sul luogo del delitto e procedeva a numerosi rilievi. Chiuso il
dibattimento la parte civile concludeva per l’affermazione della responsabilità
chiedendo, altresì, due milioni di lire per il risarcimento del danno con una
provvisionale in ogni caso di lire cinquecentomila. Il pubblico ministero dal
canto suo riteneva l’imputato colpevole
di omicidio e con la concessione delle attenuanti della provocazione e le
generiche concludeva per una condanna ad anni 14 di reclusione. Il collegio
difensivo dell’imputato insisteva, invece, per l’assoluzione quanto meno per
insufficienza di prove ed in linea molto subordinata – la concessione della
discriminante della legittima difesa o ritenersi l’ipotesi della esclusione
della volontà omicida con la concessione delle attenuanti generiche, delle
attenuanti del valore morale e della provocazione e applicare il minimo della
pena. La Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere, con sentenza del 9 maggio 1952 condannò Antonio Di Toro di anni 42 da Mondragone, per omicidio preterintenzionale in danno di Antonio Mesolella con la concessione
delle attenuanti generiche e della provocazione, ad anni 10 e mesi 5 di
reclusione. In
definitiva no alla legittima difesa, sì alla provocazione, no all’eccesso
colposo, no all’evento diverso, omicidio preterintenzionale e non volontario,
no al particolare valore morale e sociale, sì alle attenuanti generiche.
Concessa una provvisionale di lire trecentomila. La Corte di Assise di Appello
di Napoli (Presidente Pasquale
Falciatore, giudice a latere Mario
Sabelli, pubblico ministero,
procuratore generale Michele
Conti), con sentenza dell’11 luglio del 1953 ridusse la pena ad anni 6 e
mesi 8 di carcere. Nei processi di primo
furono impegnati gli Avvocati Arturo Tucci, Giuseppe Fusco, Michele
Crispo, Bernardo Giannuzzi Savelli, Ettore Botti, Orazio Cicatelli e Ciro
Maffuccini.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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