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domenica 13 settembre 2015




Accadde a Mondragone il 10 gennaio e l’11 aprile del 1950

Due assurdi delitti: il primo   per motivi di vicinato mentre transitava la processione della madonna Incaldana.  L’altro ucciso  un uomo mentre rubava  alcuni cavoli.
I moventi: Il dissidio dei  “casigliani” per 

l’acqua  stagnante .  La moglie incinta e tre 

figli da sfamare lo indussero a rubare pochi 

cavoli.










 

Il delitto mentre passava la processione della Madonna 

dell’Incaldana

Il cortile dove avvenne il delitto 



Mondragone -  L’undici aprile del 1950, in Mondragone, il contadino Rocco Miraglia, di anni 60, cagionava la morte del suo vicino di casa Antonio Marotta di anni 47, il quale decedeva per emorragia endocranica conseguente a trauma violento in corrispondenza dell’occipite, prodotto dall’urto del cranio contro il suolo nel corso di una colluttazione impegnata tra i due nel cortile comune in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna Incaldana.  I carabinieri della  Stazione di Mondragone, in particolare il Mar. Carmine Calabrese e il Brig. Antonio Chionna, che condussero le indagini,  accertarono che  tra il Miraglia ed il Marotta esistevano dei rancori in quanto il Marotta aveva acquistato per compravendita gli ambienti occupati dal Miraglia  verso il quale aveva anche intentato azione di sfratto per morosità ottenendo il rilascio dell’immobile sito alla via Campanile, 33. Un ulteriore motivo dell’attrito – accertarono gli inquirenti – era il fatto che il Marotta come gli altri “casigliani” nonostante le ripetuto proteste del Miraglia,  che si era alloggiato in altri ambianti del medesimo comprensorio, usava versare nel cortile comune l’acqua di rifiuto che ristagnava dinanzi all’abitazione del Miraglia, non defluendo adeguatamente nella cunetta  ivi esistente.  L’11 aprile del 1950, il Miraglia era intento ad osservare – sul limitare del portone di ingresso della propria abitazione – il passaggio della processione allorché il Marotta, sopravvenuto dall’interno, di buon passo, nel tentativo di portarsi nelle prime file – urtò malamente il Miraglia che per poco non perdette l’equilibrio. Questi, ritenendo intenzionale il comportamento dell’avversario gli rivolse, sottovoce, parole risentite. Il Marotta ritornato sui propri passi diede un pugno al Miraglia. I due si azzuffarono cadendo per terra. Il Miraglia di sotto e l’altro su di lui. Divisi dagli occorsi i due si riacciuffarono finendo, ancora una volta per terra; il Marotta di sotto e il Miraglia di sopra. Separati anche questa volta i contendenti abbandonarono il campo rientrando nelle rispettive abitazioni.




Pochi minuti dopo il Marotta decedeva. Il Dr. Mario Fusco, chiamato di urgenza, esprimeva il parere che la morte fosse stata determinata da emorragia cerebrale d’origine traumatica sulla scorta delle informazioni fornite dalla moglie della vittima, Filomena Gnasso, la quale gli aveva riferito che nella colluttazione il marito era caduto a terra ed aveva battuto con la testa sul selciato. “Alcuni testi nel corso del processo – scrissero i giudici – secondo un modello imperante nelle nostre zone – col quale bisogna sempre aiutare il vivo e non il morto tentarono di accreditare una tesi secondo la quale la morte era principalmente dovuta alla caduta della vittima nel corso della colluttazione”. La moglie della vittima, invece, assumeva di avere sorpreso il Miraglia nell’atto di vibrare al suo avversario un calcio all’inguine. Ella corse in aiuto al marito che soggiaceva alle violenze del Miraglia il quale selvaggiamente lo graffiava al viso e lo percuoteva. Liberato dalla stretta  di costui il congiunto la seguì nella sua abitazione ed alla rampogna della moglie si discolpò dicendo di non aver voluto lui la zuffa. Le disse,  altresì, di aver ricevuto un calcio ai genitali. La difesa si avvaleva dell’opera di un consulente tecnico il quale – limitandosi alle sole deduzioni dei periti ne confutava diffusamente gli argomenti concludendo per la inutilizzabilità degli accertamenti generici avendo i periti trascurato l’esame delle altre zone cerebrali nelle quali forse era la soluzione dell’arduo problema dal momento che i dati acquisiti non potevano fornire all’interprete alcun indirizzo univoco decisivo. Il Miraglia, intanto, subito dopo il fatto si allontanava dal proprio domicilio e si rendeva irreperibile. I carabinieri acquisirono le prime prove. La morte del Marotta fu ritenuta senza intenzione. Chiusa la formale istruttoria si procedeva a carico di Rocco Miraglia, per omicidio preterintenzionale per avere con atti diretti a percuotere e ledere cagionato la morte di Antonio Marotta.   Pertanto i periti conclusero osservando che la morte fu determinata da emorragia cerebrale traumatica in seguito all’urto del cranio contro il suolo. 



Il secondo fatto di sangue: Il delitto dei sette cavoli


Mondragone- Il mattino del 10 gennaio del 1950 verso le ore 8,15 sulla strada campestre che mena nella località,  “Carranola”, in agro di Mondragone fu rinvenuto cadavere Antonio Mesolella, di anni 34, il quale presentava una vasta ferita da arma da fuoco nella regione tra il collo e la spalla sinistra. Due donne, Anna Mangiapelo e Francesca Buonanno, abitante a circa 100 metri dal luogo del delitto, riferirono di avere udito, verso le ore 21 della sera precedente, la detonazione prodotta da  un colpo di fucile da caccia. La moglie dell’ucciso Rosina Pratillo, dichiarava che la sera precedente essendo disoccupato il suo disgraziato marito era uscito di casa verso le ore 18,00, munito di un sacchetto di tela nonché di un pezzo di corda, col manifesto proposito di rubare pochi cavolfiori al fine di sfamare lei, incinta al sesto mese ed altre tre tenere creature. Manifestava altresì il sospetto che ad uccidere il marito potesse essere stato Antonio Di Toro – dato che il cadavere era stato rinvenuto ad una ventina di metri dal fondo del Di Toro – il quale abitava in una casa rurale a circa un centinaia metri.  Attraverso le relative  indagini,  i carabinieri di Mondragone, acclararono che il fondo del Di Toro era coltivato in parte a cavolfiori ed in parte a grano e che  sette cavoli apparivano recisi assai di fresco e che nelle immediate vicinanze si notava una impronta di scarpa che esattamente corrispondeva alle scarpe calzate dal Mesolella; altre orme furono rilevate – quasi simili – alla pianta di un paia di stivaloni di gomma rinvenuti in casa del Di Toro ed al medesimo appartenenti. Nella parte del fondo del Di Toro coltivato a grano – a circa 20 metri dalla coltivazione di cavoli – fu rinvenuto un sacchetto di tela e  a circa tre metri più oltre,  un pezzo di corda.  Sia il sacchetto che la corda venivano dalla moglie dell’ucciso riconosciuti per quelli di pertinenza del marito. I carabinieri portatisi in casa del Di Toro vi rinvenivano soltanto due figliuoli  uno di dieci  e l’altro di otto anni;  i medesimi dichiararono che quel mattino i genitori si erano recati – col corretto – al lavoro in un altro loro fondo e che il padre aveva portato con sé il fucile da caccia. I carabinieri nella perquisizione acquisirono un taglia tacchetti di ferro per tacchetti da cartucce cal. 16, un pezzo di cartone ed alcuni tacchetti già incisi, nonché una certa quantità di pallini di piombo per fucili da caccia. La perizia necroscopica accertò che il Mesolella era stato attinto da  un colpo  di fucile da caccia cal. 16 esploso da distanza assai breve – come era dato di desumere – sia dalla ristrettezza della rosa di tiro e sia dal ritrovamento nella ferita – del tacchetto e dalla crusca usata per il borraggio; nonché da numerosi pallini metallici alcuni a forma sferica ed altri deformati ma tutti del diametro di circa 3 metri. Accertava, altresì, che la morte era stata immediata per la distruzione dei grossi vasi del collo, della carotide e  della giagulare,  fino alla colonna vertebrale. 

Sono innocente ma…
Il secondo da sinistra è l'Avv. Arturo Tucci 


La difesa  chiedeva  anche perizia balistica  che veniva affidata al perito Dr. Ing. Franco Del Re da Napoli. Nel frattempo l’accusato si dava alla latitanza e questo destava ancora più sospetto nei carabinieri ma poi si costituiva il 19 gennaio e protestava la sua innocenza. Intanto su procedeva all’istruttoria col rito formale ed il Di Toro veniva accusato di omicidio volontario con mandato di cattura. Egli insisteva nel protestarsi innocente.   A conclusione dell’istruttoria il Giudice Istruttore – su parere conforme della Procura Generale – riteneva fondati tutti gli indizi e rinviava il Di Toro per omicidio volontario al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.   “Una verità compatta e sicura – scrissero i giudici della Sezione istruttoria nella loro  decisione -  quella che fu il Di toro a sparare contro il Mesolella cagionandone la morte salvo a procedere alla identificazione dell’elemento psicologico dell’azione delittuosa. Gli elementi sono ritenuti  - dalla Corte – assolutamente tranquilli   in merito alla colpevolezza del giudicabile”. Concorsero a rafforzare il convincimento dei giudici: 1) il proposito del Mesolella manifestato dalla moglie  di andare quella sera a rubare i cavolfiori per sfamare lei e suoi figliuoli; 2) il freschissimo taglio dei sei sette cavoli nel fondo del Di Toro; 3) le impronte delle scarpe del Mesolella; 4) il rinvenimento del cadavere e della corda,  come i carabinieri riferirono, a pochi passi dal viottolo che menava al podere del Di Toro. Il Mesolella, sorpreso proprio nell’atto in cui commetteva il furto, cercò scampo nella fuga, nel corso della quale si liberò del sacchetto e della corda, se non ché inseguito, venne attinto quando era già fuori dal fondo dall’unico colpo di fucile da caccia al suo indirizzo  esploso dall’inseguitore.  La causale? Dunque il delitto fu commesso in dipendenza del furto ed in relazione ad esso. La perizia di confronto tra i pallini repertati sul cadavere e quelli trovati a casa del Di Toro accertava che  gli uni e gli altri erano identici per  forma, peso, e composizione chimica essendo costituiti dalla medesima percentuale di piombo e di antimonio. “Per il principio del libero convincimento del giudice dominante nel nostro diritto positivo – scrisse il collegio giudicante – fa la Corte pianamente convinta della colpevolezza del Di Toro che trova anche conferma nel comportamento dello stesso dopo il delitto si allontanava e si costituiva solo dopo 10 giorni;  se era estraneo avrebbe dovuto presentarsi  immediatamente  alle  autorità competenti.  Ma ove occorresse - chiarirono  infine i giudici -  una riprova della responsabilità del Di Toro, si potrebbe agevolmente coglierla nella assai incauta introduzione da lui fatta con esposto del 6 marzo 1950 di due testi manifestamente e spudoratamente mendaci Antonio  Biondillo e Giuseppe Piazza  (il primo dichiarò di avere incontrato il Mesolella alticcio: morto di fame va a rubare ubriaco?).  Il Pizza energicamente ammonito a manifestare il vero, ha sostanzialmente – ritrattando la precedente deposizione – affermato che la sera del delitto imbattutosi nel Mesolella ma che il medesimo – che non era ubriaco ma alticcio – onde non aveva bevuto affatto  - e presentava al viso non con una lividura, bensì una crosta, ossia traccia di lesioni di data non recente, onde deve nettamente escludersi  proprio quanto l’imputato aveva creduto di porre in essere al fine di allontanare i sospetti che gravavano su di lui: che il Mesolella avesse, quella sera, litigato con qualcuno, subendone le violenze. Sufficiente  giustificazione della “ratio decidenti”.

Fonte: Archivio Storico di Caserta








La condanna  in definitiva di 4 anni e mesi 5 per il delitto della processione.- Per il furto dei cavoli la Corte condannò  ad anni 6 e mesi 8 di carcere. 


In esito all’esaurita istruttoria il Procuratore Generale chiedeva disporsi il rinvio di Rocco Miraglia al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Pietro Giordana, giudice a latere,  Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Pasquale Allegretti) per rispondere di omicidio preterintenzionale. Il Miraglia non si costituiva  in carcere neppure nella fase dibattimentale onde si procedeva alla celebrazione del dibattimento in sua contumacia. Dopo le conclusioni della parte civile, il pubblico ministero chiedeva affermarsi la responsabilità dell’imputato con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione. La difesa invece insisteva sulla piena assoluzione del reo e chiedeva pertanto l’assoluzione perché il fatto non costituiva reato; in subordine ritenersi che l’imputato avesse agito in stato di legittima difesa sia pure eccedendo colposamente i limiti della difesa medesima e chiedeva ancora più subordinatamente ritenersi ricorrere nella specie di omicidio colposo e concedersi la sospensione condizionale della pena.  In ultime analisi accogliere le richieste della pubblica accusa concedendo le attenuanti generiche e quelle della provocazione. La moglie della vittima Filomena Gnasso si costituiva  parte civile. La Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere affermava a conclusione della istruttoria dibattimentale la piena responsabilità di Rocco Miraglia chiarendo che “l’evento letale deve infatti attribuirsi alla condotta come effetto e causa. La morte del Marotta fu cagionata da emorragia cerebrale in effetti il Miraglia fece sbattere la testa della vittima più volte sul selciato”, come riferirono i testi Maria Massaro e Giuseppe Langione. La Corte di Assise, in definitiva,  escluse la legittima difesa, l’eccesso colposo ma riconobbe la provocazione della vittima  per aver pronunciato la frase: “ Stu fetente non vuole lasciarmi in pace”;  mentre a pochi passi – conclusero i giudici – si compiva un rito religioso che esigeva silenzio e raccoglimento”. Furono concesse al Miraglia le attenuanti generiche per la buona condotta e la condanna definitiva fu  di 4 anni e mesi 5.  Nel processo furono impegnati gli avvocati: Arturo Tucci, Giuseppe Fusco, Andrea Della Pietra e Ciro Maffuccini. Per l’omicidio dei cavoli, invece,  la moglie della vittima si costituiva parte civile anche nell’interesse dei figli minori e l’imputato. 





La Corte – ritenuta l’assoluta necessità disponeva il proprio accesso sul luogo del delitto e procedeva a numerosi rilievi. Chiuso il dibattimento la parte civile concludeva per l’affermazione della responsabilità chiedendo, altresì, due milioni di lire per il risarcimento del danno con una provvisionale in ogni caso di lire cinquecentomila. Il pubblico ministero dal canto suo  riteneva l’imputato colpevole di omicidio e con la concessione delle attenuanti della provocazione e le generiche concludeva per una condanna ad anni 14 di reclusione. Il collegio difensivo dell’imputato insisteva, invece, per l’assoluzione quanto meno per insufficienza di prove ed in linea molto subordinata – la concessione della discriminante della legittima difesa o ritenersi l’ipotesi della esclusione della volontà omicida con la concessione delle attenuanti generiche, delle attenuanti del valore morale e della provocazione e applicare il minimo della pena.  La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza del 9 maggio 1952 condannò Antonio Di Toro di anni 42 da Mondragone,  per omicidio preterintenzionale in danno di Antonio Mesolella con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione, ad anni 10 e mesi 5 di reclusione.   In definitiva no alla legittima difesa, sì alla provocazione, no all’eccesso colposo, no all’evento diverso, omicidio preterintenzionale e non volontario, no al particolare valore morale e sociale, sì alle attenuanti generiche. Concessa una provvisionale di lire trecentomila. La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Pasquale Falciatore, giudice a latere Mario Sabelli, pubblico ministero,  procuratore generale Michele Conti), con sentenza dell’11 luglio del 1953 ridusse la pena ad anni 6 e mesi 8 di carcere.  Nei processi di primo  furono impegnati gli Avvocati Arturo Tucci, Giuseppe Fusco, Michele Crispo, Bernardo Giannuzzi Savelli, Ettore Botti, Orazio Cicatelli e Ciro Maffuccini.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta   









      

















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