Il delitto fu ordito ad Albanova,
eseguito a Cancello Arnone e
occultato a Castel Volturno Nel marzo del 1946
Un giovane assassinato con un colpo alla
testa e gettato in un pozzo. Un giallo
degli anni cinquanta ancora senza colpevoli
Il delitto fu ordito ad Albanova,
eseguito a Cancello Arnone e
occultato a Castel Volturno Nel marzo del 1946
Era stato sospettato del furto di
una motocicletta ad un possidente del posto.
Accusati
i componenti di una banda e i vertici
della camorra dell’epoca.
Il delitto è rimasto impunito.
L’indagine partì dalla confessione di un componente della banda Giuseppe Diana ( omonimo di Don Diana)
che poi ritrattò adducendo di essere stato seviziato dai carabinieri.
Sull’omicidio vi furono versioni contrastanti dei
carabinieri di S. Cipriano (a favore di un indiziato dell’omicidio) e quelli di
Castelvolturno ( a favore delle tesi dei familiari delle vittime).
Per avere un rapporto ( primo caso nella storia giudiziaria
) il magistrato dovette sequestrare gli atti presso la Caserma dei carabinieri
di San Cipriano.
Castelvolturno
–
Il procedimento per il delitto del
giovane Aquilino Sereno, 22
anni, da Cancello Arnone, ucciso con un
colpo alla testa e gettato in un pozzo, quando Casale si chiamava Albanova e la
camorra era alle origini (meno sanguinaria, più romantica e rassomigliante ai
guappi napoletani) nasce dalle confessioni
di un componente della Banda di
Albanova, Giuseppe Diana e dallo stralcio del procedimento penale Diana più
58, i cui membri, accusati di rapine e sequestri di persona, furono
tutti condannati a vari anni di reclusione.
Allo
ore 19 del 27 luglio del 1946, il contadino Andrea Prisco, nel tagliare dei ramoscelli di un albero, sito nei pressi di un pozzo in località “Cappella S. Martino zona Separi”, in
agro di Castelvolturno, esistente nel fondo di proprietà di tale Raffale
Montesano, notava la presenza di un
cadavere in fondo al pozzo. Ne informò immediatamente alcuni contadini che
lavoravano nella zona, sicché la notizia si sparse nelle compagne ed i carabinieri accorsi
potettero identificare il cadavere per quello di Aquilino Sereno, di anni 21,
coniugato, contadino, abitante al Podere
dell’ Opera Nazionale Combattenti, n°
686 in tenimento di Cancello Arnone. Il
sanitario di guardia potè accertare che la morte risaliva a circa 4 mesi prima
e che essa era stata provocata da colpo di arma da fuoco esploso alla testa
(una vera e propria esecuzione di stampo mafioso) che aveva interessato la
regione temporale parietale di sinistra con foro di uscita dalla corrispondente
regione destra. Risultò pure che il colpo di arma di piccolo calibro (6 o 7),
era stato esploso a breve distanza e che il cadavere era stato gettato nel
pozzo dopo la morte e prima che si verificasse la rigidità cadaverica. Questi
risultati generici venivano confermati dall’autopsia che non accertava la
presenza di altre lesioni né di arma da fuoco né di altro genere oltre quella
menzionata. Le indagini iniziate dal mar. Giacomo Valletta, comandante la
Stazione di Cancello Arnone, permettevano di stabilire che Aquilino Sereno era
scomparso da casa sin dal 15 marzo del 1946 e che vane erano riuscite le
ricerche dei familiari. Fin dal primo momento un fratello dell’ucciso Andrea Sereno accusava esplicitamente
ai carabinieri il padrone dello stesso fondo ove era stato rinvenuto il
cadavere, Raffaele Montesano e riferiva dettagli e circostanziati elementi che
però non venivano specificatamente approfonditi dai carabinieri di Casal di
Principe che, a conclusione delle loro indagini, ritenevano che l’accusa del Sereno non fosse
meritevole di alcun credito attesi i buoni precedenti del Montesano e la
reputazione di cui questo godeva nella zona e i normali rapporti intercorsi con
il Sereno. Gli elementi posti a base della denuncia del fratello della vittima
erano i seguenti: 1) Che andando a prendere dei rovi al confine del fondo aveva
notato – nascosta in quei pressi – una motocicletta alleata (la guerra era
finita da poco) e date le sue precarie condizioni economiche aveva divisato di
impossessarsene. Tali propositi aveva
comunicati nel febbraio al fratello e questi in verità aveva cercato di dissuaderlo da un simile
furto. Dalla circostanza che in seguito
effettivamente la motocicletta era stata rubata e per un complesso di
minacce pronunciate all’indirizzo di colui che aveva commesso il furto, Andrea Sereno era tratto a sospettare che il
Montesano veramente irritato di tale furto avesse realmente messo in essere i
propositi minacciosi che reiteratamente aveva formulato.
Il primo giallo del dopoguerra
Altro motivo di attrito fra
Montesano e il fratello Aquilino andava ricercato nel rifiuto opposto dal primo
a pagare la mediazione per l’acquisto di una partita di biada e nel
risentimento per aver sorpreso l’Aquilino attraversare un viottolo del proprio
fondo manifestatosi in minacce così vibrate da indurre il fratello a recarsi
nell’abitazione della propria madre e ad armarsi per fare immediata vendetta
delle ingiuriose parola che gli erano state rivolte, proposito non
portato in esecuzione per il contegno energico della mamma che non solo aveva impedito al figlio di
impossessarsi dello scannatoio, ma
era riuscita a persuaderlo di desistere da ogni cosa. Solo per
inciso, non fu così, purtroppo, per un
altro fratello del Montesano, Vincenzo, fattore dei tenimenti “Pigliarlarmi” in Vitulazio, brutalmente ucciso, due anni dopo, assieme al
suo padrone Enrico Gallozzi, per
mano del guardiano della tenuta Pasquale Raimondo. Vicenda da noi
raccontata – su questo stesso giornale –
lunedì 25 agosto del 12014. Intanto i carabinieri non trascuravano di
rilevare come i sospetti dei familiari
del morto si dirigevano pure verso eventuali soci per le divisioni del bottino
ricavato dai furti ferroviari ai quali il loro congiunto avrebbe partecipato,
per questi sospetti, ove si eccettui l’orientamento che le indagini assunsero ad
opera degli stessi carabinieri non vennero avvalorati da alcun dato di fatto
concreto, non essendo in alcuna guisa risultato che il Sereno aveva veramente
partecipato ai furti ferroviari. Il Montesano interrogato dai carabinieri di
Castelvulturno il 31 luglio del 1946 negò di avere avuto motivi di rancore
contro il Sereno, riconobbe di aver dato a costui il permesso di raccogliere
legna dal suo fondo ed ammise di aver subito il furto di una motocicletta “alleata”, (cioè militare) e di avere iniziato le
ricerche per rintracciarla. Le accuse dei familiari della vittima divennero più
circostanziate ed attraverso la moglie dell’ucciso Raffaella Iossa, e della madre Benedetta
Tafuri, risultò che tale Mario Di Puorto, era stato due volte a casa del Sereno,
l’ultima volta il giorno stesso della sua scomparsa e l’aveva invitato a
recarsi nella masseria Montesano per incarico ricevuto da quest’ultimo. Che in
compagnia del Di Puorto c’era anche tal Giuseppe
Flagranza.
Il primo falso pentito
La clamorosa svolta nelle
indagini si ebbe il 3 agosto del 1946,
allorquando Giuseppe Diana, (solo omonimo di Don Giuseppe Diana, assassinato 48 anni
dopo) veniva tratto in arresto dai carabinieri di Albanova e due giorni dopo “confessava” di aver ucciso Sereno Aquilino, con la
partecipazione di Mario Di Puorto, su preciso mandato ricevuto da Vincenzo Di Bello e Ruggiero Pignata, i due boss, che imperavano negli anni Cinquanta, (tanto per intenderci “Il
Cicciotto” è mezzanotte e il Sandokan
dell’epoca) spiegando circostanze e modalità. Egli dichiarava, infatti, che Sereno Aquilino, era associato a Di Bello e Pignata, per commettere furti in carri ferroviari in
sosta nella Stazione di Cancello
Arnone. Che il Sereno aveva manifestato più volte l’intenzione di uccidere il Di
Bello, perché costui nella divisione del bottino faceva sempre la parte del
leone. Di queste intenzioni sarebbero venuti a conoscenza il “Vicienzo è bell e Ruggiero ò curto”, i quali in un
pomeriggio di aprile avevano dato incarico a Mario Di Puorto di uccide il Sereno Aquilino. A tale scopo avevano
consegnato al Diana una pistola automatica militare tedesca carica e al Di
Puorto altra pistola Beretta, anche
carica. Era chiaramente una fesseria perché nessun boss consegna un’arma per
poi essere accusato di essere il mandante di un delitto. Ma il Diana – secondo
i magistrati – era un pentito
ammaestrato dai carabinieri.
Per delitto avrebbero ottenuto in compenso il posto di
guardiano nell’ O.N.C.
Dietro suggerimento degli
stessi Di Bello e Pignata il Di Puorto s’era recato a chiamare il Sereno in
casa della fidanzata alla contrada “Seponi”,
nelle vicinanze della masseria Montesano, e col pretesto di dovergli parlare l’aveva
condotto in una strada secondaria a circa 200 metri di distanza ove era
nascosto il Diana. Quivi il Di Purto, aveva chiesto al giovane si era vero che
era intenzionato ad uccidere il Di Bello ed alla risposta affermativa il Di
Purto aveva detto: “Siamo noi che uccidiamo te… prima che tu uccidessi il Di Bello”. Ed
estratta la pistola aveva fatto fuoco
contro il Sereno colpendolo all’addome (ancora una bugia perché la perizia aveva accertato invece che era
stato colpito alla testa). Quasi contemporaneamente anche esso Diana aveva sparato contro il giovane colpendolo al
fianco. I due avevano poi gettato il cadavere nel pozzo andando a riferire al
Di Bello che il “mandato” loro
affidato era stato portato ad esecuzione. Spiegava inoltre il Diana di essersi
prestato ad ubbidire al Di Bello essendogli
stato promesso a lui e al Di
Puorto che in compenso avrebbero ottenuto il posto di guardiano nell’O.N.C. ( i
poderi dell’Opera Nazionale Combattenti). Questo interrogatorio fu dal Diana confermato anche davanti al
Giudice Istruttore in occasione div altre rapine cui aveva partecipato su
istigazione del Di Bello e del Pignata. Mario Di Puorto nel successivo
interrogatorio reso al magistrato negava recisamente di aver preso parte
all’uccisione di Sereno Aquilino e di aver avuto, comunque, i rapporti con il
Di Bello. E di fronte alle affermazioni dei congiunti dell’ucciso, che lui era
propria quella persona che erasi recata a casa del Sereno Aquilino ad invitare
quest’ultimo di recarsi da Montesano l’imputato – in un ampio interrogatorio –
confermato in ogni sua parte al Giudice Istruttore ammetteva di essersi recato
in casa del Sereno per invitarlo a recarsi da Montesano e di aver parlato con
la mamma e la fidanzata della vittima. Spiegava che egli aveva eseguito
l’incarico del Montesano presso il quale esplicava le mansioni di guardiano e
che era stato accompagnato nella visita da certo “Peppe o bisavolo alias
identificato poi per Giuseppe Flagranza.
Tutti sospettati ma nessun
colpevole
Attraverso l’interrogatorio
del Di Puorto è dato altresì apprendere come il Montesano avendo saputo che la
motocicletta l’aveva rubato il Sereno aveva manifestato personalmente a lui il
proposito di ucciderlo. Le espressioni usate dal Montesano in questa occasione
erano quanto mai significative e che cioè “Nessuno
era stato mai capace di rubarlo e che al Sereno avrebbe dovuto dare la
punizione di attaccarlo ad un albero e schioppetterlo”. Il magistrato
inquirente ebbe alcuni dubbi sui
carabinieri di Albanova ed iniziò delle indagini. La questione finale sul loro comportamento
portò a risultati opposti alle loro indagini. Vennero passati al setaccio gli
elenti sul furt6o della moto ( sicuramente perpetrato da Sereno Aquilino – che
non era uno stinco di santo – tanto è vero che già nel 1946 l’avvocato Giuseppe Fusco, per conto della moglie Raffaella Iossa, da Marigliano, dovette
presentare una denuncia perché non riconosceva gli alimenti alla moglie, viveva
con un’altra donna ed andava rubando. Intanto i carabinieri di Albanova aveva
inoltrato un rapporto contro Diana, Di Puorto, Di Bello e Pignata quali esecutori e
mandanti del delitto Sereno Aquilino ed il giudice emise ordine di cattura per
tutti che furono tratti in arresto. Negli interrogatori successivi il Di Bello
negava recisamente. Altrettanto faceva il Pignata che chiariva si trattava di
una volgare calunnia. Il Montesano confermava la circostanza della mediazione
della biada. Chiariva anche che aveva dato da mangiare e dormire a Diana e Di
Puorto perché essendo costoro dei malviventi
era costretto a soggiacere alle loro richieste. Negava di aver dato incarico al
Di Puorto di chiamare il Sereno. Il maresciallo comandante la Stazione di
Albanova, Giuseppe Velotti, depose sui buoni rapporti tra Montesano e
l’ucciso. Salvatore Cavaliere, rese
una testimonianza secondo la quale lui aveva lavorato presso l’azienda agricola
del Montesano in qualità di pecoraio ed aveva notato che dal pozzo – dove fu
poi effettivamente trovato il cadavere – emanava un gran fetore e ne aveva
richiesto la ragione al Montesano ma questi gli aveva risposto che si trattava
di un cane che egli aveva ucciso e
gettato in quel posto. “Mi raccomandò,
inoltre, di non tornare a pascolare nei prezzi del pozzo”.
Per la prima volta nella
storia giudiziaria. Per acquisire il rapporto dei carabinieri di Albanova il
magistrato fu costretto ad
ordinarne il sequestro.
Nel confronto con Montesano
quest’ultimo smentendo l’assunto aggredì davanti al magistrato il testimone
ficcandogli un dito nell’occhio. Ad un tal Vincenzo
Russo, il Montesano aveva chiesto se per caso dal
suo fondo fosse transitato il Sereno con in
spalle una moto rubata. Alla risposta negativa aveva gridato: “Debbo scavare il fosso e metterci
dentro chi si è preso la motocicletta”. Questo teste che abitava vicino a
Montesano riferì di aver sentito anche il tonfo del pozzo. A quel punto fu
operato uno stralcio e fu emesso un
mandato di cattura contro Raffaele Montesano per concorso in omicidio. Arrestato
negò tutto. Ma emerse e si acuì il dissidio tra i carabinieri di Albanova e
quelli di Cancello Arnone. Drammatico fu il confronto innanzi al magistrato tra
il mar. Giuseppe Velotti e Andrea Sereno fratello della vittima. Il
mar. riconobbe che il Sereno aveva sempre accusato il Montesano (l’accusa
contro i mandanti non era ancora avvenuta in quanto la stessa sorse in
relazione alla chiamata di correità e al
pentimento del Diana). Il Brig. Sergio Tufariello, comandante la
Stazione di Cancello Arnone, aveva
sempre accreditato la versione dei familiari della vittima e fece capire al
magistrato che da parte del mar. Velotti si sia mostrata una certa rilassatezza
nei confronti del Montesano. “Deve infine – scrisse il Giudice
della Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli – rivelarsi inoltre un altro dato obiettivo di
natura processuale e che cioè il rapporto del 30 luglio 1946 a firma del Brig. Tufarielo che conteneva le ferme
circostanze della denuncia di Andrea Sereno contro Montesano e notevoli
apprezzamenti del compilatore del verbale sulla necessità di approfondire le
indagini contro il Montesano venne acquisito agli atti solo il 27 luglio del
1947 – dopo circa un anno dal delitto – quando
il Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rimasta
inevasa la richiesta di ottenere i documenti dell’Arma dei carabinieri dovette
– su richiesta dello stesso difensore di parte civile – procedere al sequestro
del predetto rapporto. Bisogna inquadrare il fatto nello speciale
ambiente in cui si verificò, rapportato alla mentalità di un contadino
benestante che si ritiene di essere l’incontrastato dominatore del posto,
considerare la gravità dell’affronto ricevuto ad opera del Sereno e soprattutto
occorre tenere presente come questi delitti siano sostenuti da una spirito
costante dei implacabile vendetta che è
poi affermazione stessa di prestigio e di prepotenza da parte di chi l’esercita”.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Il processo. Nessun
colpevole: Non doversi procedere contro
Di Bello e Pignata “per non aver commesso
il fatto” con la revoca dei mandati di cattura. Per Raffaele Montesano, assoluzione per non aver commesso il fatto dall’omicidio e dalla soppressione del
cadavere; per Diana e Di Puorto insufficienza
di prove per l’omicidio e l’occultamento di cadavere.
La Sezione Istruttoria della
Corte di Appello di Napoli, in data 22 maggio 1950, emise la sentenza del
procedimento penale per omicidio contro: Giuseppe
Diana, di anni 25, da Albanova; Vincenzo
Di Bello, di anni 45 da Albanova; Ruggiero
Pignata, di anni 40, da Albanova; Mario
Di Puorto, di anni 23, da Albanova; Raffaele
Montesano, di anni 38 da Grazzanise e Gaetano
Topa, di anni 28, da Marcianise. Diana, Di Bello, Pignata e Di Puorto
accusati di concorso nel delitto per aver con premeditazione dato mandato di
uccidere Aquilino Sereno, nel marzo
del 1946 in agro di Cancello Arnone. Per avere inoltre al fine di occultare il
delitto nascosto il cadavere di Aquilino Sereno in un pozzo in tenimento di
Castelvolturno. E ancora Raffaele Montesano di omicidio volontario con
premeditazione occultamento di cadavere.
Il Montesano e il Topa, anche di
ricettazione di una motocicletta alleata (militare). La sentenza fece giustizia
delle infamanti accuse del pentito “pilotato”
dai carabinieri per ritorsione (si seppe
anche il perché). Rinvio a giudizio per Montesano, Diana e Di Puorto per
omicidio. Non doversi procedere contro Di Bello e Pignata “per non aver commesso il fatto” con la revoca dei mandati di
cattura. Falsa era la chiamata di correità del Diana. Sbagliò sui colpi:
colpito in zona diversa quindi non era stato lui ad uccidere. Disse che la
vittima aveva la fidanzata invece era sposato ed aveva una bambina. Il Di Bello
non conosceva neppure il Diana. Infine fu sbugiardato anche sul bottino dei
furti alla Ferrovia. Di Bello, Pignata, Diana,
Di Puorto e Sereno Aquilino, non
avevano avuto nessuna partecipazione ai furti.
Il comportamento processuale del Diana – scrive il G.I. è fortemente
sospetto perché la “sua versione produce
un po’ troppo da vicino quelle che erano state le espressioni originarie del
mar. dei carabinieri che nessun elemento fu in grado di raccogliere per
corroborare quelle originarie imprecisioni e che attese l’arresto del Diana per
poter ottenere la ricostruzione del fatto secondo una versione che è resistita
dalla logica più elementare. Ed esso è aggravato proprio dal fatto che fino
all’arresto del Diana non vennero espletate quelle indagini su cui era stata
invece richiamata l’attenzione dell’Arma dei Carabinieri dai familiari
dell’ucciso dandosi dimostrazione di voler deliberatamente scartare una
versione che in ogni moda andava esaminata con tutta l’attenzione che il caso
richiedeva. Al contrario veniva trascurata la segnalazione del Brig. Tufariello
che diligentemente aveva segnalato diversi elementi notevoli per le indagini,
tanto che si dovette ricorrere ad una forma veramente insolita per acquisirli
agli atti e cioè sequestrare quest’atto presso la stessa caserma dei
carabinieri. Né va trascurato il rilievo – che come emerge dal processo – erano
stati proprio Di Bello ed il Pignata quali esponenti del Gruppo di opposizione
al Consiglio Comunale a procurare delle noie al maresciallo Velotti attraverso
una inchiesta disposta dai superiore dell’Arma. Dopo una complessa istruttoria formale i 4
vennero rinviati al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere
(Presidente Pietro Giordana, giudice
a latere, Victor Ugo De Donato, pubblico
ministero Domenico Allegretto. La
sentenza: Per Raffaele Montesano,
assoluzione per non aver commesso il
fatto dall’omicidio e dalla
soppressione del cadavere; per Diana e Di Puorto insufficienza di prove per l’omicidio e l’occultamento di cadavere.
Furono impegnati gli avvocati: Enrico Villani, Giovanni Leone, Vittorio
Verzillo, Vincenzo Fusco, Giuseppe Garofalo, Cesare Di Benedetto, Ettore Pianese, Michele Crispo, Amerigo Crispo e
Alberto Martucci.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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