Accadde
nella Piazza Dei Giudici di Capua il 5 gennaio del 1950 - Un giovane capuano invaghito della sua donna: Epifania di
sangue
La
brutta storia
Capua
– La
notte del 5 gennaio del 1950 in Capua, Enza
Porchiazza cadeva colpita a morte da
tre colpi di pistola sparati da dal suo
ex fidanzato Giuseppe Damiano, 23 anni, da Capua. Appena dopo il fatto il
Damiano, puntando l’arma contro la tempia destra tentò di far scattare il
grilletto ma visto l’inutilità… imprecando contro l’armiere: “disgraziato, disonesto…”, e ad un
giovane che lo fermava ingiunse “Sei un
agente? Altrimenti vado a costituirmi
dai carabinieri”… Così raccontò con particolari raccapriccianti il testo
oculare del delitto Ciro Paglino,
che abitava nello stesso quertiere. Un altro teste – giunto sul posto pochi
minuti dopo il fatto - il mar. dei
carabinieri Vito Ciccarone, raccontò
che Giuseppe Damiano, procedeva da Corso Gran Priorato di Malta in Capua verso
via Ettore Fieramosca, allorquando incontrò la sua ex fidanzata. “Ti vuoi riappacificare con me?”, furono
le uniche parola, alla risposta negativa estrasse una pistola dalla giacca, un colpo ma l’arma si inceppò. Aveva
rapidamente estratto la cartuccia inesplosa ed aveva tirato due colpi a breve
distanza era caduto a terra perdendo i sensi. Non era partito il colpo del
suicidio. La ragazza prontamente portata all’Ospedale Palasciano di Capua, che
dista pochi metri dal luogo del delitto, vi giunse cadavere. La sua, comunque, oltre ad essere una storia
di intenso amore è anche una storia di gelosia folle. La conobbe che aveva 13
anni (abitavano nella stesa via a pochi metri di distanza), se ne invaghì
follemente e soffrì le pene dell’amore per oltre 10 anni. Ma soltanto nel 1943, in piena guerra
mondiale, lei si concesse all’amore. Nel periodo, appunto della guerra, per la
lontananza, era caduto malato. Preso dalla depressione e dalla ipocondria –
racconta la madre – per poco non morì. Al ritorno, però, la ragazza era
indifferente al suo amore. Lui si struggeva, al pensiero che la sua Enza non lo
voleva più bene, ma cercava di distrarsi
con il lavoro. La madre della ragazza non vedeva di buon occhio il
fidanzamento. Lui si era presentato ai genitori ma la futura suocera era
superbiosa con la figlia. Quello della futura suocera era un comportamento borderline: vedeva di buon occhio la
relazione, quando il giovane lavorava e viceversa di ostilità quando era
disoccupato.
Le vicende che erano seguite a questo
risveglio, col loro tormento, gli avevano insinuato l’idea di uccidersi.
Le cose si alternavano ed un
giorno addirittura si lasciarono restituendo foto, regali e lettere che si
erano scambiati. Allora così si usava. Lui allora si era messo l’animo in pace;
non la pensò più per molti mesi ma, il diavolo ci mise la coda. Lui pensava che la futura suocera non godesse
la sua presenza. Era ossessionato da questo fatto. La ragazza, infatti, non lo
amava più. Ma quella cartolina di auguri inviatagli da Enza nel giorno del suo
onomastico – pur essendo senza firma – gli aveva di nuovo rimescolato il sangue
e rinfocolato l’antico ardore e fatto rivivere tutte le sue illusioni, però le
vicende che erano seguite a questo risveglio, col loro tormento, piano piano
gli avevano insinuato l’idea di uccidersi. Prima aveva pensato di utilizzare
per il suicidio un medicinale, che era
in casa, e che egli erroneamente aveva
creduto essere veleno, poi aveva divisato
di suicidarsi con un coltello, ma aveva diffidato da quest’ultimo temendo che
nell’ultimo momento avrebbe avuto ribrezza di affondarlo nelle carni. Aveva
finalmente deciso di ricorrere ad un’arma da fuoco – però non ne aveva alcuna –
né i soldi per comprarla. Per procurarsi la somma occorrente aveva venduto la
bicicletta. Aveva acquistato una pistola Beretta 7,65 presso l’armeria Papetti di Santa Maria Capua Vetere. Con
essa aveva tentato di suicidarsi ma nelle sue mani l’arma non era scattata. Si
era allora recato da Papetti al fine di fare addestramento. Lui il giorno del delitto aveva deciso sì di suicidarsi, ma dopo di aver soppresso la Porchiazza
altrimenti questa sopravvissuta senza
apprezzare il suo estremo sacrificio avrebbe riso sul suo cadavere. Quel
giorno, dopo aver bevuto due caffè, e del liquore al Bar ”Latteria”, dove aveva
sostato per un tempo ed aveva scritto tre lettere: due alla sua famiglia e una
alla futura mancata suocera. Poi su era messo a cercare Enzo e l’aveva
incontrata. Tuttavia, pur col cervello sconvolto era riuscito ad allontanarsi
da lei e a ritornare sui suoi passi.
Estratta l’arma l’aveva puntata
contro Enza, ma il colpo non era partito. Poi sparato altri due colpi che avevano
raggiunta la giovane. Allora lui aveva puntato l’arma contro la sua tempia,
però anche questa volta il colpo non era partito
Ma la fatalità (o il destino beffardo!) aveva
voluto che la incontrasse nuovamente e precisamente all’estremità della via
Ettore Fieramosca, quasi al quadrivio con la via Gran Priorato di Malta.
Estratta l’arma l’aveva puntata contro Enza, ma, pur avendo premuto il
grilletto, il colpo non era partito. Poi sparato
altri due colpi che avevano raggiunta la giovane. Allora lui aveva puntato
l’arma contro la sua tempia, però anche questa volta il colpo non era partito.
Aveva quindi cercato di azionare il carrello di armamento ed in ciò aveva fatto
cadere per terra le cartucce inesplose. Indispettito ed addolorato – di non
aver potuto attuare il suo proposito – di suicidarsi aveva compreso che non gli
rimaneva altro che costituirsi e l’aveva fatto. In caserma gli furono
sequestrate tre lettere e la ricevuta dell’acquisto della pistola. Drammatico
fu il racconto del testimone oculare Ciro
Paglino, che aveva sua figlia piccolina in braccio, la Enza, da lui ben conosciuta, l’aveva salutato ma lui non aveva
risposto. L’azione del delitto fu fulminea: il giovane estrasse una pistola poi
disse: “Vuoi tornare con me?” , la
ragazza ala vista della pisola puntata su di lei rispose: “Non
fare il cretino… i miei non vogliono”, lui la uccise, poi tentò di suicidarsi ma la pistola si
inceppò. La ragazza venne attinta in parti vitali: regione epigastrica,
sopraclavicolare, scapolare. Non ci fu nulla da fare. Al Damiano – al momento
del suo arresto – vennero rinvenute tre lettere: una diretta alla odiata
suocera, e due alla mamma. La più toccante, quella rivolta alla mamma: <<Dio
Perdonami! Mamma cara. Tu che sei un delle più buone, più brave e santa donna i
Capua; tu hai dedicato tutta la tua vita al lavoro per vedermi un giorno
felice; tu che non hai fatto altro che mettermi innanzi sempre la buona strada,
io invece la credevo sbagliata – perdonami è la sola cosa che possa dirti e so
dirti. Tu hai avuto sempre ragione non hai mai sbagliato a dirmi: quella donna
ti farà morire di crepacuore. Io non mai voluto darti ascolto perciò ho
perduto. Addio e perdonami mamma cara. Il tuo indimenticabile figlio Peppino>>.
E l’altra per raccomandargli di donare i suoi effetti personali ad un compagno molto bisognoso. <<Mamma,
era mio ultimo desiderio, ti prego di dare qualche cosa del mio, che
apparteneva a me, a Tonino Asse, perché egli ne ha tanto bisogno. E’ da tanto
tempo che gli ho promesso questo ma finora non l’avevo potuto fare perché come
tu già sai ero sempre nervoso. Addio mamma cara. Tuo indimenticabile figlio
Peppino>>. La terza lettera alla odiata suocera. <<A te vipera
maledetta è dedicato questo mio ultimo scritto. Prima di fare tutto ciò che ho
in mente voglio dirti tutto quanto meriti e innanzi tutto la tua malvagità, il
tuo egoismo, le tue cattiverie. Tu sei la causa di tutto quanto mi è accaduto e
che può accadere; tua è la colpa di tutti i mali che hanno sconvolto la mia
vita di uomo serio. Perché se tu fossi stata una vera madre, se tu non avesse pensato solo ed
esclusivamente che al tuo bene personale sacrificando così la vita degli altri
che ti volevano bene e che tu volevi male tutto ciò non fosse avvenuto sempre
velenoso tu con la tua continua ossessione col tuo continuo spronare – insieme
al quel vigliacco effeminato di tuo figlio – l’avete costretta a fare ciò che lei non avrebbe mai fatto poiché mi
amava fino al punto di volermi uccidere voi due vigliacchi e inumani con le
vostre parole minacciose verso Enza l’avete impaurita talmente che così ha
dovuto cedere a tutto quanto essa non era disposta a fare. Parecchie volte mi
hai offeso ma per il bene e per l’amore
che nutrivo per Enza me le son sempre tenute. Allora incomincia a sentire odio
per te vipera; per tuo figlio nonché per tua figlia piccola e meno che per tuo
marito perché egli è uomo buono. Vipera maledetta. Tuo ex futuro genero>>.
Il Prof. Dr. Pasquale Coppola, del manicomio
giudiziario di Aversa, diagnosticò che
al momento del delitto il giovane “era incapace di intendere e di volere”.
Nella fase istruttoria la
difesa del giovane aveva segnalato al Giudice che l’imputato – dall’infanzia –
aveva sofferto di meningite e tifo. Lo certificarono il Dr. Federico Lusi, da Capua (meningite siorosa); Dr. Alberto Campanelli, da S. Maria C.V.
(meningite acuta) e il Dr. Mario
Pugliese (sifilide). Che il suo delitto era germinato da tare ataviche e da
una confusione mentale. Fu autorizzata una perizia psichiatrica affidata al
Prof. Giulio Freda, Primario
Alienista del Manicomio di Aversa. “Prima
dell’omicidio un giovane serio ed onesto, amante del lavoro – scrisse il
perito nella sua relazione – affezionato
alla famiglia non proclivo al gioco ne dedito agli alcolici”. Il Damiano è
affetto distimie malattie che
interessano l’esteso capitolo delle psicosi affettive “un’anomala costituzione originaria
dell’emozione stabilendo, addirittura, la natura organica delle sue abnorme
reattività” e l’ambiante traumatizzante nel quale prese forma l’idea delittuosa
ed il tossico derivato da quell’ambiente sulla vacillante emotività del
Damiano”… Enza era il suo incubo. Il suo amore aveva un valore forte e solenne
per l’uomo; saltellante e frivolo per la donna; forte e solenne per l’uomo che
giurò di morire con lei anzicchè vivere senza di lei e che alla madre scrisse:
” Perdonami… mamma senza di lei non so vivere”. Un amore saltellante e frivolo
per la Enza, che non comprese la tragedia dell’anima dell’uomo che l’amava per
cui abbandonava e riprendeva con facilità una relazione che essa avrebbe dovuto
sentire gravida di preoccupazioni se avesse ben letto negli occhi del fidanzato
deciso a farla sua. Alla presenza del perito di ufficio il Damiano dava
atto che l’imputato piangeva, “… un
pianto – scrisse il Dr. Freda – non
facilmente contenibile con le comuni risorse confortatrici e consolatrici della
parola”… che non ricorda il fatto…
cioè il delitto; che ha la mente annebbiata che singhiozza… Enza… Enza… E’ un malato a metà anche se voleva
suicidarsi”. In definitiva nella
perizia di ufficio però, il Dr. Freda
diagnosticò che l’imputato era capace di
intendere e di volere. Questo per la difesa significava un probabile ergastolo.
Si corse ai ripari. Si presentò una perizia di parte e venne nominato
consulente il Prof. Dr. Pasquale Coppola,
Primario Alienista del manicomio giudiziario di Aversa, il quale diagnosticò
che al momento del delitto il Damiano “era
incapace di intendere e di volere”.
Una condanna a 10 anni col beneficio del vizio parziale di
mente, con le attenuanti generiche,
oltre il ricovero in manicomio.
Giuseppe Damiano, che aveva ucciso la
fidanzata, fu rinviato al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere (Presidente, Paolo De Lise,
giudice a latere, Victor Ugo de Donato,
pubblico ministero, Pasquale Allegretti;
giudici popolari: Giuseppe De Rosa, Giuseppe Iavarone, Giuseppe De Chiara, Riccardo Ricciardi, Gennaro Cervo, Pietro
Sanfelice e Lucio Argo), per
rispondere di omicidio volontario aggravato. Nel corso del dibattimento furono
ascoltasti molti testi: Levito Sapio,
Ciro Paglino, Ciro Di Furia, Vincenzo
Pontillo, Giovanni Del Poggetto,
Agnese Sgueglia, madre dell’omicida;
Michele Porchiazza, padre della
vittima; Giuseppe Papetti, l’armiere
che aveva venduta la pistola del delitto;
il Dr. Alfonso Gaeta,
farmacista, che aveva assicurato il Damiamo che il liquido da lui
ingerito(insulina)nel tentativo di suicidio non era velenoso; Giuseppe Tufo, l’uomo che aveva
acquistato la sua bicicletta per 8 mila lire, con le quali l’assassino poi
comprò la pistola; Ciro Furia, il
proprietario del Bar Latteria, dove
il Damiano si trattenne prima del delitto e dove scrisse le tre lettere che gli
furono sequestrate al momento dell’arresto. Inoltre quelli che avevano condotto
le indagini, il cap. Luigi Margiotta,
comandante la compagnia dei carabinieri di Capua; il mar. Vito Ceccarano, teste oculare; Anna
Russo e Alfonsina Cosmi, due
amiche della vittima, le quali dichiararono che il Damiano, alcuni giorni prima
del delitto, aveva minacciato di morte la poverina se non fosse ritornata ad
amoreggiare con lui. Commovente fu la deposizione della madre dell’imputato: “Mio figlio era preda – disse nascondendo
il pianto – di una ardente passione per la Porchiezza, nei giorni
precedenti al delitto, durante le feste natalizie, si era mostrato molto
agitato e piangeva, fumava moltissimo e la notte singhiozzava. La ragazza era
superba, anzi, pare godesse alle sofferenze di mio figlio”. Lei – precisò –
che era contraria al fidanzamento poi aveva ceduto per accontentarlo.
Non
fu contestata la premeditazione perché – ragionarono i giudici – la pistola
l’imputato l’aveva acquistata per suicidarsi e non per ammazzare la ragazza. La
parte civile si costituì col gratuito patrocinio. Il pubblico ministero al
termine della sua requisitoria chiese una condanna, col beneficio del vizio parziale di
mente, con le attenuanti generiche, ad
anni 13 di reclusione, oltre il ricovero in manicomio. La difesa, nvece, sosteneva
che andavano concesse le attenuanti per la totale infermità di mente e
proscioglimento del reo; in subordine, vizio parziale di mente, provocazione,
attenuante del valore morale e sociale. La parte civile si associò alla
pubblica accusa. La sentenza fu di anni 10 di reclusione. Nel giudizio di
appello la pena venne ancora ridotta ad anni 6 con la concessione del beneficio della
provocazione. Nei processi furono impegnati
gli avvocati: Giovanni Leone,
Federico Simoncelli, Antonio Simoncelli, Vittorio Verzillo, Pompeo Rendina, Giuseppe
Garofalo e Mario D’Errico.
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