UCCISE LA SORELLA CHE AVVERSAVA LE SUE NOZZE CON UNA DONNA “MEGERA”
Accadde a San Cipriano d’Aversa il 22 maggio 1950
Un
fratricida assurdo, un delitto crudele, un movente incerto ed illogico. Un
delitto germinato da un odio profondo e da rancore ancestrale La vittima,
vedova, aveva una bambina di pochi
anni, che rimase orfana. Gli sparò con
una pistola e la sgozzò con un baionetta.
La
Storia
Casal
di Principe – Verso le ore 13 del 22 maggio del 1950 il
comandante della Stazione dei Carabinieri di Casal di Principe veniva informato
da tale Tommaso De Luca che una donna del luogo Mafalda Esposito, di anni 24, giaceva cadavere a terra nella
sua abitazione. Il rappresentante della Fedelissima accorreva con assoluta
urgenza e rinveniva nei pressi della
porta di ingresso nella sua camera da letto il cadavere della Esposito in una
pozza di sangue. Poiché la voce pubblica accusava i fratelli della vittima con
lei conviventi i carabinieri procedettero al fermo di Mario e Silvio Esposito,
conviventi con la Mafalda e anche l’altro fratello Salvatore, coniugato e non convivente. Mancava un fratello, Alfredo che si era reso irreperibile.
Sottoposti a stringente interrogatorio nella caserma dei carabinieri i tre
fratelli prima negarono, poi si accusarono a vicenda, infine confessarono. Ad uccidere la sorella
Mafalda era stato il fratello Alfredo, di carattere violento e prepotente e in eterno disaccordo con la sorella. Riferirono inoltre i predetti fratelli Mario
e Silvio che lo Alfredo, mai contento delle amorevoli cure della
sorella, che definivano buona, dolce, premurosa, disinteressata e da tutti voluta
bene, consumava i pasti in casa del
fratello Salvatore e della moglie medesima,
dalla quale si faceva lavare la biancheria mentre si recava in casa
della sorella Mafalda, vedova da 4 anni, solo per dormire.
Fratricida: uccise la sorella
vedova con colpi di pistola e la sgozzò con una baionetta militare
A seguito di tali accertamenti
i carabinieri, al comando del mar. Giovanni Porcaro, rilasciarono subito Mario e Silvio Esposito e procedevano alla denuncia con irreperibilità per Alfredo che si era reso uccel di bosco
quale autore materiale del barbaro delitto, con l’aggravante della
premeditazione nonché di Salvatore
che traevano in arresto per concorso in omicidio. Riferivano i verbalizzanti
che a commettere il gravissimo delitto non poteva che essere stato Alfredo Esposito, sia perché il
medesimo era rimasto solo in casa con la sorella il mattino del 22 maggio; sia
perché era risultato di sua pertinenza la baionetta che era servita –
unitamente alla pistola – per la consumazione del delitto e sia, infine, perché
era rimasto accertato che da oltre un
anno egli era in dissidio con la Mafalda.
Motivo del dissidio la opinione che la donna distraesse in proprio profitto parte del salario che ogni
settimana veniva versato da lui e dai fratelli tanto che aveva preferito
recarsi a consumare i pasti in casa del fratello Salvatore. A prova poi della
partecipazione al delitto anche di Salvatore Esposito i carabinieri
riferivano che questi oltre ad essere in non buoni rapporti con la sorella,
giacché pretendeva che la sorella abbandonasse la casa che egli intendeva
abitare con il fratello Salvatore; ed
inoltre, un paia di anni prima – riferivano ancora i carabinieri – aveva avuto
un alterco con la sorella Mafalda
alla quale aveva vibrato un calcio mentre pronunciava una frase di vendetta: “Questa è caparra di morte”.
Si pulì le mani con la rugiada sporche di sangue.
Con un altro rapporto
riservato i carabinieri aggiunsero che il mattino del 22 maggio – poco dopo la
consumazione del delitto – Alfredo
Esposito era stato visto da tale Pasquale
Di Tella, in contrada “Granignola”, di San Cipriano, discorrendo con il fratello Alfredo il quale – a detta del Di Tella – si era portato in un vicino campo di grano pulendosi le mani con
la rugiada e che a richiesta del Di Tella, Salvatore
Esposito gli aveva riferito che Alfredo
aveva le mani sporche di sangue, ma benchè sollecitato non aveva voluto
parlare di quanto era capitato al
fratello. Frattanto l’Autorità Giudiziaria aveva spiccato un mandato di cattura nei confronti dei due
fratelli, accusati del barbaro
fratricida. Chiusa la formale istruttoria,
la Sezione della Corte di Appello di Napoli, con proprio provvedimento, rinviava al giudizio della Corte di Assise di
Santa Maria Capua Vetere i due fratelli per rispondere di omicidio volontario
premeditato, doppiamente aggravato anche
dal vincolo di parentela. Nel primo interrogatorio Salvatore Esposito, assistito dal proprio legale, negava
recisamente la sua partecipazione attiva al delitto respingendo energicamente
anche l’accusa mossagli dalla sorella Orsolina
Esposito di avere gravemente
minacciato di morte la Mafalda in
occasione del litigio di due mesi addietro. Alfredo Esposito, tratto in arresto il 4 luglio del 1950 si
confessava autore del delitto assumendo di avere agito da solo. Dichiarava che
la Mafalda – convinta di un suo
inesistente fidanzamento con tale Rosa
Cardillo, sorella della moglie del fratello Salvatore – aveva fatto di tutto per osteggiarlo ed aveva anche
propalato che egli soffriva di una affezione ai genitali la cosiddetta “coglia”.
Forse una relazione incestuosa tra i due
fratelli? Lei vedova ed ancora piacente,
era corteggiata da molti uomini.
C’era, però, nel suo racconto
qualche cosa che sfuggiva agli inquirenti. Forse una relazione incestuosa? Un
desiderio impossibile? Certo gli è, che
la sorella, vedova ed ancora piacente,
era da molti uomini corteggiata e pare che il fratello fosse geloso
perché voleva riservare solo per lui quella donna. Misteri della convivenza e
del promiscuo in queste famiglie popolari! Alfredo
Esposito nei successivi interrogatori aggiungeva di aver agito però in
condizioni di legittima difesa. Si inventava che il mattino del 22 maggio (ma
gli inquirenti erano increduli) dopo che i fratelli Mario e Silvio erano
usciti per recarsi al lavoro, egli adiratosi per una frase ironica della sorella allusiva al suo prossimo
matrimonio con la Cardillo, si era portato nella camera della sorella
- che era ancora a letto – e l’aveva afferrata per le spalle (ma gli
inquirenti propendevano per una presunta violenza sessuale, forse anche consensuale), scrollandogliele;
che la donna, balzata dal letto ed estratto una pistola (una ricostruzione di
fantasia che insospettì ancora di più il giovane magistrato che lo stava
interrogando) da sotto il guanciale aveva minacciato di ucciderlo – onde egli
le aveva afferrato il polso per impedirle di sparare; che nel corso della
colluttazione era partito un colpo ed egli ritenendo di essere stato colpito
(Sic!)- si era impossessato di una baionetta (insomma pistole e baionette
abbondavano in una casa di una povera vedova) prendendola da una cassa ed aveva
vibrato alla sorella un sol colpo, dandosi quindi alla fuga.
Nel corso delle complesse
indagini era stato escusso – tra gli altri – Luigi Esposito, fratello della vittima, il quale dichiarava di aver
incontrato l’Alfredo, durante la
latitanza e di avere da lui appreso che aveva sparato contro la sorella dopo
che costei aveva impugnato contro di lui
la baionetta. Era una dichiarazione chiaramente mendace. Serviva per aiutare il
fratello? Nella zona vi era ( e vi è) una consolidata consuetudine: bisogna sempre aiutare il vivo a danno del
morto! Ma i magistrati inquirenti pur
non avendola presa per vera la
incartarono lo stesso nel fascicolo.
L’autopsia - affidata ai periti settori
dottori Giovanni Burrelli e Mario Pugliese - accertava che la vittima era deceduta per
emorragia interna, consecutiva a lesioni
giugulari e della carotide ed aveva riportato lesioni al
collo, tumefazione di corpo contundente alle regione parietale destra. Inoltre
il cadavere presentava una vasta zona ecchimotica da morso al terzo medio del
braccio dex e lievitura alle gambe e lesioni varie nette provocate da arma da
punta e taglio. Forame di colpo di pistola in entrata e uscita al polso sinistro. Secondo forame di
colpo di arma da fuoco, con uscita dalla
regione laterale sinistra. La difesa di Salvatore
Esposito – con memoria depositata presso la cancelleria della Sezione
istruttoria della Corte di Appello di Napoli – ribadiva la innocenza dello
stesso e significava che gli indizi
emersi a suo carico erano “pochi e vaghi”;
che tuttavia non potevano essere ritenuti efficaci a configurare una compartecipazione psichica
né materiale all’azione criminosa di Alfredo
Esposito (fratelli? coltelli?) e pertanto ne chiedevano il proscioglimento
con la più ampia formula: “Per non aver
commesso il fatto”.
La mia bicicletta per una
pistola… debbo uccidere mia sorella…
Drammatica fu la testimonianza
di tale Marcellino De Vivo, il quale
innanzi ai carabinieri affermò che – la sera precedente al delitto – Alfredo Esposito gli manifestò il
proposito di vendere la sua bicicletta e di acquistare un pistola perché gli
occorreva in quanto nutriva odio verso una persona di San Cipriano (non disse
che voleva uccidere la sorella) di cui non volle fare il nome. Si discettò
molto sulla premeditazione dell’omicidio. E i giudici rilevarono che non
ricorrevano i presupposti per la premeditazione avendo agito in “frigido pacatoque animo”.
Il Giudice Istruttore, però, rinviava a
giudizio entrambi i fratelli per omicidio. Dalla perizia generica venne fuori
in tutta la sua drammaticità il film dell’orrendo delitto. Il colpevole, dopo
aver colpito con la baionetta - fece uso
della pistola, deciso a por fine con la morte ad una aggressione consumata con
belluina ferocia. “Nessuna parola, in presenza di tali brutali modalità di
esecuzione del delitto va spesa circa “l’animus nocendi”. Fu questa la chiosa finale del giudice istruttore che dispose il
rinvio al giudizio innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.
La
Corte di Assise di S. Maria C.V. condannò Alfredo Esposito alla pena di anni 28
di reclusione. Assolse il fratello Salvatore per il delitto di concorso morale
con la formula dubitativa.
In apertura del
dibattimento, innanzi la Corte di Assise
di Santa Maria Capua Vetere, l’avvocato Giuseppe
Garofalo, quale procuratore speciale di Michelina Martinelli, tutore
della minore Annunziata Martinelli,
figliuola della vittima, si costituiva parte civile contro entrambi gli
imputati. Alfredo Esposito, di anni
22 da Casal di Principe, nel processo si accusò del delitto e dichiarò di
averlo commesso da solo insistendo, però, sulla tesi della legittima difesa. Nel
processo era stato coinvolto anche il fratello
Salvatore Esposito, che si
dichiarava, da sempre, totalmente estraneo al delitto; il primo tratto in arresto il 4 luglio del 1950, ed il secondo il 22 maggio del 1950; entrambi
accusati di omicidio volontario premeditato aggravato dal grado di parentela. L’imputato
uccise la sorella Mafalda Esposito, con colpi
di pistola e la finì con una baionetta sgozzandola. A chiusura della sua
requisitoria il pubblico ministero chiese, con l’aggravante della
premeditazione, una condanna per Alfredo
Esposito ad anni 28 di reclusione e l’assoluzione “per insufficienza di prove”, per Salvatore Esposito. La difesa dei due fratelli invece chiedeva la
esclusione della premeditazione, il minimo della pena, la concessione delle
attenuanti generiche e il proscioglimento di Salvatore Esposito per ”non aver commesso il fatto”. La Corte
osservò che in diritto “la sua
confessione piena, completa, persistente, i pessimi rapporti intercorrenti tra lui e la vittima che valgono a
configurare una adeguata causale e il
fatto di essere stato visto – a brevissima distanza di tempo dalla consumazione del delitto –
pulirsi le mani “lorde di sangue”. Un delitto – scrissero i giudici nella
loro motivazione - senza testimone ma nel quale è intuitiva tutta la efferatezza. Poi
si parlò della affezione ai genitali “lui
riteneva a torto o a ragione che la Mafalda avesse propalato la notizia della sua infermità, il
che lo poneva in una situazione ben comprensibile – di disagio e di
mortificazione. Motivi che ognuno vede ben gravi di risentimento – non
addebitabili con certezza alla vittima – ma certamente capaci – specie in un soggetto in condizioni
di avidità affettiva e di evidente ottusità morale – di determinare la spinta
al delitto anche in presenza di modesto
e inadeguato”.
La Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere (Presidente Paolo De
Lise, giudice a latere, Victor Ugo de Donato, pubblico
ministero Pasquale Allegretto, giudici popolari: Giuseppe De Rosa, Vincenzo Paone, Luciano De Gennaro, Giuseppe Iovane, Gennaro Cervo, Pasquale Auriemma),
emetteva sentenza di condanna il 4 luglio del 1952, irrogando una pena di anni 28 di reclusione.
Assolse il fratello Salvatore per il
delitto di concorso morale con la formula dubitativa. Negava altresì anche le attenuanti generiche
(che non si negano quasi mai e quasi a nessun imputato) con una singolare
motivazione. “Nemmeno si può parlare di
attenuanti generiche. La particolare gravità del fatto, le brutali modalità di
esempio del delitto, che fu il prodotto
di una maturazione psichica, spintasi
fin quasi alla premeditazione, non
rendono il reo meritevole dell’invocato beneficio. Nessuna clemenza!”. Nel
processo furono impegnati gli avvocati: Giuseppe
Garofalo, Ciro Maffuccini e Giuseppe Fusco.
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