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domenica 1 novembre 2015





UCCISE LA SORELLA CHE AVVERSAVA LE  SUE NOZZE CON UNA DONNA “MEGERA”


 Accadde a San Cipriano d’Aversa il 22 maggio 1950


Un fratricida assurdo, un delitto crudele, un movente incerto ed illogico. Un delitto germinato da un odio profondo e da rancore ancestrale La vittima, vedova,  aveva una bambina di pochi anni,  che rimase orfana. Gli sparò con una pistola e la sgozzò con un  baionetta.


La Storia

Casal di Principe – Verso le ore 13 del 22 maggio del 1950 il comandante della Stazione dei Carabinieri di Casal di Principe veniva informato da tale Tommaso De Luca  che una donna del luogo Mafalda Esposito,  di anni 24, giaceva cadavere a terra nella sua abitazione. Il rappresentante della Fedelissima accorreva con assoluta urgenza e rinveniva  nei pressi della porta di ingresso nella sua camera da letto il cadavere della Esposito in una pozza di sangue. Poiché la voce pubblica accusava i fratelli della vittima con lei conviventi i carabinieri procedettero al fermo di Mario e Silvio Esposito, conviventi con la Mafalda e anche l’altro fratello Salvatore, coniugato e non convivente. Mancava un fratello, Alfredo che si era reso irreperibile. Sottoposti a stringente interrogatorio nella caserma dei carabinieri i tre fratelli prima negarono, poi si accusarono a vicenda,  infine confessarono. Ad uccidere la sorella Mafalda era stato il fratello Alfredo, di carattere violento e prepotente  e in  eterno disaccordo con la sorella.  Riferirono inoltre i predetti fratelli Mario e Silvio che lo Alfredo,   mai contento delle amorevoli cure della sorella, che definivano buona, dolce, premurosa, disinteressata e da tutti voluta bene,  consumava i pasti in casa del fratello Salvatore e della moglie medesima,  dalla quale si faceva lavare la biancheria mentre si recava in casa della sorella Mafalda, vedova da 4 anni, solo per dormire.


Fratricida: uccise la sorella vedova con colpi di pistola e la sgozzò con una baionetta militare
A seguito di tali accertamenti i carabinieri,  al comando del mar. Giovanni Porcaro, rilasciarono subito Mario e Silvio Esposito e procedevano alla denuncia con irreperibilità per Alfredo che si era reso uccel di bosco quale autore materiale del barbaro delitto, con l’aggravante della premeditazione nonché di Salvatore che traevano in arresto per concorso in omicidio. Riferivano i verbalizzanti che a commettere il gravissimo delitto non poteva che essere stato Alfredo Esposito, sia perché il medesimo era rimasto solo in casa con la sorella il mattino del 22 maggio; sia perché era risultato di sua pertinenza la baionetta che era servita – unitamente alla pistola – per la consumazione del delitto e sia, infine, perché era rimasto accertato  che da oltre un anno egli era in dissidio con la Mafalda. Motivo del dissidio la opinione che la donna distraesse in  proprio profitto parte del salario che ogni settimana veniva versato da lui e dai fratelli tanto che aveva preferito recarsi a consumare i pasti in casa del fratello Salvatore. A prova poi della partecipazione al delitto  anche di Salvatore Esposito i carabinieri riferivano che questi oltre ad essere in non buoni rapporti con la sorella, giacché pretendeva che la sorella abbandonasse la casa che egli intendeva abitare con il fratello Salvatore; ed inoltre, un paia di anni prima – riferivano ancora i carabinieri – aveva avuto un alterco con la sorella Mafalda alla quale aveva vibrato un calcio mentre pronunciava una frase di vendetta: “Questa è caparra di morte”.


Si pulì  le mani con la rugiada sporche di sangue.
Con un altro rapporto riservato i carabinieri aggiunsero che il mattino del 22 maggio – poco dopo la consumazione del delitto – Alfredo Esposito era stato visto da tale Pasquale Di Tella,  in contrada “Granignola”, di San Cipriano, discorrendo con il fratello Alfredo il quale – a detta del Di Tella – si era portato in un vicino campo di grano pulendosi le mani con la rugiada e che a richiesta del Di Tella, Salvatore Esposito gli aveva riferito che Alfredo aveva le mani sporche di sangue, ma benchè sollecitato non aveva voluto parlare  di quanto era capitato al fratello. Frattanto l’Autorità Giudiziaria aveva spiccato  un mandato di cattura nei confronti dei due fratelli,  accusati del barbaro fratricida. Chiusa la formale istruttoria,  la Sezione della Corte di Appello di Napoli, con proprio provvedimento,  rinviava al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere i due fratelli per rispondere di omicidio volontario premeditato, doppiamente aggravato  anche dal vincolo di parentela. Nel primo interrogatorio Salvatore Esposito, assistito dal proprio legale, negava recisamente la sua partecipazione attiva al delitto respingendo energicamente anche l’accusa mossagli dalla sorella Orsolina Esposito di avere gravemente minacciato di morte la Mafalda in occasione del litigio di due mesi addietro. Alfredo Esposito, tratto in arresto il 4 luglio del 1950 si confessava autore del delitto assumendo di avere agito da solo. Dichiarava che la Mafalda – convinta di un suo inesistente fidanzamento con tale Rosa Cardillo, sorella della moglie del fratello Salvatore – aveva fatto di tutto per osteggiarlo ed aveva anche propalato che egli soffriva di una affezione ai genitali la cosiddetta “coglia”.


 Forse una relazione incestuosa tra i due fratelli? Lei vedova ed ancora piacente,  era  corteggiata da molti uomini.
C’era, però, nel suo racconto qualche cosa che sfuggiva agli inquirenti. Forse una relazione incestuosa? Un desiderio impossibile? Certo gli è,  che la sorella, vedova ed ancora piacente,  era da molti uomini corteggiata e pare che il fratello fosse geloso perché voleva riservare solo per lui quella donna. Misteri della convivenza e del promiscuo in queste famiglie popolari! Alfredo Esposito nei successivi interrogatori aggiungeva di aver agito però in condizioni di legittima difesa. Si inventava che il mattino del 22 maggio (ma gli inquirenti erano increduli) dopo che i fratelli Mario e Silvio erano usciti per recarsi al lavoro, egli adiratosi per una frase ironica  della sorella allusiva al suo prossimo matrimonio con la Cardillo, si era portato nella camera  della sorella  - che era ancora a letto – e l’aveva afferrata per le spalle (ma gli inquirenti propendevano per una presunta violenza sessuale,  forse anche consensuale), scrollandogliele; che la donna, balzata dal letto ed estratto una pistola (una ricostruzione di fantasia che insospettì ancora di più il giovane magistrato che lo stava interrogando) da sotto il guanciale aveva minacciato di ucciderlo – onde egli le aveva afferrato il polso per impedirle di sparare; che nel corso della colluttazione era partito un colpo ed egli ritenendo di essere stato colpito (Sic!)- si era impossessato di una baionetta (insomma pistole e baionette abbondavano in una casa di una povera vedova) prendendola da una cassa ed aveva vibrato alla sorella un sol colpo, dandosi quindi alla fuga. 


 Nel corso delle complesse indagini era stato escusso – tra gli altri – Luigi Esposito, fratello della vittima, il quale dichiarava di aver incontrato l’Alfredo, durante la latitanza e di avere da lui appreso che aveva sparato contro la sorella dopo che costei aveva impugnato  contro di lui la baionetta. Era una dichiarazione chiaramente mendace. Serviva per aiutare il fratello? Nella zona vi era ( e vi è) una consolidata consuetudine: bisogna sempre aiutare il vivo a danno del morto!  Ma i magistrati inquirenti pur non avendola presa per vera  la incartarono  lo stesso nel fascicolo. L’autopsia  - affidata ai periti settori dottori Giovanni Burrelli e Mario Pugliese -  accertava che la vittima era deceduta per emorragia interna,  consecutiva a lesioni  giugulari  e della carotide ed aveva riportato lesioni al collo, tumefazione di corpo contundente alle regione parietale destra. Inoltre il cadavere presentava una vasta zona ecchimotica da morso al terzo medio del braccio dex e lievitura alle gambe e lesioni varie nette provocate da arma da punta e taglio. Forame di colpo di pistola in entrata  e uscita al polso sinistro. Secondo forame di colpo di arma da fuoco,  con uscita dalla regione laterale sinistra. La difesa di Salvatore Esposito – con memoria depositata presso la cancelleria della Sezione istruttoria della Corte di Appello di Napoli – ribadiva la innocenza dello stesso e significava  che gli indizi emersi a suo carico erano “pochi e vaghi”; che tuttavia non potevano essere ritenuti efficaci  a configurare una compartecipazione psichica né materiale all’azione criminosa di Alfredo Esposito (fratelli? coltelli?) e pertanto ne chiedevano il proscioglimento con la più ampia formula: “Per non aver commesso il fatto”.


La mia bicicletta per una pistola… debbo uccidere mia sorella…
Drammatica fu la testimonianza di  tale Marcellino De Vivo,  il quale innanzi ai carabinieri affermò che – la sera precedente al delitto – Alfredo Esposito gli manifestò il proposito di vendere la sua bicicletta e di acquistare un pistola perché gli occorreva in quanto nutriva odio verso una persona di San Cipriano (non disse che voleva uccidere la sorella) di cui non volle fare il nome. Si discettò molto sulla premeditazione dell’omicidio. E i giudici rilevarono che non ricorrevano i presupposti per la premeditazione avendo agito in  “frigido pacatoque animo”.  Il Giudice Istruttore, però, rinviava a giudizio entrambi i fratelli per omicidio. Dalla perizia generica venne fuori in tutta la sua drammaticità il film dell’orrendo delitto. Il colpevole, dopo aver colpito con la baionetta  - fece uso della pistola, deciso a por fine con la morte ad una aggressione consumata con belluina ferocia. “Nessuna parola,  in presenza di tali brutali modalità di esecuzione del delitto va spesa circa “l’animus nocendi”. Fu questa la chiosa  finale del giudice istruttore che dispose il rinvio al giudizio innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.




 La Corte di Assise di S. Maria C.V. condannò Alfredo Esposito alla pena di anni 28 di reclusione. Assolse il fratello Salvatore per il delitto di concorso morale con la formula dubitativa.



In apertura del dibattimento,  innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, l’avvocato Giuseppe Garofalo, quale procuratore speciale di Michelina Martinelli,  tutore della minore Annunziata Martinelli, figliuola della vittima, si costituiva parte civile contro entrambi gli imputati. Alfredo Esposito, di anni 22 da Casal di Principe, nel processo si accusò del delitto e dichiarò di averlo commesso da solo insistendo, però, sulla tesi della legittima difesa. Nel processo era stato coinvolto anche il fratello  Salvatore Esposito, che si dichiarava,  da sempre,  totalmente estraneo al delitto; il primo  tratto in arresto il 4 luglio del 1950,  ed il secondo il 22 maggio del 1950; entrambi accusati di omicidio volontario premeditato aggravato dal grado di parentela. L’imputato uccise  la sorella Mafalda Esposito,  con colpi di pistola e la finì con una baionetta sgozzandola. A chiusura della sua requisitoria il pubblico ministero chiese, con l’aggravante della premeditazione, una condanna per Alfredo Esposito ad anni 28 di reclusione e l’assoluzione “per insufficienza di prove”, per Salvatore Esposito. La difesa dei due fratelli invece chiedeva la esclusione della premeditazione, il minimo della pena, la concessione delle attenuanti generiche e il proscioglimento di Salvatore Esposito per ”non aver commesso il fatto”. La Corte osservò  che in diritto  “la sua confessione piena, completa, persistente, i pessimi rapporti intercorrenti  tra lui e la vittima che valgono a configurare una adeguata causale  e il fatto di essere stato visto – a brevissima distanza  di tempo dalla consumazione del delitto – pulirsi le mani “lorde di sangue”. Un delitto – scrissero i giudici nella loro motivazione -  senza testimone ma nel quale è intuitiva tutta la efferatezza. Poi si parlò della affezione ai genitali “lui riteneva a torto o a ragione che la Mafalda avesse  propalato la notizia della sua infermità, il che lo poneva in una situazione ben comprensibile – di disagio e di mortificazione. Motivi che ognuno vede ben gravi di risentimento – non addebitabili con certezza alla vittima – ma certamente  capaci – specie in un soggetto in condizioni di avidità affettiva e di evidente ottusità morale – di determinare la spinta al delitto anche in presenza di  modesto e inadeguato”. 
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Paolo De Lise, giudice a latere,  Victor Ugo de Donato, pubblico ministero Pasquale Allegretto,  giudici popolari: Giuseppe De Rosa, Vincenzo Paone, Luciano De Gennaro,  Giuseppe Iovane,  Gennaro Cervo, Pasquale Auriemma), emetteva sentenza di condanna il 4 luglio del 1952,  irrogando una pena di anni 28 di reclusione. Assolse il fratello Salvatore per il delitto di concorso morale con la formula dubitativa.  Negava altresì anche le attenuanti generiche (che non si negano quasi mai e quasi a nessun imputato) con una singolare motivazione. “Nemmeno si può parlare di attenuanti generiche. La particolare gravità del fatto, le brutali modalità di esempio del delitto,  che fu il prodotto di una maturazione psichica,  spintasi fin quasi alla premeditazione,  non rendono il reo meritevole dell’invocato beneficio. Nessuna clemenza!”. Nel processo furono impegnati gli avvocati: Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini e Giuseppe Fusco.  





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