Il delitto accadde a Mondragone
l’11 gennaio del 1952
Assassinò
il figlio dell’uomo che gli aveva ucciso il padre 15 anni prima, quando lui
aveva 11 anni. Era presente al delitto e
sfuggì miracolosamente alla morte.
Per la serie: “la vendetta è un
piatto che va servito freddo”. Il primo
delitto avvenne nel 1938 e l’assassino
aveva scontato 15 anni di galera, era uscito da poco ma il giovane applicò la
”legge di sangue dei Mazzoni”, la medioevale fàida;
Mondragone - Virgilio Vellucci, di anni 27, uccise il giovane Giovanni Luongo, a Mondragone, il 10
gennaio del 1952, figlio di Francesco Luongo, che quindici anni
prima gli aveva ammazzato il padre. Il fatto di sangue avvenne alla via
Campanile mediante quattro colpi di pistola. Ai carabinieri che indagavano
tale Elisabetta Palmieri dichiarava
che mentre camminava per via Campanile (la quale era quasi al buio per la
rottura di una lampada d’illuminazione) aveva udito esplodere, a pochi metri di
distanza da dove si trovava, alle sue spalle, un colpo di arma da fuoco; che, voltatasi, aveva visto giacente per terra un corpo umano dal quale partiva la frase: “Disgraziato non è così che si spara”, diretta ad un uomo il quale si trovava distante tre o quattro metri da lui. Che questi, dopo qualche secondo, senza nulla
rispondere, esplodeva all’indirizzo del caduto altri tre colpi di pistola ed indi
si dava alla fuga. Dichiarò, inoltre la testimone oculare del
delitto, che prima dell’avvenimento, sorpassati i due individui (aggredito e aggressore)
i quali, a suo giudizio, andavano ognuno per suo conto, di non aver udito alcun vociare o rumore di alterco fra di essi prima degli spari.
Tale Vincenzo Supino dichiarava poi
che essendosi trovato a percorrere via Campanile per rincasare, aveva inteso, a
distanza di circa 100 metri, l’esplosione
di un colpo di pistola, seguito da un
breve intervallo, poi altri tre colpi di pistola sparati a brevissimo
intervallo di tempo, l’uno dall’altro; che
essendosi avvicinato aveva notato giacente per terra Giovanni Luongo che, emettendo grida di dolore, invocava soccorso dicendo: “ Aiutatemi…chi mi ha ucciso è il figlio di Bidusco”… Che, con l’intervento di persone sopraggiunte,
fra le quale per primi Francesco Miniello
e Giovanni Corrente, provvedeva a
sollevare il ferito e a trasportarlo per i primi urgenti soccorsi presso lo
studio medico del dottor Giovanni Greco. Gli spari erano
avvenuti in pieno centro e le strade, a quell’ora erano affollate. Infatti, molti furono i
testimoni, tra gli altri Giuseppe Salzillo
e Francesco Corrente che dichiararono
anch’essi che, trovandosi nella piazza Umberto I°, avevano udito il rumore dei
colpi d’arma da fuoco esplosi in via Campanile e, che, avendo visto delle
persone accorrere, si recarono anch’essi
nella zona, ma prima di raggiungere il
posto del ferito, avevano notato Virgilio
Vellucci, detto il figlio di Bidusco, allontanarsi a un passo molto affrettato ed in
atteggiamento preoccupato verso via Sementini.
Undici giorni dopo il delitto, i
carabinieri di Mondragone ebbero una soffiata: “Andate a Grazzanise, troverete il figlio di Bidusco nella masseria dei
parenti”. Dopo accurate ricerche e vari appostamenti i militi della
Fedelissima trassero in arresto Virgilio
Vellucci, il vindice della giustizia
“mazzonara”, come lo definì il
procuratore generale nel corso della sua requisitoria.
Un movente passionale alla base del delitto? O
il culmine di una vendetta trasversale –come vuole la tradizione Mazzonara - secondo
la quale la vendetta è un piatto che va servito freddo? Gli inquirenti non
ebbero difficoltà ad individuare il vero movente: la vendetta di un figlio a
cui era stato ammazzato il padre quindici anni prima. Il Vellucci, infatti, ammetteva di aver sparato il Luongo ed assumeva
di averlo fatto perché esso Luongo pretendeva di godere dei favori della sua
amante, Maria Filosa e per ottenere i favori della donna si era presentato addirittura in casa di essa Filosa, (il cui
marito era latitante, perché colpito da un mandato di cattura per omicidio) a
fare delle proposte oscene; non solo, ma
lo aveva anche fermato, quella sera, in via Campanile mentre egli la percorreva
insieme ad un suo amico, Gennaro D’Angelo,
ingiungendogli di lasciare la Filosa. Che, al suo diniego, il Luongo gli aveva puntato
contro il petto la pistola ed egli, avendo perduto il controllo di se stesso, estratta la sua pistola, aveva sparato contro esso Luongo, ma non ricordava
quanti colpi. E’ strano, però, che nel confessare il delitto e nell’adombrare
un movente il giovane avesse dato particolari precisi, facilmente
controllabili: i nomi della donna, del testimone che lo accompagnava, la casa
della Filosa. Sarebbe stato più giusto se il Vellucci avesse direttamente
confessato il delitto per vendetta ed avrebbe potuto avere le attenuanti della
provocazione. Ma poi perché uccidere il figlio e non il padre? Forse perché
quest’ultimo era sorvegliato dai carabinieri? La cosa non è chiara. Resta un
fatto. Il movente è spesso il “caleidoscopio” del delitto, in questo, non lo è
stato. Ma atteniamoci agli atti processuali. I carabinieri, a seguito delle indagini
espletate, denunciavano con rapporto, in data 15 gennaio 1952, il Vellucci quale autore di omicidio
volontario in persona del Luongo, rappresentando, però, una versione diversa
dal movente confessato dall’assassino. Informavano l’A.G. che esso Vellucci
aveva perpetrato il delitto allo scopo di vendicare la morte di suo padre sul
figlio dell’uccisore e senza che fra di essi
vi fosse stata alcuna lite od altra causale. Nel formale interrogatorio il
Vellucci confermava quanto aveva dichiarato ai carabinieri ed indicava come
presenti alla scena del delitto oltre il Gennaro
D’Angelo, anche tali Alessandro Lizziero, Vincenzo Pizzella e Pasquale d’Arienzo, non meglio identificabili. I testi esaminati
dei carabinieri confermavano in istruttoria le dichiarazioni già fatte. Il
macellaio Francesco Miraglia, in
particolare, dichiarava anch’egli di
aver udito, stando nella sua beccheria, il rumore di quattro colpi di arma da fuoco
che, immediatamente dopo una voce esclamava: “Disgraziato è questo il modo di uccidere la gente, aiutatemi…“; e
che, essendo uscito in strada aveva
trovato il lungo giacente per terra, a
distanza di circa cinque o sei metri dalla sua bottega; che, insieme a tale Raffaele Supino che stava per
sollevarlo, quando accorsero numerose persone; che il ferito, prima di
perdere la conoscenza ebbe ancora la forza di dire essere stato sparato dal “Bidusco”; escludeva di aver udito grida
o rumori di alterchi prima degli spari. Tale ultima circostanza veniva confermata anche da altri
testimoni oculari. Anche Michele Avenia e Giacomo Mele, asserivano che la strada era buia e deserta e che
essi, transitandovi, udire all’improvviso il rumore di quattro o
cinque colpi di pistola. La prima pietra che cadde, che costruiva il castello del movente addotto dal
Vellucci, fu il presunto teste che a lui si accompagnava nel momento del
delitto. Gennaro D’Angelo, indicato
dall’imputato nel suo interrogatorio – escludeva di essersi trovato insieme al
Vellucci al momento del delitto. Come pure negavano di essersi trovati sulla
scena del crimine, in via Campanile, i due indicati dal Vellucci: Vincenzo Pizzella e Alessandro Rizzieri.
Ecco, però, arrivare il colpo di
scena alla Hitchcock, che avrebbe dovuto dar credito al vero movente
del delitto. La donna, Maria Filosa,
“amante” ufficiale del Vellucci dichiarò
al magistrato inquirente di essere stata fatta oggetto di proposte oscene da
parte del Luongo; che una sera ebbe addirittura l’ardire di presentarsi a casa
sua e con l’offerta di lire diecimila pretendeva congiungersi con lei
carnalmente. Quella sera però il suo amante si era ritirato ed aveva colto in
flagranza l’occasionale spasimante. Tra i due era scoppiata una lite selvaggia.
Che alcuni giorni prima del delitto il Luongo era ritornato alla carica e - con il perdurare delle sue ripulse - aveva manifestato propositi minacciosi contro il suo
amante Virgilio Vellucci tanto che essa aveva dovuto dirgli: “Se non mi lasci in pace non finirà bene per
te”. Questa versione del movente però, veniva recisamente smentita dai
carabinieri Giuseppe Ferri, Antonio
Conti e Luigi Gallo, della
Stazione di Mondragone i quali riferirono che la vittima “era una persona dedita al lavoro e che era da escludersi il fatto che
avesse potuto importunare la Filosa”. Il delitto doveva quindi ascriversi
esclusivamente al desiderio del Vellucci di voler praticare “una vendetta
trasversale”, molto in uso nell’agro dei Mazzoni, mediante la soppressione del
figlio dell’uccisore di suo padre. Francesco Luongo, (56 anni, contadino,
autore del primo fatto di sangue, sorvegliato speciale) padre della vittima,
esprimeva anch’egli la stessa opinione sostenendo che il Vellucci aveva ucciso
il figlio - in sua vece – per evitare
che, morto lui, suo figlio avesse potuto
eseguire a sua volta un’altra vendetta. “Ero nel circolo “Agricoltori”, alla via
Campanile, sito a pochi metri di distanza dal luogo ove avvenne l’uccisione di
mio figlio. Ero intento a scambiare qualche parola con gli amici quando, nel
silenzio della strada udimmo alcuni colpi che ci parvero, però, fuochi natalizi”.
Nessuno prestò attenzione alla cosa.
Poi il vecchio contadino spiegò che:” Dopo
qualche minuto però, si incominciò a gridare in strada. Allora uscimmo tutti
fuori. Mi dissero che era stato ferito mio figlio. Spiego che io molti anni or
sono, precisamente nel 1938 uccisi il padre di esso Vellucci in stato d’ira per
atti di provocazione compiuto contro di me da esso Vellucci, ed avevo scontato
una pena di 12 anni di reclusione, sui 18 peri quali subii condanna. Ero uscito
dal carcere l’8 aprile del 1950. Durante il periodo di espiazione della pena io
inoltrai istanza per ottenere la liberazione
condizionale ma la vedova ed il figlio dell’ucciso si opposero. Avvicinandosi
il periodo della liberazione io scrissi a mia moglie perché avesse fatto tutto
il possibile perché io uscissi in tranquillità e cioè di ultimare il
risarcimento del danno verso i familiari dell’ucciso, dato che dalla vendita
della nostra proprietà e di tutto quanto possedevamo non si potette ricavare il
denaro sufficiente per soddisfare ogni cosa. Le consigliai di rivolgersi al
parroco della Parrocchia di San Nicola perché si portasse presso la famiglia
Vellucci – come ambasciatore – perché li inducesse a perdonarmi. Il Parroco
accettò di portare l’ambasceria ma la vedova Vellucci lo trattò male facendogli
comprendere che se si fosse trovato presente il figlio Virgilio – esso prete –
non sarebbe uscito vivo da casa loro. La stessa sera, mentre il prete usciva
dalla Chiesa Virgilio Vellucci si presentò
a rimproverarlo – per essersi interposto come pacificatore – tanto che
il parroco dovette anche riprenderlo e fargli capire che era andato soltanto
come ambasciatore”. Il parroco della Parrocchia di San Nicola, Adelchi Don Fantini, deponeva confermando
quanto asserito dal Luongo.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Virgilio Vellucci, da Mondragone, di anni 27, arrestato nel
gennaio del 1952, fu accusato di omicidio in danno di Giovanni Luongo, il cui padre, 15 anni prima, aveva ucciso suo padre e pertanto rinviato al
giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Giovanni Morfino, giudice a latere, Renato Mastrocinque; pubblico
ministero, Nicola Damiani; giudici
popolari: Michelangelo Campofredi,
Antonio di Caprio, Domenico Gentile, Francesco Cerreto, Paolo Acquaroli e Alberto Di Baia) la quale, dopo la requisitoria del
pubblico ministero: ”Nessuna aggressione
da parte della vittima – disse il pubblico ministero - non è veritiera la versione dell’imputato di
essere stato minacciato, con arma, dalla vittima - non furono rinvenute pistole
sul luogo del delitto; nessuna provocazione con le richieste sessuali alla sua
amante, tesi fantasiosa, interamente inventata e non credibile; infine la
vittima doveva partire come emigrante per le americhe, chiedo una condanna a
anni 24 di reclusione per omicidio
volontario premeditato”. Alla pubblica accusa replicò la
difesa: “Bisogna concedere all’imputato
la legittima difesa ed in subordine, ritenersi inesistente l’aggravante della
premeditazione.
Si pensi al trauma psichico che egli, giovane di undici anni –
dovette subire quando al suo cospetto – (e gli atti del relativo processo
attestano che ebbe miracolosamente a sfuggire alla morte) venne ucciso suo
padre Vincenzo Vellucci da Francesco Luongo e quale formidabile
carica emotiva di odio e di rivendicazione abbia avuta la possibilità di
stabilirsi nel suo animo, nel decorso del tempo alimentata certamente dalla
persuasione di dover attuare la vendetta come l’adempimento di un Sacro dovere
impostogli dalla ”legge di sangue del
Mazzone”, la medioevale fàida;
quale effetto possa aver avuto su tale sua persuasione l’esempio deplorevole
del verificarsi di altri consimili delitti, quale quello dei discorsi che,
indubbiamente, fra compagni ed amici, nella sua stessa casa, ad opera dei suoi
familiari, si saranno tenuti sull’oggetto”. “Erano passati 12 anni – ed il
Luongo – espiata la pena doveva tornare in paese: la barbara consuetudine locale
non perdona neppure chi abbia assolto il suo debito dinanzi alla Giustizia
degli uomini! – con questa motivazione la Corte emise la sentenza condannando il giovane ad
anni 24 di carcere. La causale del delitto – spiegarono i giudici – va quindi inequivocabilmente
ricercata nella volontà ossessiva del Vellucci di vendicare la morte di suo
padre: il Vellucci si trova nella necessità di decidersi. E’ necessario agire
però senza precipitazioni dannose in circostanze temporali ed ambientali
favorevoli e, soprattutto scegliere la vittima, una persona cioè che possa
dargli appiglio per la costruzione di una tesi difensiva plausibile. Egli
sceglie il figlio dell’uccisore di suo padre; potrà così commettere una
raffinata vendetta”. Proposto appello il Vellucci venne giudicato dalla Corte
di Assise di Appello di Napoli (Presidente, Alfonso Borrelli, giudice a latere,
Giuseppe Conti, Procuratore
Generale, Emanuele Fernandes) la quale con sentenza del 18 novembre del 1958,
in parziale riforma della prima condanna,
ridusse la pena ad anni 22. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Antonio Simoncelli, Arturo Tucci e Cesare Loassis.
A destra l'avv. Antonio Simoncelli |
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
Nota per i lettori: La
rubrica “Cronache dal passato” sarà ripresa l’11 gennaio del 2016.
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