EFFERATO DELITTO AD ALVIGNANO
SUL QUOTIDIANO CRONACHE DI CASERTA
E ON
LINE SU “SCENA CRIMINIS”
Il delitto accadde in località Marciano
Freddo di Alvignano il 4 marzo del 1953
Antonio Mancini uccise
la cognata con varie coltellate
spalleggiato dal figliuolo Pasquale
A
seguito di diverbio insorto con i propri cognati Maria Francesca Di Girolamo,
Domenicantonio Zampogna, Oreste Marra e Antonietta Zampogna, in ordine alla
ripartizione tra gli eredi di Alessandro Zampogna di un credito di costui da
riscuotersi quel giorno da certo Massimo Villano.
Piedimonte
d’Alife -
Il 1°
marzo del 1953 il comandante della
stazione dei carabinieri di Piedimonte d’Alife inviava un marconigramma alle
autorità giudiziarie del seguente tenore: “Alle
16:00 circa del 28 febbraio scorso in località Marciano Freddo, in agro del
Comune di Alvignano, Antonio Mancino, da
Liberi non meglio potuto generalizzare,
affrontava cognata casalinga trentottenne Antonietta Zampogna cui nutrivano
vecchi rancori per motivi interessi virgola dopo breve alterco virgola vibravale
coltellata virgola producendole profonda
ferita regione addominale destra punto casalinga cinquantenne Francesca Di
Girolamo et contadino quarantatreenne Domenicantonio Zampogna virgola entrambi
cognati malcapitata alla quale accompagnavansi momento delitto virgola intervenuti difesa ferita virgola venivano
aggrediti dal Mancino con reiterati colpi detta arma virgola per cui Francesca Di Girolamo decedeva
istante punto Domenicantonio Zampogna riportava quattro gravi ferite regione
addominale punto Feriti venivano
ricoverati urgenza ospedale civile di
Piedimonte d’Alife ove Domenicantonio Zampogna versa pericolo di vita punto Compiuto crimine Mancino virgola attivamente ricercato
virgola davasi latitanza punto tenente comandante
Fante Orrù punto”.
Con rapporto del 4 marzo del 1953 i carabinieri di Alvignano riferivano che, nel
pomeriggio del 28 febbraio dello stesso anno, in contrada
“Marciano Freddo”, a seguito di diverbio insorto con i propri cognati Maria Francesca Di Girolamo, Domenicantonio
Zampogna, Oreste Marra e Antonietta Zampogna, in ordine alla
ripartizione tra gli eredi di Alessandro
Zampogna di un credito di costui da riscuotersi quel giorno da certo Massimo Villano, Antonio
Mancini, fu Giovanni, spalleggiato dal figliuolo Pasquale di 22 anni, aveva vibrato un colpo di coltello alla
cognata Antonietta Zampone
producendole una ferita all’addome, penetrante in cavità; altro colpo di
coltello alla Francesca Di Girolamo, al fianco sinistro e vari colpi al Domenicantonio Zampogna producendogli
numerose ferite all’addome, delle quali talune penetranti in cavità.
Il giovane
Pasquale nel corso del sanguinoso episodio aveva cooperato col padre, lanciando
sassi contro gli avversari. A seguito della ferite riportate nel luttuoso incidente,
la Di Girolamo decedette quello stesso giorno. All’ospedale di Piedimonte
d’Alife lo Zampogna, prontamente ricoverato veniva giudicato in imminente pericolo di vita
per le gravi lesioni alla regione mesogastrica. Le condizioni dell’altra
paziente Antonietta Zampogna, attinta
alla regione ipocondriaca destra, profonda, alla nona costola, non destavano
all’arme.
In ordine ai precedenti del
fatto, sulle concordi dichiarazioni dei lesi, i carabinieri informavano che tra
il Mancini, che aveva sposato una
figliola del vecchio Alessandro Zampogna,
cui erano succeduti figlioli, e questi
ultimi i rapporti non erano dei più
cordiali per via dell’atteggiamento vessatorio ed aggressivo del Mancini che
voleva farla da padrone, tanto è vero che alla morte del suocero si era immesso nel possesso dei beni ereditari
e non aveva inteso ragione per la pacifica restituzione degli stessi agli altri
aventi diritto.
Quel giorno erano convenuti in
Marciano Freddo i vari coeredi ed i rispettivi coniugi, per la riscossione di
lire 10.000 dovuti alla eredità dal signor Massimo
Villano. Informato di tale circostanza è intervenuto anche il Mancini il
quale però aveva avuto modo di avvicinare il debitore per raccomandargli di non
consegnare agli interessati denaro ma di metterlo al Pretore del luogo per la
distribuzione a chi di dovere in proporzione del rispettivo diritto. Il gruppo
Di Girolamo, Zampogna, Marra venne così ad incontrarsi sulla piazza del paese
con Mancini cui fu rivolto l’invito di accompagnarsi agli altri fino dal parroco cui quel denaro si sarebbe dovuto consegnare in pagamento del
rito funebre celebrato in onore del congiunto deceduto. Alla opposizione ferma
del Mancini, la Antonietta Zampogna, irritata dall’inutile ostruzionismo ebbe
ad esclamare che loro avrebbero potuto fare a meno del Mancini per tale
operazione, non essendo d’altra parte costui neppure facultato ad intervenire in quanto non erede. Alle parole
dell’Antonietta, il Mancini, cavato di tasca un lungo coltello, prese
distribuire coltellate in danno di quelli, a sfogo di un antico rancore. Prima ad essere
attinta fu la Antonietta, seguì poi il Domenicantonio, per ultima0 fu attinta
la Maria Francesca Di Girolamo, che nell’intento di allontanarsi dal centro
dell’azione venne a trovarsi a contatto
con il suo assassino. Mentre il padre andava colpendo i suoi avversari Pasquale li teneva a bada a colpi di pietra. La Di Girolamo al tavolo
anatomico presentava segni palesi di sassate. Tratto in arresto alcuni giorni
dopo, il Mancini dichiarava a sua discolpa
d’essersi recato a “Marcello Freddo” avendo appreso dal cognato Oreste Marra che ivi in quel giorno si
sarebbe dovuto discutere del denaro ereditario. Egli si premurò di invitare il debitore a depositare la somma al Pretore per una giusta assegnazione secondo i rispettivi
diritti. Senonché nella piazza del paese, mentre il figliuolo era a radersi, egli venne affrontato
dai cognati che dapprima lo invitarono
ad una specie di “duello rusticano” nel bosco, poi lo aggredirono e lo
percossero, facendolo segno anche a colpi di pietra dei i quali recava ancora
segni sul mento.
Solo perché sopraffatto
da quelli, egli fece ricorso all’arma, più
per tenere lontani gli avversari che per
recare danno. Escludeva pertanto di essere stato animato in quelle circostanze
da intenzioni omicide, dovendo l’evento attribuirsi ad un fatale esorbitare
dell’azione dai limiti previsti. Le persone offese e i testi presenti confermavano dinanzi al Giudice
Istruttore, cui il processo veniva trasmesso iniziata l’azione penale, per la
formale istruttore, quanto acclarato dai carabinieri in ordine all’iniziativa
violenta del Mancini ed alla cooperazione del figlio di lui. Pasquale Mancini, coinvolto nel procedimento,
per concorso nei delitti di omicidio volontario in persona della Di Girolamo e di tentato omicidio nei confronti
degli Zampogna addebitati al padre, dichiarava di essere stato estraneo all’episodio,
essendo sopraggiunto dal salone del barbiere ove si era nell’intervallo trattenuto, quando l’azione
era ormai esaurita. Dichiara però, di
poter asseverare che il padre era stato aggredito dai suoi avversari, come a
distanza aveva potuto osservare. Gli inquirenti disegnarono la vicenda
affermando che il Mancini l’aveva fatta da padrone fin dalla morte del suocero avvantaggiandosi delle circostanze che la suocera vedova, si è ritirata a vivere con
lui e la figlia Maria per impossessarsi quale “gratuito mallevatore” dei
diritti di quella, dei beni ereditari, che avrebbe voluto mettere le mani anche
sul piccolo peculio dovuto dal Massimo Villano, col pretesto che anche quel
denaro spettasse alla vedova. Ciò riferisce infatti il Villani nella sua deposizione dinanzi al
giudice istruttore. La frase rivoltagli
dallo Antonietta Zampogna: “Faremo a meno di che non sei neppure il
coerede!”, ( alludendo al fatto che alla riunione sarebbe dovuta
intervenire la sorella Maria, moglie del
Mancini) colpì nel viso il Mancini in effetti senza titolo per pretendere la soluzione suggerita al Villani. L’unanime
riferimento di testimoni (Marcucci, Fazzone, Villani, Diana) e nel senso che
l’azione del Mancini, in concitato colloquio con la Antonietta Zampogna fu
improvvisa e terribile dilatandosi col trascorrere dei secondi. Da parte degli aggrediti, neppure un gesto di minaccia che
potesse comunque stimolare la reazione del Mancini. Può nei confronti di costui
dunque concludersi affermando che un “disegno di violenza indiscriminata” era
in lui fino alle prime battute come alternativa all’irrigidimento degli altri
nella pretesa della riscossione della somma da devolversi al pagamento di un
debito ereditario. La contestualità dell’azione, l’accomunamento degli avversari
nelle medesime ragioni d’odio e di rappresaglia legittimamente hanno suggerito
al pubblico ministero la richiesta dell’unificazione “quoad poenam” degli eventi sotto la specie della cooperazione delittuosa.
Quanto
al Pasquale Mancini è fuori di dubbio che
la sua azione si sia utilmente inserita
nel meccanismo causale con una condotta consapevole che lo rende partecipe del
reato contestato al padre. sito il genitore. Non può infatti negarsi che
essendo il giovane intervenuto nel vivo dell’azione - come da tutti i testi concordemente si afferma - affiancando
l’opera del padre con il lancio delle pietre, alcune delle quale attinsero a Di Girolamo al viso,
epperò ponendo gli aggrediti in una
condizione di maggiore pericolo sia per essere costoro costretti a guardarsi
anche dall’opera del giovane, sia per l’impedimento che quest’ultimo
frapponeva, con la sua partecipazione attiva all’episodio, all’intervento
pacificatore di terzi tale sua azione costituisca “concorso materiale” al reato
posto in essere dal padre. Deve tuttavia ravvisarsi in questa partecipazione è un dolo
diverso da quello che guidò la mano omicida del genitore, un intento cioè di
ledere e non di uccidere; di guisa che l’evento finale in concreto risultò più
grave di quello voluto da parte si partecipe. Va riconosciuta al giovane anche la diminuente della minima partecipazione
perché, pur sussistendo il nesso causale “tra la sua azione e l’evento” quella rispetto a questo è di entità molto più
lieve, nel senso che per il verificarsi dell’evento medesimo, l’opera di lui
non ebbe carattere di necessità. Competono al giovane le attenuanti generiche,
tenuto conto del vincolo di subordinazione che operò infaustamente nella sua
determinazione.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
A
chiusura della istruttoria, su conforme richiesta del pubblico ministero, il Giudice Istruttore rinviava
al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni
Morfino; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico
ministero, Nicola Damiani) i due
imputati per rispondere di concorso in omicidio e tentato omicidio. In dibattimento
gli accusati confermavano quanto dichiarato nella fase istruttoria, aggiungendo
che il Pasquale Mancini ebbe a lanciare sassi contro il gruppo contrario
- ma soltanto quando l’azione era
pressoché esaurita - ed al solo fine di tener lontano gli aggressori dal padre,
in condizione di inferiorità. Parti lese
e testimoni insistevano nell’assumere invece che fu Antonio Mancini a muovere per primo l’attacco contro gli altri
esclamando, rivolto alla Antonietta
Zampogna: “I soldi te li farò
prendere sulla punta di questo pugnale!”.
Sen. Avv. Pompeo Rendina |
Nelle discussioni finali il pubblico ministero a conclusione della
sua requisitoria chiedeva una condanna a 30 anni di reclusione per il padre e a 12 anni per il figlio. I
difensori delle parti civili Massimo
Bernasconi e Alberto Martucci concludevano
per l’affermazione delle responsabilità di entrambi gli imputati ritenuta la
continuazione criminosa tra i singoli eventi. Gli avvocati difensori: Pompeo Rendina, Paolo Pinerolo, Luigi
D’Isa, Bruno Cassinelli e Ciro Maffuccini chiedevano rispettivamente per Antonio Mancini, la diminuente dello stato d’ira e le attenuanti generiche; per Pasquale Mancini – in via
principale - l’assoluzione per non aver
commesso il fatto o per insufficienza di prove; in subordinato l’applicazione
della diminuente con le attenuanti generiche. La Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere, con sentenza del 6 dicembre del 1954, in parziale modifiche delle
richieste della pubblica accusa,
condannava Antonio Mancini ad anni 30 di reclusione, ed a nove anni il
figlio Pasquale. Concedeva altresì all’imputato principale le attenuanti
generiche e dello stato d’ira contestando, però, allo stesso le aggravanti
della recidiva nei 5 anni e con il vincolo della continuazione tra l’omicidio
ed il tentato omicidio.
La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente, Filippo D’Errico, giudice a latere, Giuseppe Conti; procuratore generale,
pubblico ministero, Luigi De Magistris, nonno dell’attuale sindaco di Napoli), con
sentenza del 16 dicembre del 1957 riduceva soltanto nei confronti del giovane
Pasquale la pena ad anni 7. La Suprema Corte di Cassazione, con provvedimento
del 18 febbraio 1960 rigettava il ricorso per entrambi.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
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