Preghiera degli ergastolani
per
il Giubileo dei carcerati del 6 novembre 2016
Dal Luglio 2013 nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo.
Papa Francesco ha definito l’ergastolo una pena di morte nascosta.
Dio,
siamo
i cattivi, i maledetti e i colpevoli per sempre: siamo gli ergastolani, quelli
che devono vivere nel nulla e marcire in una cella per tutta la vita.
Dio,
nelle
carceri italiane ci sono uomini che sono solo ombre, che vedono scorrere il
tempo senza di loro e che vivono aspettando di morire.
Dio, molti ergastolani, dopo tanti anni di carcere, camminano, respirano e sembrano vivi, ma in realtà sono già morti.
Dio, l’ergastolano non vive, pensa di sopravvivere e, in realtà, non fa neppure quello, perché l’ergastolo lo tiene solo in vita, ma non è vita.
Dio,
nessun
“umano” o “disumano” meriterebbe di vivere una punizione senza fine, tutti
dovrebbero aver diritto di sapere quando finisce la propria pena.
Dio, nessun’altra specie vivente tiene un suo simile dentro una gabbia per tutta la vita; una pena che non finisce mai non ha nulla di umano e fa passare la voglia di vivere.
Dio, dillo tu agli “umani” che gli ergastolani non hanno paura della morte perché la loro vita non è poi così diversa dalla morte.
Dio, dillo tu agli “umani” che la pena dovrebbe essere buona e non cattiva, che dovrebbe risarcire e non vendicare.
Dio, dillo tu agli “umani” che una pena che ruba il futuro per sempre, leva anche il rimorso per qualsiasi male uno abbia commesso.
Dio, dillo tu agli “umani” che solo il perdono suscita nei cattivi il senso di colpa, mentre le punizioni crudeli e senza futuro fanno sentire innocenti anche i peggiori criminali.
Dio, dillo tu agli “umani” che dopo tanti anni di carcere non si punisce più la persona che ha commesso il crimine, ma si punisce un’altra persona che con quel crimine non c’entra più nulla.
Dio, come fa
a rieducare una pena che non finisce mai? E poi che senso avrebbe morire in
cella rieducati?
Dio, pensiamo che a te importi più che si possa ritornare rieducati fra gli
uomini, a portare buone parole, che un rieducato morto, che neanche tu
forse sapresti cosa farne...
Dio,
dillo
tu agli “umani” che l’ergastolo è una vera e propria tortura, che umilia la
vita e il suo creatore.
Dio, dillo tu agli “umani” che la miglior difesa contro l’odio è l’amore e la miglior vendetta è il perdono.
Dio,
non
so pregare, ma ti prego lo stesso: se proprio non puoi aiutarci, o se gli umani
non ti danno retta, facci almeno morire presto.
Carmelo Musumeci
CHI ERA
Malavita story: «Così diventai il boss della Versilia»
Carmelo Musumeci, in carcere da 22 anni, racconta al
maresciallo Sabatino come iniziò la scalata da malvivente
CARRARA.
Il boss della mafia della Versilia: così era chiamato il temutissimo Carmelo
Musumeci, in carcere dall’ottobre del 1991. Protagonista di una sanguinosa
guerra con il clan Tancredi che insanguinò le province di Massa-Carrara, Lucca,
Livorno e La Spezia negli Anni 80 fino al 91, sta scostando l’ergastolo quale
mandato dell’omicidio di Alessio Gozzani, ex portiere della Carrarese, avvenuto
all’autogrill dell’autostrada vicino a Sarzana nell’aprile del 91. In questi
anni, Musumeci è cambiato: sta conducendo una battaglia contro il “fine pena
mai” - ha scritto al Papa e, in passato, a don Andrea Gallo, a Franca Rame,
tutti ricordati nel suo sito www.carmelomusumeci.com - e sta cercando di fare
riaprire il caso Gozzani. E, contattato dal maresciallo-sociologo Giovanni
Sabatino ha accettato di confrontarsi sulla teoria dell’intelligence da
marciapiede. Ne è scaturito un intervento-verità di Carmelo Musumeci in cui
l’ex padrino della Versilia racconta in particolare la genesi di un boss:
un’infanzia difficile, il collegio e, dopo una fuga finita a bastonate, la
decisione di diventare un delinquente. Pagine forti, come il racconto della
rapina al bar-bisca di Massa nel 1971, quando aveva sedici anni.
Carmelo
Musumeci è ininterrottamente in carcere dal 21 ottobre 1991: vi è entrato con
la licenza elementare, e durante la detenzione ha conseguito una laurea in
Sociologia del Diritto ed una in Giurisprudenza.
«Da
bambino non vedevo amore». Inizia il racconto. «Sono nato in un paesino in
provincia di Catania una decina di anni dopo la fine della seconda guerra
mondiale. Tutto quello che vedevo intorno a me non mi piaceva, non vedevo
amore». Un’infanzia povera, il padre emigrato, lui e suoi fratello crescono con
la nonna materna e le sorelle della madre. E’ la nonna che gli insegna a rubare
e lo porta con sè a fare la spesa. «Una volta mi scoprirono e mia nonna mi
diede uno schiaffo davanti a tutti. E mi gridò: - Quante volte ti devo dire che
non devi rubare! Poi a casa mi diede il resto, sia perché mi ero fatto
scoprire, sia perché le avevo fatto fare brutta figura».
Bocciato
in prima e poi in seconda elementare, a nove anni inizia a lavorare. I genitori
si separano, segue la madre alla Spezia. Finisce in collegio, Musumeci racconta
che in collegio non faceva che piangere, ma una notte scappò. «Vagai per la
campagna per due giorni. Ero solo! Terribilmente solo». Aveva dieci anni, lo
ritrovò un contadino e lo riportarono dal prete che dirigeva il collegio. «Mi
chiuse in una stanza al buio senz’acqua e senza mangiare. Mi ricordo ancora
adesso e provo la stessa ira di allora. Il prete era alto e grosso come una
montagna, era vestito tutto di nero con un grosso bastone in mano e mi disse: -
Bastardo volevi scappare? Dopo questa lezione non scapperai più. E mi diede una
bastonata in testa seguito da un numero infinito di calci appena caddi a
terra». Fu da allora, racconta, che crebbe in lui la determinazione che da
grande si sarebbe «vendicato del mondo».
Delinquente
si diventa. Spiega che aveva trovato un lavoro in una piccola fabbrica dove si
cromava il metallo; il lavoro gli piaceva. Ma il titolare della fabbrica lo
vede mentre baciava la figlia sotto casa: «Incominciò a urlare come un pazzo
furioso. - Come hai osato posare i tuoi sporchi occhi su mia figlia… sei
licenziato… sporco pidocchioso siciliano… vai, via… via…».
Il
salto di qualità: la bisca di Massa. Un suo amico, Alfio - racconta Musumeci -
era un giocatore incallito che giocava tutti i soldi che guadagnava in una
bisca di Massa. La bisca era un bar regolare ma, a un certo orario, la sera,
nel retro, si trasformava in una bisca. Una sera va a giocare in quel
bar-bisca, vince e soprattutto, nota che girano un sacco di soldi liquidi.
«C’erano una ventina di giocatori e molti di loro avevano orologi d’oro, catene
e anelli. Le facce dei giocatori sembravano spiritate. Avevano sguardi persi,
come dei drogati. Già da allora capii che il gioco d’azzardo era una malattia.
Ad un tratto mi venne l’idea di fare una rapina lì dentro. Probabilmente il
proprietario del bar per non rischiare la chiusura non avrebbe denunciato la
rapina. E i giocatori per non rischiare la denuncia per gioco d’azzardo
sarebbero stati zitti. Sì! Sarebbe stato un gioco da ragazzi».
La sera
dopo dopo torna, con due complici e un fucile a canne mozze. Ha 16 anni. E’ il
1971. Entrano con le armi spianate. «-Chi è il proprietario qui? Avanzò un
uomo, poteva avere circa cinquanta anni, statura media, occhi miti da pecora,
corporatura robusta, capelli rossicci e portava i baffi. Aveva un’aria come se
gli fosse morto qualcuno. Gli sorrisi! -Su, su con la vita! Non è accaduto nulla.
Domani potete iniziare di nuovo a giocare … e se mi prendi come socio nessuno
ti rapinerà più i giocatori. Gli occhi di pecora all’improvviso si
trasformarono in occhi da faina. -Ti chiami Francesco? -Sì! Feci una lunga
pausa per tenerlo in tensione. -Vedi Francesco … tu hai un bar e puoi vivere
onestamente, io non ho nulla e per vivere devo fare il delinquente e tu non mi
puoi fare concorrenza. Il proprietario del bar e della bisca capì subito dove
volevo andare a sbattere, era intelligente. I miei due compagni invece mi
guardavano senza capire perché stavo perdendo tempo e perché non ce ne andavamo
subito. -Se mi prendi come socio della bisca, ovviamente non del bar, quello è
tuo, noi due potremmo diventare amici. Francesco ci pensò una frazione di secondo
e mi allungò la mano. Era proprio un figlio di puttana … aveva capito tutto al
volo e mi rispose: -Vienimi a trovare di giorno, andremo a pranzo e ci mettiamo
d’accordo. Gli strinsi la mano. Impedii a me stesso di sorridere di
soddisfazione. -Verrò a trovarti in uno di questi giorni … porto via solo i
soldi liquidi, gli anelli, bracciali, orologi e catene restituiscili ai
proprietari sennò perdiamo la clientela. Mi sorrise come uno squalo. Prima di
andarmene mi girai per guardare il padrone,
nonostante
avesse subito una rapina era soddisfatto. Lo ero anch’io, ero diventato socio
della mia prima bisca e avevo appena sedici anni. Da lì è iniziata la strada
che mi ha portato a diventare, anni dopo, un boss temuto tra La Spezia e
Livorno e sino a Montecatini Terme». (m.b.)
Tags
Nessun commento:
Posta un commento